Il ritiro da Gaza ? E' "solo un simbolo" Igor Man vada a raccontarlo a chi deve lasciare la sua casa
Testata: La Stampa Data: 15 agosto 2005 Pagina: 1 Autore: Igor Man Titolo: «E' un gesto simbolico»
LA STAMPA di domenica 15 agosto 2005 pubblica in prima pagian un editoriale di Igor Man sul ritiro da Gaza. Lo sforzo del "vecchio cronista" è palesemente quello di mettere Israele nella peggior luce possibile nel momento in cui, con coraggio e a prezzo di gravi lacerazioni politiche interne, essa si appresta a compiere un passo unilaterale in direzione della pace, che comporta non pochi rischi. Tanto per incominciare dichiara allora che il ritiro da Gaza ha un valore meramente simbolico: ci vuole ben altro per arrivare a un accordo duraturo e si tratta di ben poca cosa, appena 7500 persone. Che dovranno lasciare le loro case, le loro terre, i loro lavori. Ma questi sono particolari che Man ignora o trascura. In quanto all'accordo definitivo, esso è reso irraggiungibile, come dimostra la storia di questi anni, non dalla indisponibilità di Israele a fare concessioni, ma dall'assenza di un interlocutorre insieme sufficientemente flessibile e sufficientemente forte (abbastanza da lottare apertamente contro il terrorismo) nel campo palestinese. E' questo il senso della preferenza, espressa da Sharon e completamente travisata da Man, per un accordo con gli americani piuttosto che con gli arabi sull'assetto definitivo dei territori contesi. A Sharon Man riserva ancora, ovviamente, una parte delle sue contumelie. Citando il libro "Volti di Israele" del filosofo israeliano di sinistra Avishai Margalit lo descrive così: «Un unico motivo ricorre nel vissuto di Sharon: "provocare sempre una escalation". Egli ritiene che da un disordine causato da un aumento di violenza, uscirà sempre vincitore». Una descrizione riferita nel libro allo "stile" di Sharon come comandante militare, e comunque scritta prima della recente svolta della politica del premier, che ha costretto anche la sinistra israeliana a rivedere il suo giudizio su un politico che è stato a lungo la sua "bestia nera". Man dà però un senso preciso alle affermazioni di Margalit, riferendole alla "passeggiata sulla Spianata delle Moschee" che avrebbe "accellerato" l'intifada. Man sa di non poter scrivere "provocato", dato che è accertato che l'intifada era programmata da tempo: ma che cosa vuol dire in questo contesto "accelerato" non è chiaro, nè l' affermazione così riformulata è suscettibile di essere sottomessa a un qualsiasi criterio di verifica.
Ecco il testo: La notizia non è che il Disimpegno (lo sgombero dei «coloni» israeliani da Gaza) è già in corso, secondo il calendario dettato dal primo ministro Sharon. No. La notizia è che Gaza non è Eretz Israel, vale a dire non appartiene alla Terra Promessa. Così parlò Sharon, lui, «Arik», l’implacabile soldato cui Israele deve tante delle sue sbalorditive vittorie, il leader israeliano che più di tutti, durante trent’anni e passa, s’è dedicato ad impiantar sempre nuove «colonie» e sempre più nel cuore della Palestina araba. E questo perché fosse chiaro - ad amici e nemici - che l’insediamento nelle «terre bibliche» di «colonie» ebraiche era una realtà. Irrevocabile. Invece: «Andarcene è una buona cosa. Quella terra non è la nostra terra», ipse dixit, a Israele, al mondo, Sharon. Il diavolo s’è fatto frate? il ritiro da Gaza prelude a un futuro sgombero di Israele dai territori occupati, nel 1967, grazie a quel capolavoro bellico passato alla Storia come la Guerra dei Sei giorni? Vediamo. «Un unico motivo ricorre nel vissuto di Sharon: "provocare sempre una escalation". Egli ritiene che da un disordine causato da un aumento di violenza, uscirà sempre vincitore». (Volti d’Israele di Avishai Margalit - Carocci). Con la famosa passeggiata sulla Spianata delle Moschee, Sharon accelerò lo scoppio della seconda intifada che ha trasformato Gaza in una fabbrica di terroristi suicidi. Ebbene, il generale-premier esce da quell’inferno da vincitore, ovvero, come gridano i leaders palestinesi (dai duri di Hamas allo stesso accomodante Abu Mazen) da sconfitto? Non ha vinto ma neanche ha perso. Certamente alla lunga la asimmetrica guerra di attrito con la galassia assolutista di Hamas avrebbe finito col logorare anche un esercito eccellente qual è quello israeliano, la cui laicità leggendaria, per altro, segna il passo di fronte al montare d’una predicazione religiosa intrisa di nazionalismo istericamente estremista. Sharon ha spedito in paradiso tutti i più incisivi leaders di Hamas, ha messo in galera agitatori grandi e piccini ma per sradicare un movimento che è anche una capillare opera assistenziale avrebbe dovuto scatenare una guerra senza misericordia e questo avrebbe significato impantanarsi in una palude insidiosa, in un Paese dove ogni soldatino ha nome e cognome e indirizzo, attirandosi per di più la rituale accusa di «genocidio». Ha preferito andarsene da Gaza perché il ritiro di appena 7500 «coloni» può anche comportare fastidi non solo politici ma è soltanto un gesto simbolico. Che poi ci sia qualcuno che crede d’aver battuto Sharon e Tzahal, e gridi «dopo Gaza Gerusalemme», pazienza. Nel 1956, dopo la crisi di Suez, i caschi blu dell’Onu fecero da (valido) cuscinetto fra le truppe anglofrancesi e quelle egiziane. Via via i caschi blu si ritiravano consentendo così all’esercito (dimezzato terribilmente) di Nasser di fare ingresso a Ismailia, a Porto Said. Chi scrive era laggiù e ricorda i titoli, gli articoli trionfali della stampa egiziana. Non è una novità e infatti Sharon ha lasciato correre. Il vecchio generale non ha nessuna intenzione di restituire i territori occupati nel 1967 e, del resto, la leadership palestinese sembra aver già metabolizzato «piccoli ritocchi» addolciti da «compensazioni territoriali». Par di capire che una volta ancora e questa volta più che mai, Sharon preferisca accordarsi con gli Stati Uniti piuttosto che con gli arabi. Il ritiro da Gaza fu subito benedetto da Bush dal quale Sharon vorrebbe, ora, un ruolo importante nel progetto di democratizzazione del Medio Oriente. Ma codesto progetto passa per la cruna, stretta assai, del post-komeinismo nell’Iran ossessionato dal nucleare. La sicurezza di Israele è legata alla pace ma una pace in buona e dovuta forma comporta ben altri «sacrifici» che non il ritiro (remunerato) da Gaza. Durante la crisi di Suez, nel 1956, i ragazzi israeliani cantavano: «Sempre in tre / saremo: / io, tu e la prossima guerra». Cosa cantano, oggi, i ragazzi nati in gran parte dopo la Guerra dei Sei giorni e pei quali l’occupazione della Cisgiordania è un dato di fatto? Forse neanche gli amici di «Pace adesso» lo sanno. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.