Alla vigilia del ritiro da Gaza reportage di Fiamma Nirenstein
Testata: La Stampa Data: 15 agosto 2005 Pagina: 5 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «L’ultima notte a Gaza fra rabbia e rassegnazione»
LA STAMPA di lunedì 15 agosto 2005 pubblica un reportage di Fiamma Nirenstein da Gaza, alla vigilia del ritiro.
Ecco il testo: Scende l'ultima notte sul Gush Kativ israeliano di Gaza: nera, umida, stupefatta, inadeguata. Le onde mediterranee dicono addio alle case col tetto rosso degli israeliani, alle loro serre. Con lo stesso ritmo saluteranno il nuovo mondo che si approssima, i palestinesi che fra qualche giorno, con le bandiere e gli autobus, sciameranno verso le parti della Striscia che chi ha meno di 38 anni non ha mai visto. Ormai sono parecchi i camion carichi di masserizie che attraversano il check point di Kissufim. A mezzanotte entreranno i soldati e i poliziotti, 50 mila uomini. Un segno dell’immensa difficoltà della vicenda: devono sgomberare solo 8.000 persone di cui circa la metà stanno impacchettando i loro beni. Ma ci sono anche i 3.000 ragazzi entrati clandestinamente, che saranno lo zoccolo duro della resistenza. I soldati sono pronti, per mesi hanno provato le scene del pianto delle donne e dei bambini, della resistenza fisica dei giovani, lo strazio di trascinare via anziani e disabili. La notte è scesa, nessuno dorme, di qua e di là dal confine che fra tre giorni diventerà il confine con l'Autonomia palestinese. Non dorme la gente nelle case, non dormono i soldati pronti ad agire. Andranno di porta in porta a chiedere di uscire entro il 17 mattina: a Netzarim, a Nevet Dkalim, a Kfar Darom, ad Alei Sinai.. nei 21 insediamenti dove Ytzhak Rabin in persona mise le prime mesusot, il segno di benedizione che orna la casa di tutti gli ebrei del mondo, promettendo che quelle case, quelle serre, quelle fabbriche sarebbe rimaste per sempre. Ci sono famiglie che tremano all'idea di vedere il loro figlio in divisa apparire sulla soglia della casa in cui è cresciuto, a intimare lo sgombero. La notte arriva dopo che la gente del Gush ha digiunato da sabato sera. È Tisha Be Av, ricorrenza tragica nella storia ebraica, perché ricorda sia la distruzione del Primo Tempio nel 586 a.C. che quella del secondo, nel 70 d.C., quando gli ebrei, sconfitti dalle legioni dell’imperatore romano Tito, ma anche da violentissime lotte interne, persero Gerusalemme. Nella casa di Nevet Dkalim che appartiene a Rachel e Moshe Sapperstein, si è accampata una strana, piccola tribù: un pastore olandese con la moglie, una coppia di Tel Aviv, lui è avvocato, tre ragazzi infiltrati. Sono tutti convinti che questo sia un altro Tisha be Av, dopo i primi due, dopo la cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492 e la Shoah. Difficile convincerli che di là da Kissufim c'è oggi per prima volta nei secoli lo stato di Israele e non un mondo ostile, privo di approdo. Rachel, la padrona di casa, rotonda, corti capelli biondi, una camicia arancione lieve e trasparente, gurda dalle grandi finestre ad arco i fiori rosa e gialli e gli ulivi che ha piantato negli anni. Alla parete un grande ritratto di Mahler. Moshe, giornalista, per anni titolare di una rubrica sul Jerusalem Post, un rosso di buon carattere che ha perso un braccio e una gamba nella guerra del ‘73 e che poi ha avuto l'altra mano distrutta in un agguato a fuoco vicino a casa, esce sbadigliando dalla camera dove nel tardo pomeriggio si è concesso un riposino. C'è solo da aspettare. La sera la tribù, che non ha impacchettato niente, che non se ne vuole andare, si dà un'aria serena, come conviene ai combattenti, ma è furiosa. Rachel parla di un «disastro umanitario, condannato secondo la carta dei diritti dell'uomo». «Abbiamo tentato per mesi di uscire da qui con onore - dice - ma nonostante alla tv proclamino che "c'è una soluzione per tutti", in realtà il governo non ha trovato case e neppure caravan, solo orrende stanze d’albergo. Noi volevamo soluzioni collettive, perché viviamo collettivamente da vent'anni; e decenti, perché abbiamo case curate e ampie. La fretta, l'incompetenza, la insensibilità di Sharon non ci hanno consentito di trovare la minima motivazione per andarsene. Pensi che se accettiamo una di quelle "caraville" prefabbricate a Nitzan, le migliori fra le miserabili soluzioni offerte, dovremmo pagarci 450 dollari al mese di tasca nostra. No, noi restiamo qui, fino a quando non ci trascineranno via. Mi sembra la cosa più decorosa da fare». In molti, al di là di ogni opinione politica, condividono la sensazione di essere alla vigilia non già una vita nuova, ma di un destino da profughi, ammonticchiati, provvisori, senza lavoro nè dignità sociale. In verità, Jonathan Bassi, il pacato e coraggioso incaricato di Sharon che in quest'ultimo anno ha cercato in ogni modo di convincere i coloni a chiamare l'ufficio destinato a distribuire case e lavori, ha ricevuto risposte tardive e ostili, fino a che ha lanciato un pubblico grido di dolore: «Non vi accorgete che uscirete nudi come Adamo e Eva? Che lascerete morire le vostre bestie e le vostre piante? Che i vostri figli non avranno un posto a scuola a settembre?» Molti se ne sono accorti solo da un paio di giorni. Non solo perché aspettavano il messia, ma anche perché speravano che quei maledetti 150 mila shekel di risarcimento per la casa (meno di 30 mila euro), diventassero una cifra più consistente. E ora si accingono a una vera fuga dall'Egitto. Due case l'una di fronte all'altra nel piccolo insediamento di Bdolach (35 famiglie) offrono in queste ore due diversi spettacoli di ansia. La casa di Dudi Sigdon doveva essere molto bella: un salone affacciato sul mare, una cucina che pare uscita da un film americano, cinque camere per una famiglia con cinque figli Ora ci aggiriamo per stanze da cui tutto è stato divelto, finestre, porte, vasche da bagno, doccia. Tutti, compresi zii e vicini, aiutano, anche nottetempo, a portare via tutto ciò che si può. In ogni stanza i bambini hanno lasciato graffiti, probabilmente contenti di avere finalmente il permesso di scrivere sul muro. Per terra sono restati i colori a cera con cui è stato scritto: «Il regno incantato della principessa Luli», che ha sette anni. Su un muro si legge: «La famiglia di Dudu e Smadar e i bambini, fu». Tutti sono furiosi: «Non è chiaro, non è chiaro che cosa voglia Sharon - ripete Elisha, uno degli zii - io per la pace sono pronto a sudare.. però ci dovevano trattare meglio». Di fronte invece c'è Yacov, che sta preparando i pacchi e le casse, ma non si vuole fare vedere. Lavorerà tutta la notte in silenzio, ma domani dovrà cominciare anche lui a usare il trapano. Forte e stridente, come lo sentiamo risuonare nella notte: copre il rumore delle onde, del vento. Questa notte sarà l'ultimo ricordo a cui molti si attaccheranno per tutta la vita. «Un giorno guarderemo da lontano, col cannocchiale e diremo: guardate, abitavamo là e i nostri ulivi e le nostre insalate erano i migliori». Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.