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Il Foglio Rassegna Stampa
14.08.2005 Cosa avverrà dopo il ritiro da Gaza
l'analisi di Emanuele Ottolenghi

Testata: Il Foglio
Data: 14 agosto 2005
Pagina: 2
Autore: Emanuele Ottolenghi
Titolo: «I lunghi giorni di Gaza»
A pagina 2 dell'inserto IL FOGLIO di sabato 13 agosto 2005 pubblica il terzo e ultimo articolo della serie dedicata da Emanuele Ottolenghi alla storia e all'analisi politica del conflitto israelo-palestinese dal 1967 al ritiro da Gaza (vedi "La decisione del ritiro da Gaza viene dal fallimento di Camp David, quando Israele ha capito di non avere un interlocutore palestinese", Informazione Corretta del 8-08-05 e " Dalla guerra dei sei giorni al ritiro da Gaza" del 29-07-05)

Ecco il testo:

Sei giorni di giugno sconvolsero le sorti del medio oriente. Da quella guerra, che cambiò la mappa della regione e i termini del conflitto araboisraeliano, sarebbe potuta emergere una pace separata, fondata sulla proposta israeliana del 19 giugno 1967: il governo del primo ministro Levi Eshkol, con una maggioranza di un solo voto, si era detto disposto a restituire a Siria ed Egitto i territori appena conquistati – alture del Golan e penisola del Sinai – in cambio di pace e pieno riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi. Per la Cisgiordania, l’idea differiva da quanto offerto a Siria ed Egitto: Israele proponeva invece di negoziare, direttamente con i notabili palestinesi, un regime di autonomia, cioè quanto l’accordo di Camp David con l’Egitto codificava e l’accordo di Oslo con l’Olp avrebbe poi messo in pratica. Ma la guerra aveva creato nuove condizioni e se il mondo arabo sperava, alla vigilia del 5 giugno 1967, in una rivincita che portasse alla completa distruzione d’Israele, dopo una sconfitta così umiliante non era di certo pronto a cambiar corso e accettare i principi contenuti nella proposta israeliana. I cardini di quella visione furono nonostante tutto negoziati e sanciti internazionalmente nella risoluzione Onu 242, approvata dal Consiglio di sicurezza il 22 novembre 1967. Ma i termini di quella risoluzione, tenuti notoriamente ambigui per evitare il veto incrociato delle due superpotenze, sono stati messi in pratica da Israele ed Egitto soltanto dopo un’altra guerra. Tra Siria e Israele e tra
Israele e palestinesi manca ancora un accordo che chiuda la partita. Il dopoguerra del 1967 mostra come la finestra d’opportunità – se mai era stata spalancata dal conflitto – si chiuse rapidamente. Il mondo arabo, sconvolto dagli esiti della guerra, cercò scuse e capri espiatori, accusando Stati Uniti e Inghilterra di aver partecipato, a fianco d’Israele, nelle ostilità. Non potendo capacitarsi di esser stati
umiliati e sconfitti dagli ebrei soltanto sul campo di battaglia in maniera così eclatante, i nazionalisti arabi tacciarono gli americani di tradimento, rompendo le relazioni diplomatiche con l’America. Non potendo ammettere che la retorica panaraba da sola non poteva vincere una guerra, fu più facile abbracciare un vittimismo terzomondista e antimperialista che scaricava le colpe del disastro arabo su un complotto occidentale piuttosto che ammettere le proprie colpe e insufficienze. Un esame di coscienza avrebbe forse portato a ben altri esiti,
ma l’11 giugno del 1967 il mondo arabo non era pronto a guardarsi allo specchio.
L’Egitto avrebbe riaperto le porte agli Stati Uniti solo dopo la guerra del 1973. I regimi baathisti, Iraq e Siria, avrebbero aspettato ancora a lungo. Alle monarchie conservatrici fu permesso di mantenere quei rapporti, ma al costo di sostenere lo sforzo bellico egiziano contro Israele. I termini del nuovo status quo arabo furono negoziati a Khartoum nel settembre 1967. Dal summit della Lega araba convenuto
nella capitale sudanese emersero i tre no a Israele: no al riconoscimento, no alla normalizzazione, no alla pace. Il rifiuto arabo, coniugato all’euforia israeliana che la vittoria aveva provocato, rese la proposta di Gerusalemme lettera morta. Nell’estate del 1968 iniziarono i primi insediamenti israeliani e il movimento per la Grande Israele prese forma grazie al sostegno di prominenti figure intellettuali della sinistra laburista. I sovietici, responsabili di aver fornito la scusa per l’apertura
delle ostilità al presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, continuarono a sostenere il fronte del rifiuto e ruppero le relazioni diplomatiche con Israele. Gli americani consolidarono invece i loro rapporti con lo stato ebraico. E la guerra fredda fece il resto. Sei giorni di guerra e le conseguenze di quel conflitto continuano a pesare sulla regione quasi quaranta anni dopo. Quattordici giorni di luglio nell’estate
del 2000 avrebbero potuto egualmente sconvolgere il medio oriente, rompendo tutti i tabù che 33 anni di conflitti, occasioni perdute e diplomazia avevano contribuito a consolidare. L’incapacità di Yasser Arafat di cogliere l’occasione di un accordo permanente con Israele e abbandonare per sempre i sogni di una Grande Palestina che sostituisse lo Stato ebraico invece che vivergli accanto resero il summit di Camp David non solo un fallimento diplomatico ma il preludio a un
nuovo conflitto. Gli errori diplomatici americani, lo scarso appoggio saudita ed egiziano, le dinamiche politiche interne di Israele e Stati Uniti alla vigilia di un’elezione presidenziale contribuirono a ridurre lo spazio di manovra dei leader dopo il fallimento del summit e, con l’inizio della seconda Intifada alla fine del settembre del 2000, si perse infine l’occasione di portare a termine il processo di Oslo, iniziato sette anni prima sotto ben altri auspici. La dinamica del conflitto sostituì rapidamente gli spazi interlocutori esistenti tra le parti e rese impossibile
ogni ritorno al tavolo dell’accordo. Ma la natura dei negoziati che lo avevano preceduto, e in parte accompagnato durante le sue prime fasi, aveva chiarito come in realtà il conflitto fosse un’opzione razionale per i palestinesi, alla luce dei risultati del summit: non esisteva infatti un punto d’incontro tra le esigenze di palestinesi e israeliani e un accordo, perduranti i rapporti di forza tra le parti, non era dunque possibile, a meno che i palestinesi fossero stati disposti a rinunciare ad alcune delle loro pretese. La guerra era una scelta logica perché uno scontro con Israele non poteva che riequilibrare i rapporti di forza a favore dei palestinesi e a discapito di Israele, offrendo, attraverso una combinazione di terrorismo, intransigenza diplomatica e pressioni internazionali, lo spiraglio per ulteriori concessioni israeliane. L’errore di calcolo fatto da Arafat nell’abbracciare l’Intifada, scoppiata spontaneamente all’indomani della visita di Ariel Sharon al Monte del Tempio, luogo sacro a ebrei e musulmani, fu nel non arrestarne la furia distruttiva
dopo le prime settimane, quando significative concessioni israeliane, sotto pressione per la violenza e l’immagine negativa accumulata a causa della risposta militare, erano ancora possibili. Ma Arafat ritenne che l’Intifada avrebbe fatto il suo gioco, portando Israele a capitolare su Gerusalemme e sui rifugiati. Le radici dell’Intifada si trovano dunque nel fallimento di Camp David e nella speranza palestinese, frustrata dalla reazione israeliana, di ottenere migliori termini d’accordo da parte di un’Israele indebolita militarmente, isolata diplomaticamente e impaurita psicologicamente dall’ondata di terrorismo scatenata da tutti i gruppi palestinesi, nazionalisti o integralisti, contro la popolazione civile israeliana. Il summit rappresenta una sorta di momento della verità che ha messo a nudo come la diplomazia avesse esaurito il suo corso e solo le armi avrebbero potuto, in un calcolo razionale rivelatosi per altro spericolato ed errato, cambiare le sorti dei palestinesi. Quel momento della verità condiziona tuttora il conflitto. Le radici del ritiro da Gaza si trovano similmente nelle cause del fallimento di Camp David, inteso come momento della verità, durante il quale, scoperte tutte le carte sul tavolo, è apparso chiaro come l’accordo di Oslo, firmato da Arafat nel 1993, non riflettesse un’accettazione palestinese d’Israele come legittima espressione del diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico, bensì una temporanea rassegnazione palestinese alla realtà d’Israele, che uno stato palestinese negoziato
nei termini di quegli accordi avrebbe dovuto col tempo prima indebolire e poi soppiantare. Alla luce di queste esperienze, potranno quattro settimane di agosto e
settembre nel 2005 riaprire il dialogo, ora che un nuovo evento epocale si profila all’orizzonte della storia del conflitto? O il sipario si richiuderà sui protagonisti una volta ancora, aggiungengo un’ulteriore opportunità perduta alla lunga lista di occasioni perse di cui la storia del conflitto è ricca? Lunedì entra in vigore la legge israeliana sul disimpegno unilaterale da Gaza. L’esercito e la polizia procederanno
poi, entro quarantotto ore, con l’evacuazione di 25 insediamenti nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania settentrionale. Il ritiro avverrà in quattro fasi: prima i tre insediamenti di Netzarim, Morag e Kfar Darom nella Striscia; poi quattro insediamenti in Cisgiordania; la terza fase riguarda il blocco dei settlement nel sud della Striscia, Gush Katif; la quarta fase infine comprende i tre insediamenti nel nord della Striscia al confine con Israele. Il rischio di scontri violenti tra oppositori
del ritiro ed esercito preoccupa non soltanto per il trauma che rischia di provocare nella coscienza collettiva israeliana, ma anche perché, a livello politico, quanto maggiori sono le tensioni e il costo umano del ritiro tanto minore sarà lo spazio diplomatico di manovra per Sharon una volta completato il disimpegno. Ma il destino politico del premier israeliano e di coloro che, come lui, credono nella necessità di un compromesso territoriale, non è solo nelle mani degli oppositori del ritiro e nella violenza che alcuni facinorosi potrebbero scatenare per sabotarlo.
Il successo dell’impresa dipende dalla volontà palestinese di sfruttare questa occasione per gettare le basi di un nuovo processo negoziale con Israele. E osservando i limiti della leadership palestinese appare chiaro che le chance di una nuova stagione di diplomazia siano piuttosto ridotte. Chi difende il disimpegno da parte israeliana sottolinea di solito come il ritiro da Gaza può creare le condizioni
per un ulteriore disimpegno israeliano da altre parti della Cisgiordania e delineare
un nuovo orizzonte politico meno teso tra palestinesi e israeliani. Chi si oppone sottolinea invece come il rischio maggiore del disimpegno sia che i palestinesi lo interpretino come un cedimento israeliano sotto pressione, che dimostra come la violenza paghi. In quel caso ci si dovrebbe aspettare una recrudescenza dell’Intifada con la differenza che Gaza potrebbe diventare una nuova base terroristica come lo furono la Giordania fino al 1970 e successivamente il Libano.
Entrambe queste previsioni sono plausibili e spetterà anche ai palestinesi quindi determinare il corso degli eventi a ritiro concluso. Ma gli ostacoli al disimpegno e quanto gli ottimisti sperano che ne segua suggeriscono una lettura differente degli eventi. Quale che sia infatti l’esito del ritiro, le due società, israeliana e palestinese,
saranno troppo occupate ad affrontare le divisioni interne e le contraddizioni politiche che il disimpegno metterà a nudo. Già nei mesi scorsi è apparso evidente che l’opportunità di trasformare il ritiro unilaterale in un gesto coordinato tra israeliani e palestinesi che potesse essere interpretato come parte della road map non sarebbe stata colta dalle parti. Israeliani e palestinesi avrebbero potuto minimizzare le possibili tensioni e frizioni e accordarsi su un numero di questioni operative – ma anche politiche – riguardanti il disimpegno. Invece, il coordinamento è stato minimo e ha prodotto scarsi risultati. I palestinesi, presi dalla doppia crisi delle proprie divisioni interne (con rischio di guerra civile) e del cambio di leadership che ha seguito la morte di Arafat, non hanno lo spazio politico per manovrare in maniera da soddisfare le condizioni minime israeliane per il ritorno alla road map. Per Israele e il suo primo ministro, un ritiro senza contropartita non può essere il preludio a ulteriori concessioni territoriali se esso
è accompagnato da attacchi terroristici, e adombrato dalla minaccia di una guerra civile palestinese che getterebbe Gaza nel caos, consegnandola nelle mani del terrorismo. Il prezzo di enormi tensioni e traumi per la società israeliana è già di per sé alto e con tutta probabilità Sharon non oserà oltre, una volta completato il ritiro, almeno fino alle elezioni politiche, dove il vecchio leader cercherebbe un nuovo mandato per continuare la sua visione politica. Se a esso si accompagnasse
l’avverarsi di uno scenario negativo e turbolento nella Striscia di Gaza difficilmente ci saranno ulteriori progressi. Se a questo poi si va ad aggiungere l’erosione di consensi per Sharon all’interno del suo partito e la sfida politica che gli arriva da destra nella persona di Benjamin Netanyahu – che ha dato le dimissioni da ministro
delle Finanze proprio per la sua opposizione al ritiro – appare ovvio come Sharon difficilmente si getterà in nuove e avventurose iniziative diplomatiche nei prossimi mesi. Di sicuro, poi, Israele esigerà dai palestinesi la piena presa di responsabilità
sulla questione sicurezza e si aspetterà che finalmente il leader dell’Anp, Abu Mazen, si impegni a mettere in atto la prima fase della road map, che impone ai palestinesi di disarmare le organizzazioni terroristiche e di riformare i propri servizi di sicurezza. Ma Abu Mazen difficilmente sceglierà questa strada. Il presidente palestinese ha finora preferito dialogare con i terroristi, cercando di cooptarli nel
processo politico, con la speranza che essi si facciano infine assorbire nella milizia palestinese e rinuncino a perseguire i loro scopi con la violenza. Manca la volontà politica di affrontare una crisi il cui costo sarà indubbiamente alto. Ma il prezzo per la cooperazione di Hamas, con tutte le incognite che essa comunque comporta, è che Abu Mazen sarà ulteriormente condizionato da una forza politica estremista
in caso di negoziati con Israele, avendo dunque uno spazio di manovra politico, in termini di possibili concessioni, ancor più ridotto. Il dopo ritiro da Gaza non offre distensione, promette invece un irrigidimento delle posizioni. All’indomani del ritiro i palestinesi si troveranno dunque a dover fare i conti con l’obbligo di assumere il potere e governare Gaza. Finora la loro linea ufficiale è quella di sostenere che
il ritiro non metterebbe fine all’occupazione e quindi, continua l’argomentazione
palestinese, l’Autorità non si sentirebbe investita dell’obbligo di confrontarsi con gli estremisti e il terrorismo che da Gaza scaturisce. L’impressione è quindi che i palestinesi cercheranno di mascherare la loro intrinseca debolezza incolpando
Israele, invece di cercare di ovviare all’inconveniente. Spetta ai palestinesi decidere se, all’indomani del ritiro, essi preferiscono costruire uno Stato e
una nuova società a Gaza o se vogliono invece continuare a cercar di distruggere
la società e lo Stato della porta accanto. I segnali che giungono per il momento
da Gaza sono che la prima opzione ha un prezzo politico troppo alto e una volontà troppo esigua per essere adottata. Nessuno fermerà il terrorismo a Gaza ed eventuali attacchi, durante o dopo l’evacuazione, non faranno altro che scatenare una reazione militare israeliana che non ha precedenti nei cinque anni d’Intifada appena trascorsi. Sharon inizia il disimpegno con una maggioranza parlamentare più solida di quella che sosteneva Ehud Barak alla vigilia del summit di Camp David nel luglio del 2000, ma la coalizione di Sharon si regge sull’alleanza tra laburisti e
la componente pragmatica e centrista del Likud. La ragion d’essere di questa alleanza è il ritiro. Una volta completato il disimpegno, difficilmente l’alleanza
potrà tenere e Sharon, perduta rapidamente la sua maggioranza, si vedrà costretto a convocare nuove elezioni, probabilmente tra marzo e giugno del
2006. In un periodo di incertezza politica a ridosso delle elezioni e successivo a un evento così traumatico e senza precedenti come il ritiro da Gaza, difficilmente un governo uscente e in minoranza parlamentare potrà e vorrà lanciare nuove iniziative diplomatiche. Una volta finito il ritiro inizia il conto alla rovescia per le nuove elezioni israeliane. Tutto si fermerà di nuovo. Esiste infine l’incognita violenza tra israeliani. Anche se gli esperti sono pressoché unanimi nel riconoscere come l’opzione violenta sia contemplata da una piccola minoranza, bastano pochi
estremisti per un atto risoluto e disperato con gravi conseguenze e ripercussioni.
L’attacco terrorista contro un autobus nella cittadina araba israeliana di Shfaram – che ha lasciato sul terreno quattro vittime oltre che il terrorista linciato dalla folla – dimostra come basti poco per far precipitare la situazione. Atti di violenza tra israeliani sarebbero ancor più traumatici nella cornice del ritiro e con tutta probabilità renderebbero ogni ulteriore ritiro impossibile per il momento da contemplare. I giorni di ferragosto sono attesi da tutti coloro che si occupano di medio oriente con grandi speranze e aspettative. Il ritiro israeliano potrebbe permettere finalmente di voltare pagina offrendo per la prima volta un’atmosfera
positiva su cui costruire un dialogo politico dopo cinque anni di guerra e di lutti. Ma la realtà è un’altra: Abu Mazen sarà troppo debole per sfidare Hamas e l’Autorità palestinese non avrà né la forza operativa né la volontà politica per prendere il controllo di Gaza; la società israeliana sarà troppo traumatizzata dagli eventi del
ritiro e dalla violenza che lo accompagnerà e seguirà – sia essa palestinese
o intra-israeliana – e Sharon, sotto pressione e con la sua carriera a rischio, lascerà al dopo elezioni la decisione se proseguire con ulteriori ritiri nella Cisgiordania o meno. Come accadde in simili circostanze storiche in passato, l’occasione di una distensione tra israeliani e palestinesi sfumerà forse prima ancora di materializzarsi. I limiti politici e militari che le circostanze del ritiro imporranno ai leader delle due società saranno tali da impedire, con tutta probabilità, che dal ritiro nasca un nuovo momento di speranza tra le parti in causa nel conflitto arabo-israeliano.
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