Israele ha tutte le colpe (anche quella delle violenze domestiche nei territori) e nessuna ragione (neanche quella della difesa dal terrorismo) un'intervista acritica a uno psicologo molto più politico che scienziato
Testata: Io Donna Data: 10 agosto 2005 Pagina: 46 Autore: Raffaele Oriani Titolo: «La normalità non abita qui»
A pagina 46 di IO DONNA, supplemento del CORRIERE DELLA SERA di sabato 6 agosto Raffaele Oriani firma un articolo dal titolo "La normalità non abita qui"
Il tema centrale dell'articolo è costituito da un'intervista di Raffaele Oriani a Ahmed Abu Tawahine, guida del team psicologico del Gaza Mental Health Program, organizzazione non governativa palestinese. Il tema dell'intervista riguarda il disagio dei cittadini di Gaza dovuto all'occupazione israeliana. Un disagio innegabile, le cui responsabilità sono attribuite, peraltro, esclusivamente ad Israele. Non si accenna, ad esempio, ai motivi di difesa e di sicurezza dal terrorismo che costringono alla demolizione di case e, addirittura, si individua un nesso causale tra l'occupazione israeliana e l'aumento di casi di violenze all'interno dei nuclei familiari nella striscia di Gaza. Ecco alcuni passi del testo: Per la tenuta mentale degli abitanti di Gaza qual è l'aspetto peggiore dell'occupazione israeliana? Non c'è che l'imbarazzo della scelta. Prenda ad esempio la distruzione indiscriminata di case (secondo il Comitato israeliano contro le demolizioni tra le quattro e le cinquemila dal 2000 ad oggi ndr)
Una affermazione esemplare di come la parzialità tenda a rendersi inconfutabile: prima una frase ad effetto circa la distruzione di case, evitando ogni eventuale riferimento alle condizioni professionali (militanti? estremisti? attivisti?) dei loro abitanti, poi il sostegno di una fonte israeliana. Di una fonte cioè che risulta attendibile solo quando recita mea culpa.
perdere la casa comporta dei problemi pratici è evidente. Ma quella palestinese è una società molto solidale, quindi una sistemazione prima o poi la trovano tutti: c'è chi si rivolge al cugino, chi trova rifugio da uno zio, chi va a vivere in casa di amici. Il problema vero e che, persa la casa, la famiglia si frantuma, rinuncia al proprio nucleo e costringe i singoli ad affrontare la vita con un'identità impoverita e molto più vulnerabile alle difficoltà. Chi perde la casa non sa più chi è cos fare, in che direzione andare. Comincia una vita di assoluta precarietà
le demolizioni di case si sono moltiplicate in questi ultimi anni di intifada. Cos'era prima l'occupazione? Dal punto di vista psicologico soprattutto una serie di umiliazioni. Quando ancora i palestinesi della Striscia potevano andare a lavorare in Israele, noi psicologi avevamo spesso a che fare con quelle che abbiamo chiamato week end victims. Sa, per un palestinese è sempre stato molto semplice perdere il permesso di lavoro in Israele e così gli uomini avevano imparato a subire controlli, ordini, direttive senza fiatare. I soldati ti bloccavano per un'ora, e tu per un'ora ti mettevi quieto ad aspettare in silenzio. Ma una volta tornati a casa per il fine settimana quegli stessi uomini così innaturalmente obbedienti sfogavano la propri frustrazione su mogli, figli e parenti. Il fatto è che la violenza circola: chi la subisce finisce per trasmetterla. Alla rimozione del terrorismo ( che i impone i posti di blocco e le misure restrittive) seguono la rimozione della responsabilità individuale e una sorta di giustificazione della violenza all'interno delle famiglie: la colpa è di Israele.
[……….] E adesso? Cosa cambierà con la fine dell'occupazione? Cosa succederà da domani? Noi del programma di salute mentale avremo da lavorare per almeno due decenni. Ricordo il periodo dopo la prima intifada, all'inizio degli anni Novanta: ci vollero anni di pace per stemperare l'aggressività e ridirigerla verso attività costruttive. Questo se tutto andrà bene. Ma se Gaza si trasformerà in un enorme prigione controllata dall'esercito israeliano, la fine dell'occupazione non sarà servita a nulla, e la gente continuerà ad accumulare rabbia e frustrazione" Continuano gli esercizi di rimozione: la metafora dell'enorme prigione sembra negare la realtà del ritiro israeliano. Sembra che l'occupazione sia un pretesto comunque irrinunciabile per giustificare "rabbia e frustrazione", e violenza.
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