Ritiro da Gaza:le conseguenze politiche delle dimissioni di Netanyahu e il rischio terrorismo due analisi
Testata: Il Foglio Data: 09 agosto 2005 Pagina: 1 Autore: Emanuele Ottolenghi - Rolla Scolari Titolo: «Via dal governo - Via da Gaza»
IL FOGLIO di martedì 9 agosto 2005 pubblica in prima pagina l'articolo di Emanuele Ottolenghi "Via dal governo", sulle dimissioni di Benjamin Netanyahu, che riportiamo: Londra. Dopo quattro anni di tensioni personali con il premier Ariel Sharon e manovre politiche malriuscite, il ministro delle Finanze israeliano, Benjamin Netanyahu, ha deciso domenica di abbandonare il governo della sua nemesi (e rivale politico) Sharon. Pur avendo inizialmente votato a favore del disimpegno da Gaza e pur avendo ritirato la minaccia di dimissioni in ottobre, a una settimana dal ritiro "Bibi" – così è soprannominato – ha lasciato il governo in aperta opposizione al piano di Sharon, senza ostacolarlo, ma senza prendersene la responsabilità politica e ministeriale. Le motivazioni di Netanyahu sono apparentemente irreprensibili: il piano di disimpegno mette a rischio la sicurezza del paese. Il ritiro unilaterale rafforza l’impressione che Israele ceda alla violenza e crea un precedente per ulteriori concessioni israeliane sulla base dei confini provvisori del 1967, senza migliorare la sicurezza del paese. Inoltre – sostiene Netanyahu forte del parere di parte degli analisti – esiste la possibilità che Gaza diventi una base del terrore come già accadde col Libano negli anni 70 e con l’Afghanistan negli anni 90. Fin qui è tutto ineccepibile: un gesto nobile dettato da principi, che va apprezzato soprattutto in una cultura dove le dimissioni di questo tipo non avvengono spesso. La domanda, però, è perché Netanyahu si accorge solo adesso di non poter continuare il suo ruolo di ministro riformatore delle finanze israeliane: perché a pochi giorni dalla difficile e non garantita approvazione da parte del governo del bilancio 2006 e (con tutta probabilità) a circa un anno dalle elezioni? Netanyahu da tempo nutre ambizioni di riconquistare la poltrona di premier ed è ai ferri corti con Sharon. Le dimissioni, mascherate dietro dettami di coscienza, sono un calcolo politico mirato a promuovere la sua candidatura per spodestare Sharon e sostituirlo alla guida del Likud e del paese. A una settimana dal ritiro, le dimissioni hanno ottenuto il massimo impatto mediatico, causando non poco danno a Sharon. Pur non riuscendo a trascinarsi dietro altri ministri, Netanyahu rafforza l’opposizione a Sharon all’interno del Likud, mettendo una seria ipoteca sulle primarie per la leadership del partito.
Bibi vuole essere l’uomo della provvidenza (segue dalla prima pagina) Scavalcando il premier a destra, Netanyahu si pone come leader ideologico e lascia Sharon isolato al centro, forte del sostegno popolare, ma indebolito all’interno del partito, senza il quale non può sperare in un terzo mandato. Dimettendosi a pochi giorni dal dibattito sul bilancio 2006, Netanyahu evita di affrontare quella che lui riteneva un’inutile sconfitta politica, visto che il bilancio da lui elaborato – in anno elettorale e con il Likud e i laburisti su posizioni opposte in termini di politica economica – sarebbe stato rimaneggiato. Privato ora del suo ideatore, il bilancio rischia di diventare, a disimpegno concluso, il casus belli per le elezioni anticipate. Netanyahu può quindi affondare la politica economica su cui ha costruito la sua credibilità politica e trarre lo stesso beneficio dal sussulto causato all’economia (la borsa domenica ha perso 5 punti percentuali alla notizia delle sue dimissioni) e da quello causato al sistema politico. Rimane l’incognita disimpegno. Se il ritiro produce risultati positivi in termini di sicurezza, Netanyahu rimarrà isolato a destra, mentre Sharon, la cui esperienza politica e militare lo rende più credibile di Bibi, ne uscirà rafforzato, anche se le elezioni dovranno comunque avvenire entro ottobre dell’anno prossimo. In quel caso, le dimissioni si rivelerebbero un grave errore, perché Netanyahu si troverebbe al di fuori del governo e i suoi motivi politici guidati più dall’ambizione personale che da questioni di principio apparirebbero ovvi. Se, invece, il ritiro condurrà a nuove violenze, rafforzando le organizzazioni terroristiche a Gaza e danneggiando la forza deterrente israeliana, il gesto drammatico e plateale di Netanyahu ne consoliderà la leadership come sfidante di Sharon. Se le sue previsioni sul ritiro si avverassero, Netanyahu diventerebbe l’uomo della provvidenza, forte del suo record economico positivo e della sua preveggenza politica. E la poltrona di primo ministro ritornerebbe sua. Sempre in prima pagina, troviamo l'articolo di Rolla Scolari Via da Gaza, un intervista all'esperto di antiterrorismo Eli Karmon che spiega i rischi del disimpegno.
Ecco il testo: Gerusalemme. Non ci saranno altre defezioni nel governo di Ariel Sharon, assicurano fonti vicine al primo ministro israeliano. Il fronte arancione dell’antiritiro e la destra dura che si oppone al disimpegno da Gaza – raggruppati sotto l’ombrello dello Yesha Council, l’organizzazione religiosa degli abitanti degli insediamenti – non hanno nascosto la speranza che le dimissioni di domenica del ministro delle Finanze, Benjamin Netanyahu, possano minare le sorti del piano di ritiro. Ma il premier ha subito dichiarato che il ritiro andrà avanti, anche se, nella motivazioni delle sue dimissioni, Netanyahu si è soffermato su uno dei temi più dibattuti del piano voluto da Sharon: "C’è una via per raggiungere la pace e la sicurezza. Un disimpegno unilaterale, sotto il fuoco, senza ricevere nulla in cambio, non è quella giusta. Non sono disposto a essere complice di una mossa che ignora la realtà e avanza ciecamente verso la fondazione di uno Stato islamico terrorista che minaccia il paese". Eli Karmon, esperto di strategia e antiterrorismo, analista al Centro interdisciplinare di Herzelia, a nord di Tel Aviv, dice di essere certo che si andrà alle urne in anticipo e spiega al Foglio che forse Netanyahu non è contrario al disimpegno: spera che il piano sia attuato, però non vuole subire gli effetti di un possibile insuccesso. Da diverse settimane la stampa internazionale si occupa dell’ipotesi che Gaza si trasformi in un feudo del terrorismo internazionale e che al Qaida possa beneficiare del disimpegno: il rapimento ieri di due funzionari dell’Onu nel sud della Striscia, poi subito rilasciati, ha fatto temere il peggio in termini di sicurezza e libertà di movimento. Karmon è favorevole al piano di ritiro, ma pensa che l’errore sia volerlo portare a termine in modo unilaterale: "L’esempio è il sud del Libano – spiega al Foglio – Quel ritiro era da fare, ma non in quelle condizioni, senza negoziare con i siriani e gli iraniani, senza nessun guadagno strategico. Oggi il sud del Libano è un luogo dove l’esercito del paese non può entrare: è Hezbollah a controllare il territorio". Secondo Karmon, Israele dovrebbe imparare da quell’errore: "Hamas oggi parla come Hezbollah e vuole imitare il partito di Dio: considera il disimpegno una sua vittoria". Il governo avrebbe dovuto posticipare il ritiro, aspettare nuove elezioni palestinesi e intanto negoziare con l’Autorità nazionale il disarmo di tutti i gruppi terroristici.
Che cosa rischia Israele ritirandosi da Gaza Secondo Eli Karmon, ora il rischio è che "Hamas, pur riconoscendo l’autorità dell’Anp, prenda il controllo del territorio di Gaza e ricominci massicciamente il terrorismo, il lancio di missili e il contrabbando di armi verso la Cisgiordania, che in realtà non si sono mai fermati". Spiega però come, secondo i servizi di sicurezza israeliani, Hamas abbia contatti non con al Qaida, ma piuttosto con Hezbollah. L’organizzazione palestinese, infatti, non avrebbe bisogno degli uomini della rete internazionale: "L’obiettivo è lo stesso: l’unificazione della nazione islamica. La strategia è diversa: quella di Hamas passa per la liberazione della Palestina, quella di al Qaida per la distruzione degli Stati Uniti. Non è escluso però che Hamas, sotto pressione internazionale per il disarmo, si unisca in futuro alla base, anche per ragioni operative, ma per ora non ci sono gli indizi". Invece, aggiunge Karmon, "i membri del partito di Dio hanno addestrato i terroristi palestinesi e insegnato loro l’uso dell’esplosivo". Il Jihad islamico, nei giorni scorsi, ha dichiarato che, durante il ritiro, cesserà ogni forma di attacco. Tutti i gruppi estremisti, spiega Karmon, vogliono il ritiro, "perché sanno che avranno poi un territorio in cui muoversi liberamente." Perché questo non si verifichi – spiega Karmon – Israele deve puntare su negoziati di successo con l’Anp e sull’aumento della pressione internazionale per disarmare le fazioni palestinesi. Il ministro delle Finanze appena dimessosi, in caso di voto anticipato, potrebbe ritornare sulla scena attivamente proprio in occasione di queste trattative. Secondo Karmon, l’uscita di scena del ministro non ha alcuna influenza oggi sull’implementazione del piano di ritiro. I primi effetti si avranno più tardi. "Netanyahu è il candidato più credibile al premierato. Oggi alza i toni ma, al posto del primo ministro farebbe molte più concessioni all’altra parte". Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.