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Il Foglio Rassegna Stampa
08.08.2005 La decisione del ritiro da Gaza viene dal fallimento di Camp David, quando Israele ha capito di non avere un interlocutore palestinese
la ricostruzione storica di Emanuele Ottolenghi

Testata: Il Foglio
Data: 08 agosto 2005
Pagina: 2
Autore: Emanuele Ottolenghi
Titolo: «Il ritiro è nato cinque estati fa»
Seconda parte (vedi per la prima "Dalla guerra dei sei giorni al ritiro da Gaza", Informazione Corretta 06-07-05) della ricostruzione storica di Emanuele Ottolenghi, dalla guerra dei sei giorni ai retroscena dell'imminente ritiro da Gaza, sul FOGLIO di sabato 6 agosto 2005, a pagina 2 dell'inserto.

Ecco il testo:

Spero si ricordi quello che le ho detto. Se perdiamo questa opportunità, non sarà una tragedia, sarà un crimine". Così concluse la sua conversazione con
Yasser Arafat l’allora ambasciatore saudita a Washington, il principe Bandar bin
Sultan. Arafat era appena tornato al Ritz Hotel dopo una lunga conversazione con il presidente americano ormai a fine mandato Bill Clinton. Era il 3 gennaio 2001. Mancavano 17 giorni all’insediamento del nuovo presidente George W. Bush e 34 giorni alle elezioni israeliane che avrebbero spodestato Ehud Barak e portato al potere Ariel Sharon. In poco più di un mese sarebbero usciti di scena il premier israeliano che aveva osato più di ogni altro nella ricerca di un accordo di pace coi palestinesi e il presidente americano che per primo aveva offerto al leader palestinese, trattato come un capo di Stato, uno stato indipendente e sovrano e una soluzione realistica a tutti i problemi che rendono il conflitto arabo-israeliano così intrattabile. Prima che Arafat fosse ricevuto alla Casa Bianca, i due si erano già incontrati: Bandar era andato a prendere il leader palestinese alla base area di Andrews e lo aveva portato
in albergo. Il 3 gennaio mattina Arafat, in ritardo di vari giorni e con una risposta israeliana positiva (ma con riserve) in tasca, doveva rispondere alla proposta comunicata da Clinton il 23 dicembre 2000. I cosiddetti "parametri Clinton" non rappresentavano un dettagliato accordo di pace imposto dagli americani, ma stabilivano alcuni principi chiari su come risolvere ogni aspetto del contendere: i dettagli dovevano essere negoziati, ma dovevano ricadere entro i parametri stabiliti dagli americani. Non c’era più spazio per l’ambiguità che aveva caratterizzato le posizioni di Arafat nei sette anni di Oslo. Quel mattino del 3 gennaio – mentre nei territori infuriava l’Intifada, Barak perdeva consensi e sostegni in Israele, le immagini di conflitto inondavano ossessivamente l’etere nel mondo arabo trasmesse da al Jazeera – avrebbe potuto Arafat dare ossigeno alle residue speranze di pace che sembravano ormai sfumate? O era comunque già troppo tardi? Prima del suo incontro con Clinton, Bandar gli disse chiaro e tondo: "Dal 1948, ogni volta che
noi arabi abbiamo avuto qualcosa sul tavolo abbiamo detto di no. Poi diciamo di
sì, ma l’offerta non è più sul tavolo. A quel punto dobbiamo negoziare per ottenere di meno. Non è forse giunto il momento di dir di sì?’ Le lezioni di storia servono meno degli ultimatum e Bandar, dopo aver chiarito ad Arafat che negoziare con le colombe di Barak era meglio che avere a che fare con
lo sfidante alle incombenti elezioni, Ariel Sharon, e dopo aver chiarito che sarebbe stato difficile ottenere un accordo migliore dei termini presentati da Clinton (e accettati da Barak), mise Arafat alle strette: "Hai due scelte, o accetti l’accordo o è guerra. Se accetti, ti daremo tutto il sostegno possibile. Se non accetti, credi che qualcuno combatterà per te?" Bandar,
l’ambasciatore arabo più influente a Washington, non poteva essere più chiaro. La guerra in realtà già era cominciata e a molti sembrava che Arafat, ancora una
volta, stesse giocando col fuoco come aveva fatto nel 1970 in Giordania e dal 1975 al 1983 in Libano, nella speranza che il rischio di una conflagrazione regionale giocasse a suo favore: sperava in ulteriori concessioni sotto la minaccia di un conflitto che avrebbe trascinato con sé tutto il medio oriente.
Ma gli arabi non ci stavano. I "parametri Clinton", una volta resi pubblici, avrebbero reso ogni bluff e ogni diniego impossibili da spiegare ai leader arabi. I giorni in cui migliaia di soldati egiziani erano pronti a morire per Gerusalemme erano passati, specialmente ora che la Gerusalemme araba era offerta ad Arafat su un piatto d’argento, con le garanzie, i crismi internazionali e la benedizione del presidente degli Stati Uniti. Ma Arafat era Arafat e non poteva improvvisamente trasformarsi in un Nelson Mandela o un Anwar
al Sadat. Secondo Bandar, Clinton avrebbe detto ad Arafat: "It’s five minutes to midnight, Mr Chairman", mancano cinque minuti alla mezzanotte. La clessidra ha quasi esaurito gli ultimi granelli di sabbia. Zona Cesarini. Ma Arafat disse di no. Accettava i parametri come base per un negoziato che doveva portare a ulteriori concessioni israeliane per i palestinesi. Con Clinton umiliato dal non-presidente di un non-stato dalle dimensioni di Long Island e il pil del Gabon, si fece in fretta ad rrivare al 20 gennaio 2001.
Finita l’era Clinton della diplomazia intensiva, i negoziati di Taba, che seguirono per pochi giorni e che furono sospesi a causa di un attentato palestinese prima delle elezioni israeliane del 6 febbraio, non hanno alcun significato: il non-accordo rivelato su Haaretz un anno dopo – complice l’attuale ministro degli Esteri spagnolo Miguel Moratinos – è carta straccia. Vero, Israele fece ulteriori concessioni, ma su molti temi le distanze non solo non si accorciarono, in realtà si allargarono ulteriormente e comunque, a due settimane dalle elezioni, un governo dimissionario e in minoranza netta in Parlamento – dell’iniziale coalizione di 75 parlamentari del governo Barak ne rimanevano ora solo 27 – Barak non poteva permettersi di mettere in gioco il futuro del paese senza un chiaro mandato. Il suo atto estremo e disperato di negoziare all’ombra delle elezioni testimonia la dedizione per raggiungere la pace, ma da un punto di vista di legittimità democratica fu un gesto irresponsabile. E quel mandato, con o senza il no di Arafat il 3 gennaio
2001, Barak l’aveva comunque bell’e perso al più tardi nelle prime tre fatidiche
settimane di ottobre, quando – tra l’inizio dell’Intifada il 29 settembre e il vertice di Sharm el Sheikh che produsse un abortito cessate il fuoco il 17 ottobre successivo – Israele vide in televisione il linciaggio di due riservisti israeliani lasciati in balia di un atto di cannibalismo collettivo dai poliziotti palestinesi che avrebbero invece dovuto proteggerli. L’immagine di un palestinese alla finestra – le mani insanguinate appena immerse nei cadaveri sventrati dei due sventurati – ha condannato Barak alla sconfitta di quattro mesi dopo. Forse anche allora era troppo tardi. Il momento della verità era arrivato a Camp David, tra l’11 e il 25 luglio 2000, quando per due settimane una delegazione israeliana capeggiata da Barak e una palestinese guidata da Arafat si erano incontrate e scontrate nella residenza presidenziale
in presenza del presidente americano Clinton e del suo team di negoziatori e consiglieri, producendo un nulla di fatto di portata storica, le cui conseguenze ancora pesano sul medio oriente. Fu quello il momento della verità.
Poteva andare diversamente? Gli storici litigano sul merito sin dal giorno successivo alla fine del vertice. La diplomazia, apparentemente a un passo dal successo, fu travolta poche settimane dopo dal conflitto. La rivolta palestinese nei Territori si esaurì in fretta, lasciando il passo a una più brutale guerriglia, il cui principale obiettivo è stato il massacro di civili israeliani. Con il rapido degenerare dell’Intifada a vero e proprio conflitto asimmetrico, tra dicembre e gennaio 2001, la guerra e le sue realtà hanno preso il posto dell’atmosfera euforica dell’estate 2000, quando la pace sembrava a portata di mano. Come in passato, il conflitto è diventato lo strumento più potente e incendiario nel mondo arabo: per i regimi esso rappresenta la scusa per non cambiare, non riformare, non liberalizzare; per gli oppositori islamici
è lo strumento di critica dei regimi e della loro collaborazione con l’occidente e il nemico sionista. I gridi di battaglia hanno sostituito la timida e impacciata discussione sulla pace, una nuova versione dell’antisemitismo medievale ha invaso lo spazio mediatico arabo – controllato quasi esclusivamente dai regimi – mentre Israele è ridiventato il demone di sempre. Nel feroce scambio di accuse, recriminazioni e insulti che continua, Camp David è divenuto la cartina di tornasole del conflitto. Se Camp David è stato una ‘Tragedia degli errori’ – come hanno scritto, nell’agosto 2001, due partecipanti al negoziato, l’americano Robert Malley e il palestinese Hussein
Agha su New York Review of Books, allora evitare quegli errori in futuro produrrebbe quella pace che fu quasi raggiunta, ma che sfuggì al summit. Se invece gli errori – scarsa sintonia tra i leader, insufficiente lavoro preparatorio da parte americana, problemi caratteriali di Arafat, debolezze domestiche di Barak – erano elementi aggravanti ma non fattori cruciali nel fallimento del vertice, allora occorre una risposta diversa: in parole povere, il fallimento a Camp David va situato nel fatto che la distanza tra le due posizioni non poteva in alcun modo essere colmata. Agha e Malley abbracciano una versione della storia fatta di errori e malintesi, forze maggiori e fattori imponderabili, che assolve gli attori e condanna la sorte, dimenticando che la storia è fatta dagli uomini, dai loro atti, misfatti e omissioni. E se a
Camp David mancano gli eroi e abbondano gli errori di giudizio e di tempismo, non mancano di certo i villani, i birboni e i bugiardi, per non parlare di codardi e menzogneri, di occasioni perse e di opportunità mancate. E’ vero, gli errori ci furono, prima e dopo il summit. Fu uno sbaglio israeliano (e americano) probabilmente preferire, nell’autunno del 1999, il negoziato con la Siria a quello con i palestinesi. Ma come avrebbe giudicato la storia la decisione di lasciarsi sfuggire l’opportunità di un accordo di pace con la Siria? Gli israeliani sapevano dal gennaio 1999 che il presidente siriano Hafez el Assad era molto malato. Era questione di mesi, forse un paio d’anni, e poi Assad sarebbe morto (effettivamente passò a miglior vita nel giugno del 2000). La crescente preoccupazione della successione del figlio e il desiderio di non lasciare il paese nel caos avrebbero reso il vecchio leader sempre più audace nei confronti dei rischi e delle pressioni di un negoziato con Israele. La disponibilità di Assad andava quindi sfruttata prima che fosse troppo tardi.
Fu anche uno sbaglio, probabilmente, la fuga di notizie che seguì i due round di
negoziati tra Israele e Siria tra dicembre e gennaio, uno sbaglio orchestrato da Yossi Beilin, allora ministro della Giustizia, nella speranza di costringere Barak a ritornare sui propri passi e concentrarsi invece sul negoziato con i palestinesi. I siriani, naturalmente, interruppero i negoziati, una volta messi in mostra i termini del possibile futuro accordo. Fu comunque uno sbaglio credere che la flessibilità israeliana e la creatività delle soluzioni territoriali offerte da Barak avrebbero persuaso Assad a firmare. Mesi preziosi
furono persi, mentre la frustrazione palestinese cresceva e la naturale predisposizione di Arafat a veder complotti e tradimenti dappertutto rendeva il leader palestinese sempre più sospettoso di Barak. Ma con la promessa fatta da Barak in campagna elettorale, nel maggio 1999, di ritirarsi dal Libano entro un anno, con o senza accordo con la Siria, era doveroso cogliere un’opportunità che già tre primi ministri israeliani si erano visti sfuggire. Assad si aspettava da Barak non meno di quanto Rabin, Peres e Netanyahu avevano segnalato di esser pronti a concedere, cioè tutte le alture del Golan. Barak si aspettava un leader più flessibile di fronte alla morte e alla storia. Alla fine, con aprile alle porte, la promessa di un ritiro dal Libano a tiro e il negoziato coi palestinesi sostanzialmente congelato, il nulla di fatto con Assad penalizzò le chances future di accordo con i siriani e con i palestinesi. Di sbagli ne fecero senza dubbio anche i palestinesi. Con Barak sotto pressione per la sua disponibilità a fare concessioni su Gerusalemme – la proposta di trasferire tre villaggi palestinesi parte della municipalità di Gerusalemme all’Autorità palestinese – l’ultima cosa di cui il premier israeliano aveva bisogno era un rigurgito di violenza. Che puntualmente arrivò, a ridosso
dell’anniversario della guerra del ’48 – il 15 maggio – e del trasferimento di autorità, che quindi non si verificò mai. Altro errore forse fu il ritiro unilaterale israeliano dal Libano. Nel maggio 2000, Israele si ritirò unilateralmente dal Libano meridionale, senza un trattato di pace, un armistizio o una tregua. I palestinesi interpretarono il ritiro come un segno di debolezza ed erroneamente conclusero che il terrorismo avrebbe similmente cacciato Israele dai territori senza contropartita. Questa convinzione ha senza dubbio favorito il ritorno dell’opzione della lotta armata, una volta che il summit di Camp David non produsse i risultati che i palestinesi si illudevano di ottenere. Invece che porre fine a una guerra, quindi, il ritiro israeliano pose le premesse per un nuovo conflitto. Ma se non si può ritenere che il ritiro
israeliano fosse inevitabile, non si può nemmeno credere che la scelta palestinese della violenza al posto della diplomazia fosse inevitabile o il prodotto di oscure e incontrollabili e anonime forze storiche. Fu una scelta basata su un freddo calcolo di leader, per i quali ci volevano qualche migliaio di morti per potersi sedere di nuovo al tavolo della pace. In quanto a Israele,
il ritiro dal Libano non soltanto era doveroso per il rispetto della legalità internazionale, ma si imponeva per fermare l’emorragia di vite umane che l’occupazione della striscia di sicurezza comportava e che il ritiro ha arrestato. Sbagliarono di grosso gli americani a spingere per un summit a luglio, quando Arafat avrebbe preferito settembre, ma il canale segreto di Stoccolma – tra Shlomo Ben Ami e Abu Ala – che stava producendo risultati positivi era trapelato e si era arenato, e il presidente americano uscente
non poteva permettersi per ragioni di politica interna di avere un summit una
volta conclusesi le Convention repubblicana e democratica nell’estate 2000 e a ridosso delle elezioni presidenziali di novembre. Sbagli, sì, ma venali. Circostanze determinate in parte da errori di giudizio, o leggerezze, o gelosie meschine di rivali o destrezze mediatiche di qualche giornalista in cerca di scoop e con poco senso della storia. Ma tutti errori che non avrebbero dovuto pregiudicare il risultato finale di un accordo, semmai avrebbero potuto ritardarlo, se ci fosse stata una chiara volontà politica e una comunanza di interessi a raggiungere un compromesso realistico che entrambi i leader e le loro rispettive comunità avrebbero potuto digerire. La versione dei fatti propugnata da Agha e Malley sostanzialmente mette l’accento su errori gravi ma non insormontabili. Se tornasse la buona volontà, insomma, tornerebbe la pace. E’ questa una visione che molti ancora oggi condividono, ma che non fa giustizia alla realtà. La macchina propagandistica israeliana ha senza dubbio contribuito a questa distorta visione della storia. Sostenendo che l’offerta di Barak era stata "generosa" e che Arafat l’aveva rifiutata, gli israeliani hanno creato le premesse per un revisionismo storico che ha giocato a loro svantaggio: la "generosità" di Barak è stata giustamente derisa come insufficiente dai palestinesi e dai loro sostenitori che da Israele si aspettavano molto di più di quanto lo Stato ebraico avrebbe potuto ragionevolmente concedere. Ma la questione non riguarda la generosità o la magnanimità o l’amabilità personale – quest’ultima una delle mancanze attribuite a Barak e ritenute come una delle cause del fallimento del summit – di questo o quel leader. Il futuro delle nazioni non si decide con atti di bontà ma in base agli interessi nazionali dei paesi coinvolti, dei rapporti di forza e degli equilibri di potere. Non la generosità insomma. Semmai, quel che Israele non ha sufficientemente sottolineato nel dibattito che ha fatto seguito al fallimento di Camp David è che la proposta di Barak – o meglio le proposte, perché le posizioni israeliane variarono nel corso delle due settimane a Camp David, diventando man mano più articolate e realistiche – era seria e coraggiosa
e che per quanto potesse essere incompleta o insufficiente essa meritava
una controproposta palestinese altrettanto seria e coraggiosa e richiedeva una disponibilità da parte di Arafat a negoziare in buona fede chiarendo in linea di massima almeno quali fossero realisticamente i suoi limiti negoziali.
Invece, Arafat non fece altro che aggrapparsi ai miti storici palestinesi, all’illusione che i rifugiati potessero ottenere un assegno in bianco per tornare non soltanto nel futuro Stato palestinese ma anche in Israele, all’illusione che un premier israeliano potesse rinunciare a qualsiasi rivendicazione sul luogo più sacro al popolo ebraico – il Monte del Tempio – in
cambio di vaghe garanzie di tutela dei luoghi santi che mai un’autorità araba nella storia recente o antica ha saputo o voluto mantenere nei confronti degli ebrei. Arafat giunse persino a negare la veridicità della presenza delle rovine di quello che fu il Tempio d’Erode, costruito a sua volta sulle rovine del Primo Tempio attribuito nella Bibbia a Re Salomone. Sarebbe come se Barak, giunto a Camp David, avesse detto che i musulmani potevano scordarsi di qualsiasi rivendicazione sul Nobile Santuario e sulla Moschea al Aqsa perché storicamente falsa. La terribile verità è che tutte le sofferenze di questi ultimi cinque anni – da ambo le parti – si sarebbero potute evitare. I sondaggi dimostrano chiaramente che la grande maggioranza degli israeliani, nell’estate
del 2000, era disposta alle rinunce territoriali che erano necessarie a soddisfare le aspirazioni palestinesi all’indipendenza. Ma i palestinesi volevano molto, molto di più. I sondaggi di oggi raccontano una storia diversa: l’ottimismo e la fiducia che esistevano cinque estati fa e che rafforzavano la volontà ad assumersi dei rischi in cambio della pace sono svanite. Gli eventi seguiti al fallimento di Camp David rappresentano l’avverarsi dei peggiori incubi del pubblico israeliano. Nulla di quel che offrì Barak, e certamente di quel che speravano di ottenere i palestinesi, è oggi realisticamente possibile.
Al summit di Camp David, nel luglio 2000, Israele concesse praticamente tutta
la Cisgiordania e l’intera Striscia di Gaza ad Arafat. Era pronto a smantellare la maggior parte degli insediamenti e offrì di condividere Gerusalemme come capitale dei due stati, Israele e Palestina. Che oggi i palestinesi e i loro apologeti neghino questo fatto non lo rende di per sé meno vero. E con lo sfumare di quella opportunità storica e unica, il conflitto ha ridefinito i parametri di flessibilità che un leader israeliano può permettersi. In questo senso, Gaza è la conseguenza di Camp David. Il ritiro israeliano avviene
oggi a causa del disastro diplomatico condensato in quelle due settimane. Sfumata l’occasione e uccise la fiducia e la possibilità di ulteriori concessioni da cinque anni di Intifada e di terrorismo, soltanto una visione
molto più ridotta di una territorialità palestinese sovrana rimane sul tavolo. Come disse Bandar, ogni volta che i palestinesi dicono di no, quel che viene offerto la volta successiva è meno di quanto avrebbero potuto ottenere in passato. La storia, a partire dal 15 agosto, si ripete. Gli eventi, e i possibili errori di valutazione e di giudizio che palestinesi e israeliani si apprestano a commettere nelle settimane del ritiro da Gaza difficilmente riapriranno il negoziato e l’orizzonte della pace. Dire di no allora, come disse Bandar, non fu una tragedia, fu un crimine, perché la storia e
le sue occasioni sono sfuggite non per cause di forza maggiore, ma perché mancarono il coraggio, il realismo e la leadership per coglierle.
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