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La Repubblica Rassegna Stampa
03.08.2005 A Gush Katif in attesa del ritiro da Gaza
una cronaca di Massimo Dell'Omo

Testata: La Repubblica
Data: 03 agosto 2005
Pagina: 1
Autore: Massimo Dell'Omo
Titolo: «Vivere a Gush Katif aspettando la cacciata»
LA REPUBBLICA di mercoledì 3 agosto 2005 pubblica in prima pagina e a pagina 13 un articolo di Massimo Dell'Omo, inviato a Gush Katif.

A parte alcuni punti (il paragone assurdo tra Gush Katif e un campo di concentramento, l'affermazione che i coloni avrebbero il sogno di "possedere un pezzetto di terra promessa da difendere col sangue proprio e altrui", che li fa apaprire come fanatici pronti alla violenza, la sinfolare affermazione per cui l'attaccamento dei coloni alle loro case potrebbe essere "capito, ma non giustificato") si tratta di un testo abbastanza equilibrato, che sfata alcuni luoghi comuni circa il "lusso" nel quale vivrebebro i coloni .


Lo riportiamo:

Lunedì sera Caim Klein, il proprietario della casa in cui vivo, ha partecipato ad una lunga riunione con una ventina di coloni. L´ultima riunione, quella definitiva: decidere se resistere a oltranza o accettare l´offerta del governo e andarsene? Hanno discusso fino a notte fonda tra voci sovrapposte, pause, impennate di volume. Bisogna essere israeliani per poter capire – non giustificare, ma capire – l´attaccamento che i 7-8 mila coloni di Gush Katif hanno per questo lembo di terra, stretto tra il mare, il confine egiziano e il territorio palestinese della Striscia di Gaza. Bisogna essere israeliani con alle spalle una famiglia vittima o sopravvissuta all´Olocausto attraverso Mathausen o Birkenau, come appunto Caim Klein l´ungherese. Oppure con un sogno iniziato tanti anni fa nei più diversi Paesi del vasto mondo – dallo Yemen all´America Latina, dall´India al Kurdistan, dal Marocco agli Stati Uniti – e finalmente realizzato qui: essere proprietario di un pezzetto di terra promessa da difendere col sangue proprio e altrui.
Altrimenti è davvero difficile spiegarsi come questa gente - dal religioso più intransigente al laico più moderato - maledica oggi Sharon per la sua decisione di evacuare gli insediamenti.
- Perché, agli occhi dello straniero arrivato dall´Italia avida e rutilante, Gush Katif appare, a colpo d´occhio, come un grosso campo di concentramento. Anzi, l´insieme di ventuno campi di concentramento - tanti sono gli insediamenti, i settlement - ognuno protetto da reti, filo spinato, barriere di cemento, torrette di avvistamento e, ad ogni ingresso, un check-point presidiato da militari. Infine, il perimetro esterno dell´intero complesso, è a sua volta circondato da protezioni più consistenti e presidiato da numerosi tank perché le infiltrazioni di terroristi palestinesi non sono eccezioni. Come non lo sono i tiri dei cecchini che sparano da Rafiah, a sud, sui due insediamenti più meridionali di Rafik Jan (ci vivono 25 famiglie) e Morag (una sessantina di famiglie); e da Deir el Balah, a nord, sugli insediamenti più settentrionali di Tel Ketifa e Netze Azan (64 e 40 famiglie). Così, viaggiando sulle strade di collegamento interno, s´incontrano cartelli che avvertono: «Attenzione, spari» o «Attenzione, cecchini».
Ma non è soltanto la sensazione di rischio immanente a cui ci si abitua anche se i coloni escono con la pistola calibro 9 «Mazada» nella fondina o nella cintura dei pantaloni e, di notte, con il fucile mitragliatore M16 a tracolla. Non è soltanto per questo. E´, che agli occhi dello straniero, gli insediamenti appaiono come copie dei tanti artificiali paesini che abbrutiscono le coste italiane del centrosud. Su alcuni giornali è capitato di leggere di ville lussuose, di verde lussureggiante, piscine e quant´altro. Le ville sono casette a un piano grandi quanto basta per accogliere famiglie composte in genere, da una coppia e da tre o quattro figli. I giardini, dove esistono, sono francobolli di tre o quattro metri quadrati assediati dalla sabbia. Nella maggior parte dei casi è proprio la sabbia a far le veci del prato: la sabbia, magari aggraziata da disegni, il più frequente è la stella di David, composti con le pietre bianche del deserto. Non c´è altro. Se non un´infinità di pollai, più o meno grandi, che fanno le notti tormentate di richiami, e la distesa di serre coperte da teli di plastica. Eppoi le dune dai radi cespugli rinsecchiti o le montagnole artificiali erette per nascondere i massicci tank.
Solo il mare azzurrissimo dà sollievo allo sguardo.
In questi giorni poi, il paesaggio è ancora più desolato. Il soffio del disamore ha seccato i vasi da fiori, gli stentati praticelli. A che vale curarli ancora? All´ordine parco di una volta è subentrato lo svogliato disordine dell´accatastamento. Ci sono piccoli container davanti alle casette bianche, e carrelli da attaccare ai fuoristrada e mucchi di cartoni per l´imballaggio con cumuli di rotoli di scotch. Dentro i soggiorni - si entra dopo aver bussato, le porte non sono chiuse - si interpreta il tormento della scelta. Che cosa portare, che cosa lasciare: quale ricordo?
Molto è già dentro gli scatoloni, molto resta fuori. In settimana passeranno i rappresentanti di una compagnia americana per contrattare i prezzi di elettrodomestici e mobili che i coloni vorranno vendere ai palestinesi. «Sì, è vero - dicono i più - queste case le abbiamo costruite noi, abbiamo costruito le serre:
perché distruggere le une e le altre? Lasciamole, che vengano ad abitarci loro, gli arabi».
La riunione di Caim Klein è finita a notte fonda. Ognuno è tornato alla propria casa. La decisione è stata presa. Se ne andranno pacificamente. Quasi tutti i coloni che vi hanno partecipato hanno un figlio militare. «Per il momento - hanno detto - loro sono esentati perché possano aiutarci nell´evacuazione, ma resistere sarebbe come combattere contro di loro». Il 15 agosto sfileranno verso l´uscita di Gush Katif in corteo con due bandiere sulle auto, una bianca in segno di resa, una nera in segno di lutto.
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