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La Stampa Rassegna Stampa
03.08.2005 Intervista a Ehud Barak
di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 03 agosto 2005
Pagina: 11
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Barak Dobbiamo andarcene anche dalla Cisgiordania»
LA STAMPA di mercoledì 3 agosto 2005 pubblica a pagina 11 un'intervista di Fiamma Nirenstein all'ex premier israeliano Ehud Barak.

Ecco il testo:

EHUD Barak, deciso, abbronzato, ci riceve a Tel Aviv a un ventesimo piano di marmo e vetri. Ha annunciato da poco che alle prossime primarie del partito laburista sarà candidato al ruolo di primo ministro, e la nostra intervista ha tutta l’aria di un programma politico. La giornata, al solito, è drammatica: 500 autobus di oppositori dello sgombero da Gaza stanno convergendo da tutta Israele verso la cittadina di Sderot: la destra estrema tenta di nuovo, mentre si teme lo spargimento di sangue fra manifestanti esasperati e forze dell’ordine, la marcia verso la Striscia.
Signor Barak, il clima di crisi è al calor bianco. Teme la guerra fratricida?
«Noi la temiamo costantemente per motivi storici. E’ scritta a lettere di fuoco nel Talmud, quando si parla della dinastia di Davide e Salomone e dei Maccabei. Di fronte al pericolo esterno ci siamo azzannati fra di noi, e nei nostri geni temiamo questa atroce eventualità. Ma stavolta non credo affatto si possa arrivare a un simile scontro».
A me sembra l’apertura di una profonda crepa fra laici e religiosi sul ruolo dello Stato e la terra.
«Questo è uno scontro sul significato della democrazia: è stata raggiunta democraticamente una decisione molto invisa a una parte. E il capo del governo che ne è il padre ha sbilanciato i suoi ex seguaci con una giravolta che risulta aggressiva, ingiuriosa. Le proteste sono direttamente proporzionali alla frustrazione: ma non lasceremo che distruggano le scelte democratiche, con le buone e con la pressione. Conosco personalmente molti settler, sono patrioti molto responsabili. Non lasceranno che la loro folla diventi eversiva. Semmai, temo le provocazioni e gli estremisti. Se fossimo arrivati alle scelte attuali in una logica più graduale e con prospettive chiare, oggi sarebbe tutto diverso».
Non le sembra che Sharon abbia agito bene?
«Sharon ha un coraggio straordinario, e del resto tutta la sua storia di difensore di Israele lo dimostra. Semmai, io e Rabin prima della decisione operativa avremmo messo in moto il referendum. Inoltre per un lungo periodo ha scelto la rovinosa strada degli insediamenti, che ci impedisce di realizzare la struttura stessa del sogno sionista, ovvero uno Stato ebraico democratico, che non domini un altro popolo e non tema la demografia… Se Sharon non avesse creduto nella grande Israele, per esempio, oggi saremmo molto più avanti nella costruzione della barriera di separazione che già oggi, insieme alle azioni di zahal, l’esercito, salva il nostro popolo dall’orrore del terrorismo. E diremmo chiaramente che la barriera della sicurezza è quella che lascia fuori i settler che in realtà saranno fuori fino a un accordo definitivo. Eppoi, il figlio di Sharon è implicato in una truffa di denaro speso direttamente per la sua elezione, egli quindi deve annunciare il ritiro dalla vita politica dopo lo sgombero».
A quali ulteriori sgomberi unilaterali pensa? O li immagina negoziabili con un partner palestinese?
«La giusta scelta è quella di lasciare la Cisgiordania, ed è quello che Sharon teme di articolare, e che sarà invece la scelta naturale dei laburisti...»
Veramente la sinistra è in crisi da tempo.
«Lo è assai di più il Likud, in pezzi mentre tutto il Paese imbocca la strada da noi indicata: la fine dell’occupazione, che abbiamo sempre indicato senza sbandamenti».
Se ne andrebbe unilateralemente o trattando con Abu Mazen? Come giudica il nuovo presidente palestinese? E cosa lascerebbe?
«Me ne andrei unilateralmente. Abu Mazen è ottimo per quello che dice, sia in inglese che anche, a differenza di Arafat, in arabo. Ma si tratta solo di parole, fatti per fermare il terrorismo non ne abbiamo visti. Se sarà un partner di pace, non lo so. Ma anche se Hamas, la Jihad Islamica, le Brigate del Fatah seguiteranno a attaccarci, noi non ci bloccheremo. Dobbiamo seguitare ad abbandonare gli insediementi che ci creano i problemi demografici, come quelli siti fra una città araba e un’altra».
E quando a Malei Adumim, il Gush Etzion, Ariel, ovvero la cintura di protezione di Gerusalemme, lei sgombererebbe anche quella?
«No, fino al giorno in cui si possa trattare con un partner affidabile. Terrei circa il 7-8 per cento dell’area della Cisgiordania dentro il recinto di sicurezza, che a sua volta sarà smantellato quando si arrivi a un accordo. Chiederei intanto che sia formata una commissione internazionale che aiuti i palestinesi a gestire un periodo che porti all’organizzazione del loro Stato».
Non una commissione dell’Onu, suppongo.
«Potrebbe essere il Quartetto, o quant’altro. Non importa. Desidero al più presto uno Stato che sia un partner nella discussione».
Teme una pioggia di fuoco nei giorni dello sgombero?
«Certo, e il nostro primo compito resta combattere per la nostra vita. Ma andarcene da Gaza ci dà vantaggi nella guerra al terrorismo: più capacità di manovra per l’esercito, più simpatia nel mondo..».
Cosa ha pensato delle dichiarazione del Papa sul terrorismo?
«Che noi siamo un popolo giustamente molto sensibile quando si tratta del nostro diritto all’esistenza, che è stato tante volte messa in forse».
Ma il terrorismo contro Israele è eguale a quello di al Qaeda?
«Per quanto riguarda Hamas e la Jihad islamica, è identico. Stesso rifiuto totale dell’Occidente, stessa mania di dominazione. Per Fatah, invece è identico nella sostanza: indiscriminata strage di innocenti per creare panico al proprio scopo».
La nostra generazione vedrà la pace?
«Non lo so. So che credere nella pace aiuta a vivere giustamente la vita di ogni giorno».
Detto «Napoleone d’Israele», Ehud Barak è il militare più decorato della storia del suo esercito. Come politico è l’erede di Rabin, un premier-soldato che insegue la «pace dei coraggiosi» voluta dal maestro laburista. Nato nel 1942, a 17 anni cambia il cognome Brugg in Barak («folgore») e si arruola nell’esercito. Numero uno dell’intelligence e capo di stato maggiore, nel 1995 Barak si congeda ed entra in politica a fianco di Rabin, di cui sarà ministro dell’Interno. In seguito all’assassinio del premier, è ministro degli Esteri nel governo Peres (1996). Nel 1997 è alla guida dei laburisti e nel 1999 stravince le elezioni battendo Netanyahu. Sarà primo ministro fino al 2001, quando è battuto dal falco Ariel Sharon.
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