La morte di re Fahd e la crisi dinastica saudita che è iniziata da tempo, e che ha prodotto Al Qaeda
Testata: Il Foglio Data: 02 agosto 2005 Pagina: 1 Autore: Carlo Panella Titolo: «Islam saudita»
IL FOGLIO di martedì 2 agosto 2005 pubblica in prima pagina un articolo di Carlo Panella sulla morte di re Fahd in Arabia Saudita e sulle prospettive di successione nel regno fondamentalista.
Ecco il testo. Roma. La morte di re Fahd dell’Arabia Saudita è stata occasione per l’ennesima dimostrazione di crisi del regno. Solo pochi giorni fa la corte saudita aveva annunciato la "completa guarigione" del sovrano, colpito da polmonite il 27 maggio, guarigione tanto definitiva che il reggente Abdullah aveva decretato un’amnistia. Una notizia tanto intempestiva quanto azzardata sul piano medico: il fisico dell’anziano sovrano (83 anni) era infatti minato dalle conseguenze di un ictus e da vari infarti. Una notizia che è però ben spiegata dalle frenetiche manovre di palazzo che hanno accompagnato gli ultimi giorni di vita di re Fahd. Unico paese al mondo, l’Arabia Saudita non possiede alcuna istituzione al di fuori della corte reale che con i suoi seimila principi assorbe il 10 o 15 per cento del bilancio dello Stato. E non ha regole scritte che stabiliscano i criteri della successione. Scontata la nomina a re di Abdullah, fratello di Fahd, non è stata per nulla scontata la nomina di suo fratello Sultan quale successore. Insomma, uno dei paesi più importanti del globo – il principale esportatore di petrolio – è reso assolutamente instabile da un sistema di potere tribale e rozzo, aperto a intrighi, complotti e congiure. Si pensi che nei 261 anni che ci separano dal patto siglato nel 1744 tra il fondatore della dinastia, Mohammed ibn Saud, e l’ideologo che ad essa fornisce supporto teologico, Mohamed ibn Abdel Wahab, solo cinque o sei successioni si sono svolte senza spargimenti di sangue o consensualmente. Si pensi, ancora, che nei 41 anni che sono passati dalla morte del fondatore del regno, Abdulaziz ibn Saud, solo una volta, nel caso di Fahd, la successione è stata lineare. Il primo erede di Abdulaziz, re Saud – uomo di rara incapacità – è stato infatti costretto nel 1964 ad abdicare a favore del fratello Feisal. Questi è stato ucciso nel 1975 da un nipote e solo il suo successore, Khaled, è morto nel suo letto da sovrano, consegnando il regno al fratello Fahd. La rozzezza del meccanismo successorio è però oggi esaltata dalla tarda età dei fratelli Banu Saud. Abdullah, da ieri re, ha infatti 81 anni e il suo successore designato, Sultan, anche (sono ovviamente figli di madri diverse). Uno Stato che ricopre una funzione indispensabile per le forniture petrolifere del mondo e che da solo, aumentando o diminuendo la produzione, può determinare il prezzo del greggio, oggi è condannato a una serie di regni brevi, forse brevissimi e a imminente corto circuito dinastico. La nomina di Sultan quale reggente segnala infatti un sensibile spostamento degli equilibri della corte, una conferma forte dell’alleanza con gli americani e una secca sconfitta degli ambienti più legati al fondamentalismo wahabita-salafita, che hanno come punto di riferimento un altro fratello di Abdullah, Salman, potente governatore di Riad. Con plastica evidenza la coppia Abdullah-Sultan mette in risalto la politica del "doppio binario", della "doppia verità", che il fondatore del regno ha inaugurato incontrando al ritorno da Yalta – il 14 febbario 1945 sull’incrociatore Quincy, alla fonda nel mar Rosso – il presidente americano Franklin Delano Roosevelt. Quel giorno il re saudita siglò un patto segreto in base al quale gli Stati Uniti si impegnavano a garantirgli dinastie e sicurezza, in cambio delle forniture petrolifere. Un patto blasfemo che viola i precetti dell’islam nella versione wahabita-salafita (perché pone la protezione del dar al islam nelle mani dei cristiani). Un patto che viene alla luce nel 1990, quando provoca l’aiuto americano (benedetto dall’Onu) per liberare il Kuwait annesso da Saddam Hussein, in un quadro così drammatico che convinse il premier israeliano Yitzhak Rabin che l’obiettivo finale delle truppe di Baghdad era Riad. Un patto che, una volta emerso, provoca scandalo tra i fondamentalisti, segnando l’inizio dell’avventura di Bin Laden. Al Qaida, in effetti, altro non è che uno dei tanti epifenomeni della crisi dinastica saudita. Crisi che vede un binomio incompatibile ai vertici dello Stato: il realpolitiker (ma fondamentalista) Abdullah, che ha allontanato dal suo paese tutte le basi militari americane. E il filoamericano Sultan, il quale ha addirittura dato il proprio nome alla base statunitense nella penisola saudita costata milioni di dollari (ma smantellata da suo fratello). Sultan è pienamente integrato nel meccanismo economico dell’apparato militare degli Stati Uniti (con immense ricadute di arricchimento personale), ed è padre di Bandar bin Sultan, per 22 anni ambasciatore a Washington, (con villa in Colorado), amico personale di George W. Bush. Un equilibrio instabile che provoca un risultato ancora più destabilizzante: da ieri, Bandar – il quale amministra anche la Fondazione che paga le prebende ai principi della corte – è ai primi posti nella successione ad Abdullah e a Sultan. Non è arduo prevedere che non avrà vita facile. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.