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La Stampa Rassegna Stampa
02.08.2005 A Gaza, tra i settler decisi a resistere allo sgombero
reportage di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 02 agosto 2005
Pagina: 11
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Tra i coloni di Gaza decisi a resistere»
LA STAMPA di martedì 2 agosto 2005 pubblica a pagina 11 un reportage di Fiamma Nirenstein da Gaza.

Ecco il testo:

Sempre al Sud, subito fuori e poi dentro la striscia di Gaza, da una parte ieri venivano consegnate le prime decine di chiavi delle nuove case assegnate ai coloni che finalmente hanno capito che lo sgombero ci sarà davvero, e non risparmierà nessuno; dentro Gaza, invece, mentre tanti seguitano a guardare senza muoversi dal loro prato verde, la loro casa bianca, la loro scuola, la sinagoga, e non riescono a credere che tutto questo sarà in rovine fra 15 giorni, un gruppo si accinge a difendersi fino sui tetti delle case. Il 15 verrà dato l’annuncio «tutti fuori da Gaza e da quattro insediamenti della Cisgiordania» e entro il 17, poliziotti e soldati verranno a decine di migliaia a eseguire l’ordine del governo. La gente cammina in maniera diversa e distante verso il più grande trauma della loro vita. Prima tappa, Nitzan, il nuovo paesino di 200 «caraville», una cacofonia per sfoggiare la fatica del governo nell’approntare velocissimamente una via di mezzo fra caravan (roulotte) e villa fra Ashod e Ashkelon, molto vicino a Gaza, e poi a Shirat ha Yam, uno degli insediamenti del Gush Kativ più pericolosi per lo sgombero.
Nitzan è a due passi dal mare, il giallo è quello di Gaza, il verde per ora è solo qualche tappetino d’erba steso in fretta e furia e qualche petunia che deve far ben sperare ai coraggiosi che si avventurano verso la nuova vita. Anat scende dalla macchina con una bambina di 5 anni, Nadia, maglietta a maniche corte, laica, proveniente dall’insediamento Nissanit, cammina con noi verso il centro di accoglienza, sembra in stato di choc: «Sono ottimista, voglio essere positiva, anche se mi hanno tirato addosso missili kassam e katiushe a centinaia, e ora il governo gli regala la mia casa! Ma voglio pensare solo al domani. Chi ha già avuto ieri le prime case mi ha detto che sono piccole rispetto a quelle che avevamo, spesso non funziona l’aria condizionata o l’avvolgibile. Ma sono temporanee, solo due anni. La mia amica abiterà a tre metri da me, avevamo paura ormai, e ho risparmiato alla bambina il trauma di vedere i soldati arrivare a sgomberarci».
L’assegnazione è elementare: vedi un appartamento, poi ti chiedono, mentre gli altri inquilini spingono come si vendesse il pane, quale vuoi fra le villette gialline col tetto rosso disposte come in un otto; tutti vogliono gli angoli che guardano verso la natura, tutti vogliono abitare vicino ai propri amici, tutti vorrebbero 90 metri quadri, ma questo dipende dalla grandezza della famiglia. Molti ne ricevono solo 60; i religiosi e i laici non vogliono stare gli uni con gli altri, lo spazio fra una casetta e l’altra è di circa sei metri, dà fastidio se un laico prende l’auto o accende la tv di sabato.
Ronit di Nevet Dkalim, insegnante con 5 bambini e un marito maestro d’arte, è stata salutata con grande amore dai suoi vicini, dice, non c’è stato nessun biasimo ideologico: «Prego che i traumi siano finiti; guardi quel ragazzo nell’angolo. Ha ricevuto ora le chiavi, ma non riesce a portare via i suoi, perché hanno sepolto una sorella nel cimitero vicino a casa, e non vogliono lasciarla».
Le telecamere insistono sulle immagini che dimostrano la modestia delle case e i microfoni registrano le lamentele di alcuni: ma in generale, non si può fare a meno di vedere l’enorme sforzo del governo: «Ci sono qui dozzine di tecnici pronti a aggiustare le strutture a seconda delle esigenze e ci sono altri 800 case pronte a Ashkelon, Ashdod, Beersheba. Siamo al loro servizio».
Entriamo dentro Gaza: i soldati stanno molto attenti a non fare entrare settler infiltrati che si fermino poi a aiutare i loro amici a resistere allo sgombero. Ma in più di un migliaio di casi il guaio è già fatto. Entrano nottetempo dai campi, dentro i bagagliai delle macchine, oppure restano con il permesso per venire a trovare per 24 ore parenti o amici. Eccoli là al riparo dal sole sulla riva del mare, sotto un tendone di rete nera trasparente, accanto a una tendopoli stracciata di juta verde. Sono i giovani, con decine di bambini mezzi nudi e ricciuti, penetrati dentro Shirat ha Yam, la canzone del mare.
I coloni e i loro ospiti temono spie e provocatori, e in genere non fanno entrare i giornalisti. Dopo la torre di controllo dei soldati che proteggono l’insediamento, c’è un gruppo locale che verifica, telefona. Un gruppo di decine di giovani arrivati da tre settimane nel luogo da cui si deve sgomberare fra due, giurano che non sarà così. Il Cielo preparerà qualche sorpresa. Specie le donne con i loro bambini sembrano usciti dalla Bibbia, con gli abiti bianchi e beige, e i fazzoletti colorati in testa. Alcune tagliano insalate di pomodori e cetrioli, i giovani, in maglietta e kippà a cerchi colorati, giocano a shesh besh o con i bambini che costruiscono castelli con pezzi di legno.
«Siamo venuti qui perché non abbandoneremo i nostri fratelli in quest’ora di dolore», dice Osnat, una giovane donna con le ciglia abbassate, le mani in grembo, «e quando ci verranno a sgomberare, sarà quel che Dio vorrà. Non colpiremo i soldati, ma certo qualcosa può succedere nella confusione».
Il «qualcosa» si fa molto serio quando si parla con la coppia che ha addirittura istituzionalizzato l’invito a trasferirsi nella Striscia alla vigilia dello sgombero: sono Arik Itzchaki, circa settant’anni, laico, molto in forma, spiritoso e colto, occhi azzurri, professore di strategia e anche ex appartenente a un’unità speciale dell’esercito, e sua moglie Datia. Secondo i suoi dati, grazie alla campagna da loro inaugurata un paio di anni fa, quando è diventato chiaro il piano di Sharon, 300 famiglie si sono trasferite in case della Striscia, in 22 diversi insediamenti. «Ogni giorno ne arrivano di nuove». Lo dice sulla terrazza della sua candida casa spalancata di fronte al mare e spiega: «No, queste famiglie non se ne dovranno andare; ancora speriamo di introdurre un numero di persone che, con i coloni presenti, garantisca una presenza fra gli 8000 e i 10 mila: a quel punto, se si calcola che ci vogliono quattro uomini per trascinarne via uno, lo sgombero diventa impossibile, e dovrà essere rimandato».
Non ci sembra realistico: «Ci sono anche altre opzioni: la prima, molto realistica, che i palestinesi lancino missili durante lo sgombero, e in questo caso si fermerà tutto». «E poi? Non vede che la cosa più realistica è che, semplicemente, i soldati vi porteranno via? O avete intenzione di reagire con la violenza?». «Non abbiamo questa intenzione. I soldati verranno, molti di noi saliranno sui tetti, tirarci giù non sarà facile; se verranno disarmati attueremo difficili forme di resistenza passiva, come buttarci giù dall’autobus se ci portano via; se vengono con il manganello, allora i bastoni spunteranno fuori. Se vengono armati, Dio non voglia».
«Non avrà mica intenzione di sparare ai soldati?». Itzchaki non ne ha davvero intenzione, ma il suo viso finora sorridente si fa serio: «Mai, ma in una situazione di estrema tensione tutto può succedere. Non temo azioni folli da parte di gente come me, esperta e allenata, ma le giovani teste calde... e allora sarebbe una gigantesca tragedia».
«Ma allora perché non manda a casa quei ragazzi? Perché prendersi una così enorme responsabilità?». Itzchaki ci guarda nella luce azzurra e pazzoide del mare di Gaza che brilla sulle tende bianche della sua casa che sta per essere distrutta fra due settimane: «La responsabilità di tutto, ricade unicamente su Arik Sharon».
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