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La Stampa Rassegna Stampa
29.07.2005 Tsahal si prepara al disimpegno da Gaza
reportage di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 29 luglio 2005
Pagina: 10
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Perchè dai la mia casa a chi ha ucciso i miei fratelli?»
LA STAMPA di venerdì 29 luglio 2005 pubblica un reportage di Fiamma Nirenstein sui preparativi dell'esercito israeliano per lo sgombero da Gaza.
Alla corretta informazione dell'articolo, che riesce a presentare obiettivamente il dramma umano e la dimensione strategica del disimpegno, fa da contraltare il sottotitolo scelto dai redattori: "Il duplice fronte: psicologi contro le accuse dei coloni, filo spinato contro i palestinesi".
E' evidente che il "filo spinato" non è "contro i palestinesi", ma contro la minaccia terroristica palestinese.

Ecco il testo:

Flessibilità, efficacia. Queste due parole, motto del lavoro di preparazione dell'esercito israeliano prima dello sgombero, descrivono lo spirito di questi giorni mentre percorriamo la strada di confine fra Nissanit, che tra poco apparterrà ai palestinesi, e Netivei Ha asara, il kibbutz che resta in Israele dall'altra parte del recinto di filo spinato. Ovvero dei tre recinti di filo spinato dotati di ogni tipo di diavolerie tecnologiche. Le parole descrivono anche la potenza dell'esercito israeliano, che si avvia a una nuova grande sfida, sia sul fronte dei coloni che su quello palestinese.
La novità essenziale che apprendiamo al confine di Gaza, nella base operativa che prepara gli scenari dello sgombero del 17 agosto, la cui eco politica spezza dolorosamente il Paese, è che si sta costruendo in gran fretta un recinto su tre linee. Nel timore di un attacco massiccio del terrorismo quando il confine resterà privo del cuscinetto degli insediamenti, Israele rinforza le difese. Invece di un recinto come quello attuale, che corre lungo la Linea verde, chiamato Hoover (ogni luogo viene denominato con un titolo che lo designa sulle mappe militari) ci saranno due Hoovers, più un lungo rotolo di filo spinato.
Tutte e tre le barriere, in gran parte completate, si trovano dalla parte israeliana. Chiamando Hoover A il recinto già esistente, un tessuto di filo spinato punteggiato di impianti tecnologici e torri di controllo, abbiamo sessanta chilometri di separazione che corrono lungo la Linea verde. A venti metri da questo, verso la linea verde, viene già disteso un lunghissimo rotolo di filo spinato; invece dalla parte interna del Hoover A, a cento metri circa, si sta costruendo un Hoover B. A che servono le tre barriere? A guadagnare tempo, usando lo spazio e un’enorme dispiegamento di mezzi tecnologici messi in atto per l'occasione. Se qualcuno entra nello spazio al di qua delle ruote di filo spinato (che, ci viene spiegato, servono a evitare il terrorista suicida che si lancia dritto sulla postazione militare) subito i mezzi di segnalazione, telecamere, palloni sospesi, verificano di chie si tratta: se è qualcosa di pericoloso, parte la ricognizione dalla seconda barriera, che prevede ulteriori verifiche elettroniche, ma anche lo spostamento di truppe o degli spari di avvertimento; la pericolosità effettiva e quindi l'ordine di intervenire con le armi scatta se qualcuno si approssima al Hoover B, dotato ogni chilometro e mezzo di torri di controllo prive di soldati.
Il nuovo sistema, dotato anche di mezzi corazzati mobili attrezzati, consente un'osservazione molto più profonda di quella attuale. Negli agglomerati sull'orlo del nuovo confine, 45 fra kibbutz e moshav, gli abitanti - tutta gente che lavora la terra - sono molto spaventati, soprattutto pensando ai Kassam che sono già piovuti a migliaia: a seconda della loro posizione disporranno di rifugi casa per casa o solo per le strutture pubbliche. Il tutto avviene a un ritmo frenetico, la data si avvicina e, al di là della cronaca, qui si avverte che la svolta è storica, si capisce cosa vuol dire sgomberare al di là dello scontro politico interno.
Ci lasciamo alle spalle una nuova enorme base a Re'im, una tendopoli che però si sta dotando anche di strutture definitive sul bordo di Gaza: fra lunghe file di tende e molti moscerini sono stati radunati già da settimane migliaia di soldati, mezzi di trasporto, cucine gigantesche, docce e gabinetti a schiera e sale da pranzo in bianche tende dove soffiano sgarbati i condizionatori in un'inutile battaglia. Più avanti, fra le dune, sotto le antenne, grossi nidi di magmash, ovvero mezzi corazzati bassi e impolverati, pronti a muoversi per ogni evenienza. Percorriamo la strada che costeggia il Nord di Gaza: fra cespugli di macchia mediterranea sulla sabbia gialla, il mare in fondo, il paradossale scenario pastorale di Nissanit, Alei Sinai, e Dugit, che saranno i primi insediamenti a essere smantellati: casette bianche con giardini curati, altalene, scivoli per i bambini, e la distruzione che aleggia misteriosa su tutte quelle case ancora abitate.
Si costruisce sulla strada, e dai lavori emana una enorme fretta. La potenza di Tzahal in queste ore è quasi tutta volta a preparare lo sgombero, ed ecco la costruzione di tre diversi recinti, tutti di filo spinato e antenne salvo che per un chilometro al passaggio di Erez (solo qualche settimana vi fu presa una terrorista suicida carica di tritolo) perché il kibbutz Netivà Assarà, dentro la Linea verde, è a 20 metri dal nuovo confine.
«Flessibilità», però, vuol le due ipotesi che fanno la storia del mondo: la pace o la guerra. Efficienza significa saper fronteggiare l'ipotesi che Gaza diventi una casamatta di terroristi e la base di lancio di centinaia di missili Kassam su Ashkelon o Ashdod. Pace, vuol dire «è andata bene», vuol dire spostare le barriere di difesa ed essere pronti a incrementare commerci e relazioni. Per questo le barriere sono tutte mobili e leggere. L'ipotesi della pace la si vede anche dalla rapidissima costruzione di un terminal da cui dovrebbero passare giorno per giorno decine di migliaia di commercianti e agricoltori. Sono previsti anche negozi e ristoranti. In un orecchio ci viene sussurrata l'ipotesi addirittura di una grande stazione ferroviaria che potrebbe essere il punto di partenza del passaggio libero alla West Bank.
Però l'ufficiale che mi accompagna aggiunge: «Per ora non abbiamo ragione di pensare che lo sgombero porterà la calma». Quello che è più evidente è l'enorme preoccupazione espressa anche da Sharon a Parigi in questi giorni, che gli Hezbollah cerchino un'alleanza con Hamas per fare di Gaza una base attiva dell'integralismo islamico più oltranzista, l'ansia per l'importazione di armi dall'Egitto e dal mare, per il dislocamento di un numero maggiore di lanciamissili per i Kassam.
L'esercito dunque si prepara al giorno dopo in due modi: in una base a pochi chilometri da dove è iniziato il nostro giro, sperimenta in uno scenario di cartone non solo lo sgombero fisico dei coloni renitenti, ma le modalità: come parlare loro, come afferrarli senza fargli male, come rispondere a eventuali esplosioni di violenza, e persino come comportarsi nel caso del rapimento di un soldato. Tutto viene previsto e discusso da un punto di vista psicologico e fisico, la pressione è immensa e dolorosa: i ragazzi che, diciassette per casa, si avvieranno allo sgombero senza armi, con un autobus per le persone e un container per le masserizie, si allenano con lo psicologo a essere fronteggiati per ore da ragazzini e bambini che gli urlano a un centimetro dal viso: «Soldato perché trascini via dal suo letto mia madre? Pensa se la tua mamma venisse privata della sua casa, non capisci che la colpa ti perseguiterà per sempre? Cosa ti ho fatto di male? Perché vuoi dare la mia casa a chi ha ucciso i miei fratelli?». L'ordine è: «Siate gentili, non reagite con osservazioni personali e politiche. Direte: "Mi dispiace, sono qui in nome dello Stato d'Israele" e poi se accettano, aiutateli a separarsi dalla loro casa senza fretta; altrimenti, si proceda a portarli fuori; andate fino in fondo». Tecnologia e psicologia: questo è quello che può uno stato moderno. Non è molto.
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