Dalla guerra dei sei giorni al ritiro da Gaza che non ferma la minaccia terroristica di Hamas ed Hezbollah
Testata: Il Foglio Data: 29 luglio 2005 Pagina: 1 Autore: Emanuele Ottolenghi - Rolla Scolari Titolo: «Manuale per l'Estate di Gaza - Ma Hezbollah e Hamas promettono ancora terrore»
IL FOGLIO di venerdì 29 luglio 2005 pubblica a pagina 1 dell'inserto un articolo di Emanuele Ottolenghi, primo di una serie, dedicato al ritiro di Gaza e a "come ci si è arrivati". E' intitolato: "Manuale per l'Estate di Gaza2.
Ecco il testo: Nella sua memorabile lezione sull’inevitabilità della storia, Isaiah Berlin concludeva il suo attacco contro il determinismo storico di varia matrice spiegando come il fascino di una visione teleologica della storia derivi in parte da "una genuina incomprensione delle implicazioni filosofiche delle scienze naturali, il cui grande prestigio è stato indebitamente appropriato da molti stolti e impostori fin dai loro primi trionfi". Ma, aggiungeva Berlin, "mi sembra che esso derivi principalmente dal desiderio di liberarsi delle nostre responsabilità, di smettere di giudicare, almeno a condizione di non esser noi stessi giudicati e soprattutto di non dover giudicar noi stessi; da un desiderio di fuggire in cerca di rifugio in un qualche vasto, amorale, impersonale, monolitico tutto – natura o storia, o classe o razza o ‘le difficili realtà del nostro tempo’ o l’irresistibile evoluzione della struttura sociale – che ci possa assorbire e integrare nell’illimitata, indifferenziata struttura neutrale, che non ha senso valutare o criticare, e contro la quale siamo condannati a lottare inutilmente". Se ci sono leggi nella storia che lo storico deve considerare nell’analizzare l’operato degli individui le cui azioni, in ultima analisi, influenzano e determinano il corso degli eventi, queste sono le leggi delle coincidenze e delle conseguenze impreviste, e la ferrea logica della stupidità e del caso come fattori importanti nel dipanarsi della matassa degli eventi umani. Ma nessuna di queste norme toglie responsabilità ai protagonisti della storia. Semmai esse ci permettono di capire perché, in momenti storici importanti, individui che avrebbero potuto cambiare il corso della storia hanno scelto un percorso piuttosto che un altro. I limiti che il contesto storico impone a leader e gente comune sono importanti per comprendere i fenomeni storici ma né spiegano né giustificano tutto. Nulla di più vero per il medio oriente. Alla vigilia dell’estate di Gaza la memoria non può che correre a due altre estati, calde come questa, fatali come questa alla storia del conflitto arabo-israeliano. Compito dello storico – nel guardare al futuro con apprensione per i rischi e con speranza per le opportunità che un altro evento eccezionale come il ritiro israeliano da Gaza offre – è ritornare al passato e cercar di trarre una lezione da quegli eventi che similmente, nello spazio di pochi giorni e settimane, cambiarono il corso della storia in medio oriente. Nell’estate del 1967 sei drammatici giorni di guerra mutarono il volto del medio oriente. In un attacco preventivo dettato dalla necessità di fronte a una minaccia esistenziale, Israele attaccò l’Egitto il 5 giugno 1967. La guerra si sviluppò rapidamente su altri due fronti – Giordania e Siria – e si concluse il 10 giugno: oltre al Sinai già restituito agli egiziani con gli accordi di Camp David (1978) e le Alture del Golan, in meno di una settimana Israele conquistò quei territori che ancora oggi sono l’oggetto del contendere nel conflitto tra Israele e palestinesi. Le conseguenze di quei sei giorni condizionano ancora la storia e il presente, 38 anni dopo.A influenzare il presente non ci sono soltanto quei sei giorni e le sue conseguenze. Trentatre anni dopo la fine di quella guerra, nell’estate del 2000, nel corso di quattordici giorni altrettanto drammatici e fatali trascorsi in pressoché totale reclusione a Camp David, negoziatori israeliani, palestinesi e americani cercarono di cambiare il corso della storia affrontando tutti i nodi del conflitto emersi prima e dopo il 1967. Come nel 1967 fu il caso della guerra, l’evolversi del summit fu influenzato dal contesto storico più ampio, da coincidenze e limiti che condizionarono gli eventi e il risultato finale del summit. Ma il fallimento di Camp David così come la vittoria israeliana nel 1967 – né previsti né pianificati – hanno poi influito sul corso successivo della storia. Comprenderne il meccanismo e la portata storica serve a valutare limiti e impedimenti che ora producono e che in parte condizioneranno il ritiro israeliano da Gaza nello spazio di un’altra manciata di giorni e settimane dell’estate appena iniziata. Racconta lo storico Michael Oren – nel suo libro "La guerra dei Sei giorni" (Mondadori, 2003) – che se qualcuno cerca la scintilla che diede fuoco alla santabarbara del medio oriente nel giugno 1967, una possibile data potrebbe essere quella del 13 novembre 1966, quando un raid israeliano lanciato come rappresaglia a un attacco terroristico palestinese proveniente da un villaggio in Cisgiordania andò male. Il dispiegamento israeliano di forze, imponente dopo tante reazioni limitate, serviva a mandare un duro messaggio sia ai guerriglieri sia ad Amman e al suo re, che poco aveva fatto fino a quel momento per impedire sconfinamenti e violenze attraverso la linea del "cessate il fuoco" che fungeva da confine provvisorio tra Israele e Giordania dopo la guerra del 1948. Ma la forza israeliana si scontrò con una colonna di mezzi militari giordani che non avrebbe dovuto trovarsi sul suo percorso. L’errore di intelligence produsse una feroce battaglia il cui bilancio fu pesante. Con molti soldati giordani lasciati sul terreno, re Hussein, sotto pressione degli altri paesi arabi per l’umiliazione subita, rispose accusando il presidente egiziano, Gamal Abdel Nasser, di nascondersi dietro "le sottane" delle Nazioni Unite, implicitamente suggerendo che, se l’Egitto riteneva che occorresse far guerra a Israele una volta per tutte, che si facesse avanti invece che rispettare scrupolosamente il "cessate il fuoco" successivo alla guerra di Suez del 1956, monitorato da una forza di interposizione delle Nazioni Unite. Facile far la voce grossa, sosteneva insomma Hussein, quando si ha la scusa di avere le mani legate dall’Onu. In un’atmosfera radicalizzata quale era quella del medio oriente nel 1966, con in corso la guerra fredda araba e lo scontro militare tra sauditi ed Egitto in Yemen, con la retorica incendiaria contro le monarchie conservatrici e l’occidente sobillato da Nasser e la ricerca continua di una rivincita contro Israele, il raid israeliano e le reazioni arabe degenerarono nei mesi successivi fino al culmine della crisi, quando il 13 maggio 1967, istigati da informazioni false fornite dai sovietici, i siriani accusarono Israele di aver mobilitato le proprie forze al confine settentrionale. Nonostante Israele non avesse fatto nulla di tutto ciò – il motivo dei sovietici rimane fino ad oggi un mistero – Nasser rispose ordinando l’ingresso delle proprie truppe nel Sinai e l’immediata evacuazione delle forze dell’Onu. Poi impose nuovamente il blocco dello stretto di Tirana al traffico commerciale israeliano e, forte della richiesta siriana di aiuto, procedette a cementare una serie di alleanze mirate ad accerchiare militarmente Israele e a scatenare la rivincita che da 19 anni ormai gli arabi, umiliati nel 1948 dalla perdita della Palestina, intendevano ottenere. Israele considerava la chiusura degli stretti non soltanto una violazione del diritto internazionale, ma anche un casus belli, perché strangolava il paese economicamente. Senonché il raid israeliano nel novembre 1966 non sarebbe mai dovuto avvenire. E questo perché, appena avuta notizia dell’attacco palestinese, re Hussein aveva mandato, attraverso l’ambasciata americana ad Amman, un messaggio personale di condoglianze al premier israeliano Levi Eshkol, impegnandosi a impedire in futuro il ripetersi di tali circostanze e chiedendo a Israele di comprendere la sua difficile posizione. Il messaggio, pervenuto all’ambasciatore americano in Israele non fu però consegnato. Arrivato il venerdì pomeriggio, alla vigilia dello Shabbat ebraico e quindi poche ore prima che Israele – come di consueto – si fermasse per l’osservanza del giorno di riposo, la missiva rimase sul tavolo dell’ambasciatore, che non ritenne opportuno scomodare il governo israeliano fino alla fine del weekend, non aspettandosi una reazione militare così immediata. Errore venale in altre circostanze, ma che si rivelò fatale, perché fu proprio la mattina di domenica, alle prime ore dell’alba e prima che l’ambasciatore potesse avere udienza col premier israeliano, che Israele sferrò il suo attacco. L’imprevista circostanza di una colonna giordana che si trovava sul percorso israeliano pur dovendosi, secondo l’intelligence, trovare altrove, fece il resto. Circostanze impreviste, coincidenze, sorte ria, errori di valutazione contribuirono a creare una situazione incandescente, che se quel messaggio fosse pervenuto si sarebbe forse potuta evitare o rimandare. Ma allo stesso tempo, se una lettera non pervenuta al premier israeliano mise in moto una catena di eventi che portò infine alla guerra, il conflitto o alcune delle sue conseguenze si sarebbero potute comunque evitare. Fu un’altra lettera, racconta ancora Oren, a determinare le sorti della Cisgiordania, oggi terra contesa e da 38 anni occupata da Israele a conseguenza di quella guerra.All’inizio delle ostilità sul fronte egiziano, infatti, la mattina del 5 giugno, Israele decise di inviare un messaggio a re Hussein, informandolo che Israele capiva la necessità per il re di dover offrire una dimostrazione di solidarietà panaraba, sparando qualche salva dimostrativa contro Israele, che non avrebbe risposto se i giordani si fossero limitati ad assolvere tale funzione, ma avrebbe invece reagito se, nel mezzo della sua battaglia per la sopravvivenza contro l’Egitto, i giordani avessero aperto un secondo fronte. Ma Hussein non potè rispondere in maniera soddisfacente. Per il re il dilemma era non meno esistenziale che per Israele. Hussein avrebbe pagato duramente la sua non belligeranza. Mise dunque il suo esercito sotto il comando di un generale egiziano, sperando di lavarsi le mani di qualsiasi guaio e di salvare il trono, anche a costo di perdere la Cisgiordania che suo nonno aveva invece conquistato nel 1948. Ma un altro fattore spinse le salve dimostrative giordane – che pure lasciarono una ventina di morti sul terreno in poche ore – a diventare un attacco vero e proprio. Infatti, mentre Israele distruggeva l’aviazione del Cairo e lanciava la sua offensiva di terra e aria nel Sinai, la radio egiziana trasmetteva ossessivamente bollettini di guerra falsi, che sostenevano l’esatto contrario: Israele aveva perso i suoi aerei, le forze egiziane avevano sfondato ogni linea difensiva israeliana e stavano avanzando rapidamente nel Negev alla volta di Tel Aviv e Gerusalemme. Per il re ora si presentava la ghiotta occasione di prender parte alla liberazione della Palestina, di poter avere una parte del bottino e soprattutto salvare il trono giordano e prevenire la conquista di Gerusalemme da parte egiziana, facendolo lui prima e conquistandosene quindi il merito e gli onori. La lettera israeliana non ottenne alcuna risposta. Preceduti da un intenso fuoco di artiglieria che scaricò migliaia di proiettili pesanti in poche ore sugli spaventati civili israeliani a Gerusalemme, i giordani lanciarono quindi una serie di attacchi, scatenando le paure degli israeliani, che temevano di vedere una ripetizione dell’assedio di Gerusalemme del 1948. Le mosse militari giordane – la presa del comando Onu sulla Collina del Cattivo Consiglio e il movimento verso l’enclave israeliana sul Monte Scopus – si prestavano a questa interpretazione e rischiavano di lasciare Gerusalemme tagliata in due e isolata. I giordani cercavano invece di prender posizioni favorevoli a un congiungimento con le immaginarie colonne di fanteria egiziana che, secondo i bollettini di guerra, stavano avanzando nel deserto israeliano. Fu in questo confuso intreccio di bugie, errori, timori e pressioni, oltre c di un contesto storico, sul fronte arabo, dominato dal panarabismo nasseriano sobillato dai sovietici che re Hussein commise l’errore fatale di entrare in guerra. Certo, lo fece per salvare il trono. Ma forse, se avesse saputo della sconfitta egiziana già nel pomeriggio del 5 giugno, avrebbe fatto diversamente, consapevole del fatto che l’Egitto non poteva più minacciarlo. Ma il re preferì non rischiare e si montò la testa alle notizie dei trionfi di Nasser. Fu in queste circostanze che Israele a malincuore e con una certa riluttanza attaccò Gerusalemme est. Ma l’esercito israeliano si fermò alle porte della città vecchia, incerto sul da farsi, e il governo tentennò per quasi un giorno sull’opportunità di accedere ai luoghi santi. Molti nel governo, soprattutto i partiti religiosi, temevano la reazione internazionale alla presa dei luoghi santi cristiani, mentre il ministro della Difesa, Moshé Dayan, disse con una frase poi diventata famosa: "Non ho bisogno di questo Vaticano". Nuovamente una lettera fu inviata a Hussein: "cessate il fuoco" e incontro di delegazioni al confine per negoziare una pace separata in cambio della decisione israeliana di non entrare a Gerusalemme. Avrebbe potuto accettare, il re, in quel frangente, senza rischiare trono e vita, con un generale egiziano al comando del suo esercito e con la convinzione, fondata su notizie false, che gli egiziani stessero dilagando e Israele avesse le ore contate? Probabilmente no, ma fu una scelta – o una serie di scelte – lo stesso presa da un individuo e imputabili a lui e ad altri responsabili di quegli eventi. Se gli egiziani avessero detto la verità ai giordani sulla loro catastrofica sconfitta, praticamente determinata già nelle prime ore della guerra dalla completa distruzione della loro aviazione a terra, forse il re non sarebbe mai entrato in guerra e di conseguenza Israele non avrebbe occupato la Cisgiordania o Gerusalemme est. Forse, in un conflitto limitato all’Egitto con gli esiti del 1967 solo sul fronte meridionale, si sarebbero potute evitare molte delle conseguenze di quei sei giorni fatali. A sostegno della critica di Berlin all’idea di storia come processo inevitabile bisogna sottolineare che gli israeliani stessi furono sorpresi dell’andamento della guerra. Si aspettavano un’interferenza risolutiva della comunità internazionale a poche ore dall’inizio delle ostilità e immaginavano quindi un’operazione militare limitata che non durasse più di 48 ore. Ma la volontà americana di sfruttare la guerra per spingere a una pace comprensiva nella regione, unita al desiderio di mettere in imbarazzo i sovietici – che finora avevano invece inguaiato gli americani in Vietnam – dando una lezione all’Egitto armata dall’Urss e dell’Urss fedele alleata, impedì un’immediata interferenza e ritardò il negoziato di un cessate il fuoco di molto di più. La resistenza quasi inesistente delle impreparate truppe egiziane, il crollo prematuro del fronte giordano sul quale un buon grado di improvvisazione e imprevisti comunque non mancarono, fecero il resto. Ma c’è dell’altro. Il 19 giugno, nove giorni dopo la fine delle ostilità, Israele inviò un’ulteriore missiva, questa volta al mondo arabo intero: pace separata, riconoscimento d’Israele, in cambio del ritiro israeliano e restituzione dei territori acquisiti nel recente conflitto, furono proposti a Egitto e Siria. E sulla Cisgiordania, Israele propose di esplorare la possibilitá di un regime di autonomia amministrativa per i palestinesi che non escludesse a priori una futura indipendenza. Tanto seriamente fu presa questa idea che ci furono contatti esplorativi coi notabili palestinesi in Cisgiordania durante l’estate del 1967. Ma la proposta del 19 giugno non trovò la risposta che si meritava. Il mondo arabo, umiliato e sconfitto, si riunì a Khartoum a fine estate e pose un secco rifiuto a Israele: no, al riconoscimento, no al negoziato, no alla pace. Troppo cocente era stata la sconfitta per Nasser e troppo gravi le sue conseguenze per l’intero mondo arabo. Meglio continuare a combattere aspettando un nuovo round di rivincita. Fu a Khartoum che si posero le basi per la guerra d’attrito sul Canale di Suez, per il sostegno finanziario al terrorismo dell’Olp, e per la rottura dei rapporti diplomatici con l’America, accusata di aver aiutato militarmente gli israeliani (dal quale furono esenti i giordani e i sauditi). L’irrigidimento arabo non poteva che produrre un irrigidimento israeliano. La guerra distrusse l’ammaliante potere del panarabismo nasseriano. I regimi monarchici conservatori ne uscirono vincenti, mentre l’Egitto, indebitato e indebolito, dovette accettare che la rivoluzione non si poteva più esportare. L’attrattiva del nasserismo lasciò spazio a nuove istanze, che in una decade sarebbero assurte, sulla scena mediorientale, a nuove ideologie di resistenza a Israele e all’occidente. Le radici del radicalismo musulmano si trovano in quella cocente sconfitta e nell’incapacità araba di voltar pagina e accettare Israele nel 1967. Anche Israele, a quel punto, aveva alcune scelte da fare e si deve far carico delle sue responsabilità. Lo Stato ebraico dal canto suo, dopo l’iniziale proposta e la delusione dei tre "no" di Khartoum, riscoprì il fascino seducente delle terre bibliche riconquistate e della Gerusalemme ritrovata. Di lì a una decade, privo di un interlocutore arabo serio e di una pace duratura, Israele si lasciò sedurre dall’illusione di poter per sempre mantenere i territori conquistati nel 1967, sia come esaudimento di una promessa biblica, sia come prezioso assetto militare che impedisse per il futuro il rischio che il paese fosse tagliato in due o invaso da forze nemiche. Le nude colline della Giudea e Samaria di memoria biblica si ripopolarono di insediamenti ebraici, progetto questo che non sarebbe avvenuto se i leader arabi avessero accettato Israele nel 1967 ma che Israele avrebbe potuto non promuovere anche nell’assenza di ogni speranza di pace per i trent’anni successivi. La storia dunque, fatta di circostanze imprevedibili e conseguenze impreviste, di caso ed espedienti, mancanza di visione e condizionamenti esterni, è anche responsabilità degli individui che quella storia la fecero. Le conseguenze di decisioni e indecisioni di sei giorni di storia condizionarono largamente quel che seguì e crearono un nuovo status quo nel conflitto arabo-israeliano che soltanto 33 anni dopo, in quattordic giorni di negoziati a Camp David nell’estate del 2000, apparve per un momento possibile modificare. Nella stessa pagina un articolo di Rolla Scolari, "Ma Hezbollah e Hamas promettono ancora terrore", che riportiamo: Beirut. Il quindici agosto comincia il ritiro unilaterale di Israele da Gaza, voluto dal premier Ariel Sharon, Le forze di sicurezza palestinesi si stanno dispiegando, il leader dell’Anp, Abu Mazen, sarà presente nella Striscia, gli abitanti degli insediamenti continuano la protesta. Ma questo non è il primo disimpegno di Israele: nel 2000 soldati di Tshal lasciarono il sud del Libano, teatro d’intensi scontri con le milizie sciite d’Hezbollah. Il partito di Dio e una parte dei libanesi vivono ancora oggi quel ritiro come una vittoria, e la storia si ripete: il 40 per cento dei palestinesi sostiene che Israele lasci Gaza perché intimorito dagli attacchi terroristici. Il disimpegno "non è la soluzione al problema palestinese, è una scelta di necessità che gli israeliani fanno per rafforzare il loro esercito e mettere i palestinesi in una prigione", dice al Foglio sheikh Mohammed Kawtharani, del comitato politico del Partito di Dio. L’uomo, la barba nera macchiata di bianco, porta un ampio turbante e fuma sigarette forti: "In Libano, l’occupazione israeliana ha subito una grossa perdita; il crollo è stato il risultato della lotta della resistenza, non è stata una libera scelta. Il ritiro da Gaza è difensivo: gli israeliani hanno imparato dall’esperienza in Libano". L’ufficio dello sheikh si trova in un sobborgo sciita a sud di Beirut. Nelle trafficate vie periferiche sono appese a ogni muro le immagini dei "martiri della resistenza", morti negli scontri contro le forze israeliane. Ci sono i ritratti dell’ayatollah Khomeini, accanto alle cisterne d’acqua con la bandiera iraniana, arrivate da Teheran durante la guerra civile; non sono poche le foto dell’iracheno Moqtada Sadr, che dà di "diavolo" all’America. Per Hezbollah il ritiro da Gaza non è la soluzione finale al problema. Lo sheikh dichiara che il Partito di Dio crede che la lotta contro Israele non sia finita e, infatti, Hezbollah non rispetta la risoluzione 1.559 dell’Onu, che oltre al ritiro delle truppe siriane dal Libano, prevede anche il disarmo delle milizie sciite. "E’ il Libano che esercita una pressione su Israele, non il contrario. Sharon si ritira per avere più margine di movimento: dando un mini Stato ai palestinesi evita la soluzione finale di due Stati in un unico territorio. E’ necessario applicare invece le risoluzioni Onu che prevedono per i palestinesi uno Stato più grande". Il Libano ospita 394.532 rifugiati palestinesi, il 10 per cento della popolazione. La maggior parte vive in campi profughi. I palestinesi in Libano non hanno la nazionalità libanese: hanno un documento azzurro, con il disegno di un cedro e la scritta "carta dei rifugiati palestinesi". Il governo ha promesso di aprire loro l’accesso alle professioni: finora più di 70 mestieri erano loro proibiti, hanno un limitato accesso ai servizi pubblici e alle infrastrutture sociali. Con il ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza, il loro status potrebbe cambiare. "La terra di Gaza diventerà la nostra schiena – spiega al Foglio Suheil Natour, rappresentante del Fronte democratico per la liberazione della Palestina a Beirut – Tutti sentiranno di avere un nucleo al quale appartengono, e il palestinese non sarà più soltanto un rifugiato". L’uomo parla dal campo profughi di Mar Elias, il più piccolo del Libano: 1.400 abitanti. Natour è arrivato nel 1948, aveva un anno. "C’era una foresta di pini, e i preti della Chiesa greca ortodossa, qui vicino, avevano preparato tende. Tutti pensavano si sarebbe trattato di un soggiorno di 15 giorni". Ora è difficile trovare un albero nella zona. Beirut attorno, con le sue ampie strade. Nel campo ci sono vicoli minuscoli, in terra battuta. L’acqua scorre sporca in mezzo ai piedi. Quando gli si chiede se pensa che gli abitanti di Mar Elias, dopo il ritiro, si sposteranno a Gaza, lui ride e dice: "Forse prima nasceranno agenzie di viaggio che organizzeranno tour per visitare la Striscia. Molti non hanno mai visto quelle terre". E aggiunge: "Qualsiasi ritiro, da qualsiasi centimetro di suolo palestinese ben accettato. Ma siamo scettici rispetto a una promessa di completo disimpegno". A Gaza, nei giorni scorsi, gli scontri tra forze di sicurezza dell’Anp e gruppi armati sono stati violenti. Abu Mazen cerca di mettere fine al lancio di razzi Qassam sulle città israeliane. Hamas, nonostante Israele abbia eliminato i suoi vertici, a Gaza rimane la forza che maggiormente minaccia la leadership di Abu Mazen, il quale ha posticipato le elezioni per timore di perderle. Hamas vuole far credere che Israele si ritiri sotto attacco: Natour è d’accordo. Il ritiro "è un grande risultato dell’Intifada". Non ha fiducia nei vertici palestinesi, che dovranno garantire la stabilità nel dopo ritiro: "L’Anp non rappresenta l’unità nazionale. Non abbiamo fiducia nei suoi vertici, ma allo stesso tempo non neghiamo la sua legittimità. Non accetteremo che nessuna delle fazioni dell’Intifada crei una polarizzazione di potere". Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. 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