Il terrorismo contro Israele deve essere condannato come gli altri un intervento di Mario Pirani
Testata: La Repubblica Data: 28 luglio 2005 Pagina: 1 Autore: Mario Pirani Titolo: «Chi fiancheggia la jihad»
LA REPUBBLICA di giovedì 28 luglio 2005 pubblica in prima pagina un editoriale di Mario Pirani, intitolato "Chi fiancheggia la Jihad". Non condividiamo tutto ciò che Pirani scrive (per esempio ci sembra ssurda l'ide adi una possibile alleanza anti.jihadista con il baath iracheno", ma il suo articolo ha il merito di sottolineare come un'auutentica condanna del terrorismo debba includere quello anti-israeliano, e come il dialogo con l'islam "moderato" non possa includere le autorità religiose che giustificano le stragi di israeliani. Pirani ricorda inoltre la vera natura del terrorismo jiahdista, che è aggressiva e non reattiva, è l'esistenza di forze, come Hamas, che perseguono l'obiettivo della distruzione di Israele.
Ecco il testo: Il lapsus del Papa che ha dimenticato di citare Israele tra le vittime del terrorismo, anche dando per buona la scusante avanzata dal portavoce vaticano, induce ad alcune considerazioni più generali. Tra chi coltiva un pregiudizio negativo radicato sulla politica israeliana, sia a destra ma assai più sovente a sinistra e nel mondo cattolico, la condanna del terrorismo palestinese è accompagnata, infatti, quasi sempre, da un sottofondo giustificatorio e, nel migliore dei casi, appaiata moralmente alla repressione militare dell´avversario. Tipica la recente ingiuria del sindaco di Londra, stigmatizzata da Sandro Viola nell´editoriale di martedì, che, proprio citando le stragi di civili ebrei a opera dei kamikaze, ha aggiunto che «Hamas e Sharon sono le due facce di una stessa medaglia». Del resto quante volte ci siamo trovati a discutere con chi, difendendo le ragioni indubbie dei palestinesi, ne giustificano, con qualche pallida riserva, il risvolto del martirio suicida: «Che altra arma hanno per combattere la loro lotta di liberazione? Come si fa a confonderli con Al Qaeda? E gli israeliani non usano aerei e carri armati? Non hanno edificato il Muro della vergogna?». Attorno a questi distinguo si snoda la capacità o meno di individuare, condannare e, quindi, combattere il terrorismo. La distinzione è, in fondo, semplice: la resistenza armata resta tale e si giustifica anche agli occhi del mondo fino a quando non travalica quel limite che è segnato dall´attacco contro civili innocenti, uomini, donne e bambini, straziati e insidiati nella quotidianità della loro esistenza, allo scopo di creare un tale stato di allarme da destabilizzare i governi e costringerli a subire le imposizioni ricattatorie dei terroristi.Se definiamo così il terrorismo allora non c´è differenza tra le bombe di Gerusalemme e quelle di Madrid, di New York e Istambul, di Bagdad (laddove massacrano i civili iracheni) e di Sharm el Sheik o Londra. Esso è sempre e ovunque un´arma barbarica che inquina la causa stessa di chi lo promuove. La condanna, su questa base, non si presta ai cavilli semantici per sentenze compiacenti né alle ambiguità politiche e massmediatiche. Per contro taluno potrebbe obbiettare che una corretta definizione del fenomeno, accompagnata dalla sua repulsa radicale da parte del mondo civile e delle sue componenti religiose e politiche, non comporta di per sé un passo avanti nel combatterlo. In effetti non è detto. La condanna etica dei gas asfissianti, impiegati nella Prima guerra mondiale, dissuase dall´usarli nella Seconda; quella del genocidio, pur se non ha impedito Sebrenica e il Ruanda, ha dato vita a una giurisdizione internazionale ad hoc e instaurato un nuovo diritto internazionale che comporta la possibilità di intervento umanitario. Ma l´individuazione e la condanna del terrorismo avrebbe soprattutto effetto nel disboscare, isolare e sottoporre al generale biasimo tutte quelle zone di ambigua tolleranza, dissimulata omertà, contiguità ideologica che rendono claudicante e incerto l´impegno per contrastarlo. Un esempio recentissimo (tra i tanti) di quanto vengo dicendo è l´accordo culturale firmato a giugno al Cairo, alla presenza dell´ambasciatore d´Italia, tra l´Università islamica di Al Azhar e cinque atenei italiani (la Sapienza, la Bocconi, l´Orientale di Napoli, lo Iuvav di Venezia e il Pontificio Istituto Orientale). Un modo, si dirà, per aprire un colloquio con l´Islam moderato? A condizione di non sbagliare indirizzo, un disguido in questo caso palmare se si considera che il rettore dell´università cairota, al-Tayeb, firmatario dell´accordo, ha non solo giustificato il terrorismo come «una reazione di autodifesa» ma, quando era Gran Mufti d´Egitto, esaltò «gli attacchi di martirio (quelli dei kamikaze secondo la versione islamista, ndr) che terrorizzano i cuori dei nemici di Allah», affermando anche che "i paesi islamici, sia i popoli che i governanti, devono sostenere queste operazioni di martirio". Posizione non isolata, visto che alla firma dell´accordo presenziava anche lo sheikh Mohamed Sayed Tantawi, massima autorità teologica sunnita, che nel 2002 emise una fatwa per sostenere che "le operazioni di martirio contro qualsiasi israeliano, inclusi i bambini, le donne, i giovani sono legittime dal punto di vista della legge islamica". Senza ricordare né smentire queste premesse l´ambasciatore italiano al Cairo, Antonio Baldini, a chi (Magdi Allam sul Corriere e anche l´Avvenire) aveva espresso dubbi sull´iniziativa, ha risposto piccato, adducendo a sostegno del suo operato il fatto che i due eminenti religiosi sunniti si erano in altre occasioni espressi contro la violenza e, soprattutto, su richiesta italiana, avevano stigmatizzato il rapimento delle due Simone e di Giuliana Sgrena. Un episodio che spiega ampiamente come si espliciti, attraverso i distinguo tra un terrorismo e l´altro, quell´ambigua tolleranza che indebolisce la nostra difesa, anche sul piano ideale. Su queste pagine Bernardo Valli ha ben spiegato l´impatto dirompente delle parole pronunciate dai "profeti dell´odio", sia in Occidente ma anche in Oriente. Guai a considerare come "mattane alla Bossi" le fatwe dei religiosi sunniti (che hanno trovato riscontro nelle migliaia di messaggi nei web egiziani che addossano ai servizi israeliani l´attentato di Sharm el Sheik), sia la "Staffilata di fuoco" emessa da un gruppo di rabbini dei coloni per condannare e invocare la scomparsa di "Ariel, figlio di Vera, del seme degli Sheinerman, noto con il nome di Arik Sharon". Analoga maledizione venne lanciata a suo tempo contro Rabin. L´esatta percezione del terrorismo comporta, peraltro, una valutazione dei suoi fini politici. Sovente, infatti, la rappresentazione che accompagna le rituali frasi di condanna danno l´impressione che si sia chiamati a difenderci da una manifestazione di dissennato odio di cui sono nebulose le finalità. Di qui, da un lato, le crociate alla Fallaci contro il ritorno violento e aggressivo degli atavici nemici della civiltà cristiana e occidentale; dall´altro i pacifici "negazionisti" che riducono il fenomeno terrorista a una rete estremista di pazzi sanguinari cui si contrapporrebbero le pacifiche legioni dell´Islam moderato. Non si parli, quindi, di scontro di civiltà ma di incontro fra civiltà, da cui scaturirà la pace. Una rappresentazione da opera dei pupi in ambedue le versioni. Dobbiamo invece guardare in faccia la realtà. Essa ci dice che siamo nel pieno di una guerra di civiltà che non si combatte, però, solo tra due campi contrapposti, l´Islam e l´Occidente, ma, prima ancora, all´interno dell´Islam. In questo senso è anche una guerra civile scatenata in seno alla comunità musulmana e, più specificamente, araba, non tra estremisti e moderati (dizioni fuorvianti) ma tra regimi e gruppi sociali tendenti in vario modo alla modernizzazione (di qui la loro propensione ad assimilare modelli di comportamento occidentali) e fondamentalisti religiosi, ascoltati da masse sterminate di credenti e, soprattutto, di giovani. Queste masse, indottrinate da una rete di ulema, mullah, scheik, ayatollah, dopo il fallimento del socialismo nasseriano e altri tentativi naufragati di agganciare lo sviluppo, hanno individuato come migliore risposta a una frustrazione secolare, il ritorno al Corano non solo come fede ma come prescrizione minuziosa e attuale dell´agire quotidiano, su tutti i piani. Dalla jihad alla sottomissione della donna. In questo contesto i terroristi rappresentano una avanguardia combattente, non staccata dalle masse. La contrapposizione violenta ad un modello di vita irraggiungibile (tanto più se desiderato e visto da vicino, come nell´emigrazione) unifica i codici interpretativi dell´odio di civiltà contro l´Occidente e di quello contro i regimi locali che, agli occhi delle masse fanatizzate, ne rappresentano l´indebita proiezione nella terra di Allah. Sarebbe un altro grave errore immaginare che questo ribollente e sanguinario movimento non abbia lucide finalità strategiche. Da un lato punta a conquistare il governo dei paesi islamici, come erano riusciti a farlo in Afghanistan e come sarebbero arrivati in Algeria se la fermezza dell´esercito e la resistenza della parte laica della popolazione non fossero riusciti a sventare l´aggressione. L´Egitto, l´Arabia Saudita, il Marocco, la Tunisia, gli Emirati del Golfo, il Pakistan e, naturalmente l´Iraq (aperto alla loro penetrazione dall´insano attacco di Bush e Blair) sono le tappe della reconquista islamista. Se essa riuscisse – e non è detto che non riesca – il petrolio diverrebbe una potente arma di ricatto verso il resto del mondo. L´altro obbiettivo è la distruzione di Israele. In proposito le recentissime dichiarazioni del nuovo capo di Hamas, Mahmed al-Zahar, succeduto allo sceicco Yassin, dovrebbero venir scolpite in vari luoghi (dalle sedi della diplomazia alle redazioni dei giornali e al Vaticano). Richiestogli se era disposto a una coesistenza pacifica dopo un ritiro israeliano non solo da Gaza ma, in futuro, anche dalla Cisgiordania e da una parte di Gerusalemme così da ristabilire i confini precedenti alla guerra del 1967, ha risposto testualmente: «Assolutamente no. Questa potrebbe essere una soluzione temporanea, cinque o dieci anni al massimo: alla fine tutta la Palestina dovrà tornare ad essere islamica. Nel lungo periodo Israele sparirà dalla faccia della terra». Sono tutti obbiettivi non fuori dall´immaginabile. In questo contesto il terrorismo kamikaze non è una manifestazione di disperazione ma l´impiego dell´arma tecnologicamente più avanzata (non c´è scudo spaziale in grado di bloccarla) cui il fondamentalismo può far ricorso per destabilizzare i regimi islamici e fiaccare la volontà occidentale di sostenerli e, nel contempo, di garantire l´esistenza di Israele. Questi i termini realistici del conflitto che si vincerà (forse) rafforzando governi non certo "moderati" ma che, anche grazie all´appoggio dell´esercito, spesso l´unica forza moderna, combattono il fondamentalismo di matrice religiosa (se in Iraq ci si fosse appoggiati anche al Baath e all´esercito ereditato da Saddam, non saremmo probabilmente a questo punto). Non si tratta d´esportare la democrazia che verrà quando sarà matura, ma d´imporre, in cambio di aiuto e sostegno economico, politico e militare, una dose crescente di libertà e diritti individuali, a cominciare da quelli delle donne. Dobbiamo essere consapevoli che sarà una guerra lunga, sanguinosa, difficile, diffusa nel mondo, tanto più incerta negli esiti tanto più ne camufferemo la natura.
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