Mubarak chiede aiuto a Sharon, ma non lo dice la risposta alla strage di Sharm el Sheik e i retroscena dell'attentato
Testata: Il Foglio Data: 26 luglio 2005 Pagina: 1 Autore: Carlo Panella - un giornalista Titolo: «La strana coppia - L'intreccio di Sharm»
IL FOGLIO di martedì 26 luglio 2005 pubblica in prima pagina l'articolo di Carlo Panella "La strana coppia", che riportiamo: Roma. Non è strano che il premier israeliano, Ariel Sharon, dopo l’attentato di Sharm el Sheikh abbia telefonato al rais egiziano, Hosni Mubarak, né che gli abbia offerto collaborazione immediata né che gli abbia proposto un "patto d’azione" contro il terrorismo islamico. E’ ancor meno strano che la collaborazione si sia subito concretizzata nell’assenso israeliano all’invio in Sinai – che è zona smilitarizzata dopo gli accordi del 1979 – di migliaia di soldati egiziani per pattugliamenti e rastrellamenti e per presidiare Nuweiba (dove forse sono sbarcate le autobombe), stazione di arrivo del traghetto che collega il Sinai col porto giordano di Aqaba, Sharm el Sheikh e, sul versante mediterraneo della penisola, el Arish e Rafah. Il governo di Gerusalemme ha così permesso all’Egitto ciò che, fino a poche settimane fa, era impensabile – la rioccupazione militare del Sinai – nella certezza che non sarà utilizzata dal Cairo per attentare alla sicurezza di Israele, anzi. E’ strano però, che questi accordi siano pubblicizzati soltanto da parte israeliana: Mubarak, che peraltro ha accettato tutte le proposte di Sharon, compresa una "intima cooperazione antiterrorista", non ne parla in pubblico. L’atteggiamento del rais egiziano è il sintomo di una situazione paradossale in cui negli ultimi tempi, soprattutto dopo l’attentato di Taba e quello di venerdì notte, si condensa la debolezza politica del regime egiziano nel contrastare efficacemente il terrorismo. Mubarak sa bene che Israele è l’unico Stato al mondo che ha saputo affrontare e sconfiggere la più massiccia offensiva del terrorismo islamico. Sa bene che Hamas – che del terrorismo palestinese ha la leadership – è la filiale palestinese dei Fratelli musulmani ed è parte fondamentale del network del terrore che ha colpito a Taba e a Sharm. Ma non ne parla, non ne può parlare. Da tre anni e in particolare da quando è morto Yasser Arafat, l’Egitto ha stretto con Israele una collaborazione sempre più fattiva, ma segreta, criptica. Soltanto un uomo se ne occupa e questi è, non a caso, Omar Suleiman, il fedelissimo capo dei servizi segreti egiziani. Il flusso di informazioni tra il Cairo e Gerusalemme è costante, i ripetuti vertici politici di Sharm sono seguiti e preceduti da continue riunioni tecniche tra il Mukhabarat egiziano e il Mossad israeliano. Questi incontri si concentrano sulla scadenza del ritiro da Gaza (e quindi sul blocco delle azioni terroristiche che hanno nella Striscia una ramificata base centrale) e si allargano anche al controllo delle frontiere (Israele ha recentemente concordato la deroga agli accordi del 1979, permettendo a 750 soldati egiziani di presidiare Gaza) e all’azione anti terrorismo più in generale. Ma Mubarak ha scelto di coprire queste indispensabili attività di cooperazione egizio-israeliane con mille strati di omertà: ha scelto la politica del doppio binario all’insegna del "si fa ma non si dice", in omaggio al peggiore spirito antisionista e antisemita che si respira oggi in Egitto come in tanti paesi arabi. Preso il potere alla morte di Anwar al Sadat, ucciso dalle stesse centrali terroristiche islamiche che seminano oggi strage nel mondo, Mubarak ha concesso agli assassini del suo predecessore una formidabile vittoria politica: ha completamente chiuso e sigillato quell’apertura culturale a Israele e agli ebrei che Sadat aveva inaugurato col suo coraggioso discorso alla Knesset del 1977. Dal giorno dell’assassinio di Sadat in poi, i giornali egiziani – quasi tutti di regime – hanno ripreso a negare a Israele il diritto del nome (che significa diritto all’esistenza), definendolo "entità sionista". Ogni occasione di deterioramento delle relazioni israelo-palestinesi – anche se provocata esplicitamente da Arafat – è stata buona negli ultimi anni per interrompere le relazioni diplomatiche con Israele, completamente rotte nel 2000, col lancio dell’Intifada e riprese soltanto dopo la morte di Arafat. Oggi l’Egitto ha disperato bisogno di Israele per combattere il terrorismo islamico, soprattutto dopo Taba e Sharm el Sheikh cioè dopo le stragi che hanno dimostrato come il network del terrore islamico interno che colpì selvaggiamente negli anni 90 si sia saldato con quello esterno. Come in Iraq, l’Egitto è oggi colpito dal contagio saudita che si muove con estrema precisione. Ma l’Egitto di oggi, anche quello "moderato", non può e non vuole accettare l’aiuto di Israele. Nei "talk show" e sui giornali di regime si continua così a disquisire sui mandanti "sionisti delle stragi", mentre il regime si appoggia proprio ai sionisti per catturarne gli autori e impedire nuovi eccidi: un’immagine plastica delle secche limacciose in cui la cultura politica araba si è voluta incagliare. Sempre in prima pagina, l'articolo "L'intreccio di Sharm": Roma. Tre giorni dopo il bilancio dell’attento terroristico di Sharm el Sheikh è di 64 morti, compresi quattro italiani, e oltre duecento feriti. Ma non sono ancora dati definitivi. Le stragi in Egitto, così come quella di Londra, sono parte di un’offensiva delle nuove cellule di al Qaida, che operano in autonomia ma con un filo che li collega all’ambiente del radicalismo islamico in Pakistan. Le forze di sicurezza egiziane hanno stampato e distribuito in zona e ai posti di blocco un fascicolo con una cinquantina di fotografie di sospetti della strage di Sharm. L’attenzione degli investigatori si concentrerebbe su sei o nove pachistani che si trovavano a Sharm el Sheikh la notte della strage e che avrebbero lasciato la località turistica sabato mattina. In alcuni casi, addirittura abbandonando i passaporti alla reception degli alberghi, uno dei quali era il Ghazala, il più colpito. Non è escluso che il passaporto trovato del Ghazala appartenesse a uno dei terroristi- kamikaze, forse l’unico shahid dell’attacco che ha fatto saltare per aria l’albergo frequentato dagli italiani. L’allarme è scattato perché il gruppo di pachistani ricercati sarebbe arrivato illegalmente in Egitto il 5 luglio. Non solo: i passaporti che i sospetti avevano consegnato agli alberghi di Sharm el Sheikh erano giordani e falsificati. Ieri pomeriggio le forze di sicurezza egiziane hanno circondato i villaggi beduini di el Ruweisat e Khurum, poco distanti dalla località turistica. In questi due piccoli centri si nasconderebbero almeno un paio dei pachistani ricercati. Alcune agenzie di stampa hanno parlato di un conflitto a fuoco tra l’antiterrorismo e il gruppo di latitanti, ma è difficile trovare conferme e dettagli. Dopo gli attacchi terroristici a Taba e Ras a-Satan, in un’altra zona del Sinai al confine con Israele, che nell’ottobre scorso avevano provocato 34 morti, erano stati arrestati un centinaio di beduini. Il capo dei servizi egiziani, Omar Suleiman, sa che i beduini conoscono a occhi chiusi le piste del deserto e che molti di loro sono coinvolti nei traffici di droga e di armi che passano attraverso il Sinai. Nel comunicato di rivendicazione dell’attentato di Sharm i terroristi hanno fatto esplicito riferimento alla vendetta per i "fratelli del Sinai". ovvero i beduini incarcerati per l’attacco di Taba, alcuni dei quali deceduti in galera sotto interrogatorio. Se i sospetti terroristi che hanno agito in Sinai sono pachistani, tre dei quattro kamikaze del 7 luglio a Londra erano giovani britannici di origini pachistane che hanno scelto la strada delle bombe a causa del lavaggio del cervello nelle madrasse estremiste ancora tollerate da Islamabad. Secondo il sito israeliano "Debka file", esisterebbe un collegamento fra il tipo di esplosivo utilizzato nelle stragi in Egitto e in Gran Bretagna. Suleiman avrebbe informato gli americani che l’esplosivo delle bombe a Sharm el Sheikh sarebbe dello stesso tipo di Taba, a sua volta proveniente da un arsenale della Serbia. I terroristi l’avrebbero ottenuto grazie al contrabbando dei Balcani. Anche gli inglesi stanno seguendo la pista sull’origine dell’esplosivo della City che punta a criminali comuni di Belgrado. Dal ministero della Difesa serbo hanno smentito che manchi all’appello materiale così pericoloso. La sigla per rivendicare la strage di Sharm porta ad al Qaida, al Pakistan e al conflitto afghano, come nel caso di Londra. L’attacco nella capitale inglese è stato rivendicato dalle Brigate Abu Hafs al Masri, nome di battaglia del consuocero di Osama bin Laden, mentre sia per Taba sia per Sharm el Sheikh, i terroristi hanno scelto di adottare il nome di Brigate Abdullah Azzam. Questi è un palestinese che oggi ispira Hamas. Era membro dei Fratelli musulmani e trovò rifugio in Arabia Saudita, dove ottenne una cattedra all’università e dove conobbe lo studente Osama bin Laden. Azzam divenne il padre spirituale dello sceicco saudita e assieme fondarono a Peshawar un ufficio di smistamento di volontari che andavano a combattere contro i sovietici in Afghanistan. Nel 1989 Azzam saltò in aria e Osama cominciò a pensare a creare al Qaida. Il mentore di bin Laden è conosciuto come il "padrino del jihad", perché in una conferenza del 1988 nella moschea al Farook, a Brooklyn, invitò i giovani musulmani a "condurre la guerra santa ovunque si trovino e di non limitarsi alla Palestina e all’Afghanistan". Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.