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La Stampa Rassegna Stampa
25.07.2005 L'attentato di Sharm el Sheik
reportage di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 25 luglio 2005
Pagina: 5
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Tra i musulmani "Noi pvera gente le prime vittime"»
LA STAMPA di luned' 25 luglio 2005 pubblica a pagina 8 unarticolo di Fiamma Nirenstein, che riportiamo:
«È tutta povera gente». È arrabbiato e stanco l’anziano, scuro dottore che corre dall’uno all’altro dei cinquantacinque ricoverati dell’ospedale di Sharm el Sheikh - 49 egiziani, 5 stranieri - nella luce bollente del mattino. Sono poveri lavoratori arabi i suoi pazienti, vittime del santo terrorismo jihadista. In coppia con un medico più giovane si fa largo fra i parenti e gli amici dei feriti e fra i giornalisti nell’edificio a piramide tronca costruito, come i vari superhotel tutti in fila, i Royal Plaza, Kraune, Sonesta, per impressionare i visitatori di quella che ben presto si scopre essere una città-facciata. È la città «infettata» dall’Occidente e quindi degna di essere sterminata e rovinata senza pietà. Da quando nel ’79 gli israeliani la restituirono all’Egitto dopo l’accordo fra Begin e Sadat, Sharm el Sheikh fu scelta da Sadat stesso come vetrina, fonte di contatto con l’Occidente e con i Paesi del Golfo. Fu definita da allora governatorato militare, e ospita una colonia di ufficiali, soldati e impiegati dello stato protetta irta di antenne; accanto, la Città dei Balocchi. Ma dal Cairo arrivano spesso elicotteri e mezzi blindati, carovane di signori incravattati dentro macchine lucidissime; sembrano un’illusione metafisica in mezzo ai sudati turisti mezzi nudi di tutto il mondo. Ma sono gli invisibili, poveri immigrati arrivati da ogni parte dell’Egitto a oliare con il loro sudore la macchina turistica occidentalizzata che ha scatenato la mortale ira degli integralisti.
Karam Aid Muhamed è tutto arruffato di sonno e di dolore, le mani sporche, gli occhi rossi, buttato sul divano dell’ospedale da due giorni, al caldo, fra amici e parenti, decine di persone che ora vorrebbero portarsi a casa i loro paesani gravemente feriti, quattro giovani di Ismailia: «Il più vecchio ha 27 anni, ha avuto le gambe amputate all’inguine; anche gli altri sono stati colpiti agli arti, mani, piedi, chissà se potranno mai più lavorare. Ma siamo un gruppo compatto, ci aiuteremo: viviamo qui a turno, 15 giorni a Sharm e 15 a Ismailia, con le famiglie. Lavoriamo per una compagnia di pulmini e siamo fortunati perché abbiamo uno stipendio. Eravamo al parcheggio quando è scoppiata l’autobomba. Stiamo tutti insieme, dormiamo, mangiamo, ci laviamo in due stanze, una piccola cucina e un bagnetto. Facciamo la spesa al mercato, è caro perché tutto arriva ogni giorno dal Cairo. Il guadagno: 500 ghinee al mese, circa 100 dollari, che devono andare quasi tutti a casa. Perché mai la bomba se la sia presa con noi, chi lo sa? Non può essere stato un egiziano, un musulmano! Dev’essere gente di fuori, da lontano. Sarà per invidia verso l’Egitto, un grande, forte, bel Paese, terra buona. Noi siamo solo per lavorare. Mia moglie vive a Ismailia con i miei cinque bambini in quattro belle stanze, grazie a Dio». «Vado alla moschea quanto tutti gli altri, sono un musulmano normale», aggiunge un amico. «A vedere la mia casa qui no, non ti ci portiamo, ci vergogniamo. Comunque c’è uno di noi che cucina e pulisce sempre... Bin Laden? Ma no, non credo. È musulmano, no?». E allora chi? Gli americani, gli israeliani... certo. Sa tutto un gruppo di ragazzi che lavorava in un supermarket ormai raso al suolo: vengono da una città vicina al Cairo, ora sono disperati, senza lavoro.
Adesso c’è da badare a Khalef Ahmad, a letto con un pigiama celeste, pallido come uno straccio, ferito alla schiena: anche i suoi amici abitano in qualche stanzetta di fango, senza condizionatore con 45º all’ombra e quando non lavorano sono nascosti, invisibili ai turisti. Adesso non hanno neppure i soldi per tornare a casa in autobus, perché nessuno più li paga. Ma uno di loro corre in farmacia con una ricetta dell’ospedale a comprare le medicine per Khalef; lo nutriranno, lo accudiranno, almeno fino a quando riusciranno a resistere senza una famiglia, senza una casa. Lo Stato ha promesso, Mubarak è venuto in visita proprio qui, ma intanto questa tribù di migliaia di uomini, questo mondo privo di donne e di bambini, teme il peggio.
Dunque, chi li ha colpiti e perché? Ci risponde Khaled di 26 anni: «Ho visto la tv e da quella si capiva tutto». E cioè? Sul canale nazionale egiziano il generale Fuad Hallam ha detto che «quasi certamente sono stati gli israeliani. A Taba il capo era un palestinese legato ai servizi segreti israeliani». E perché mai? «Vogliono destabilizzare il governo e dare un colpo alla nostra economia. Solo gli israeliani e gli americani beneficiano di questo attentato». Anche Al Jazeera ha intervistato, come del resto Al Arabja, esperti di terrorismo e analisti politici che ripetono, come Majdi Burnawi: «Credo che il Mossad sia il responsabile dell’esplosioni». E perché?: «Perché vuole vendicarsi dei dodici morti a Taba e sa che a Sharm el Sheikh i turisti invece sono europei». «Certo che non è stato Bin Laden, che cosa dice! E nessun’altra organizzazione islamica. Altrimenti, non sono islamici, una copertura degli israeliani». E perché gli israeliani? Che interesse hanno? «Che domande, lo sanno tutti». I compagni annuiscono.
Al mercato i venditori di galabje, spezie, collane, occhiali da sole, come Aladin che aveva due negozi, valorosamente dirigono sbilenchi i lavori di restauro di fronte agli scheletri delle auto esplose e lasciate li. Uno manda a casa dieci commessi, un altro venti camerieri; la polizia piantona tutta la zona. Ma dove sono i beduini, sospettati di complicità nell’attentato di Taba a ottobre? In città non li vedi. «Perché - spiega un ortolano - noi egiziani lavoriamo in città, loro restano nel deserto».
Dunque, andiamo nel deserto: una minuscola auto malandata viaggia sulla distesa gialla come fosse in autostrada, le andiamo incontro. Il beduino si chiama Salama, ha 48 anni e ne dimostra 70. «Mi occupo di spazzatura - dice -. Noi stiamo fuori con le capre e i cammelli, ma dipendiamo dalla città». E ora? «Continuo a lavorare, sperando che la crisi non ci porti a morire di fame». Ha girato con i suoi cammelli e la sua famiglia dappertutto, ovunque ci sia il deserto, perfino in Israele: «Il Mukabarat ci ha fatto tante domande dopo Taba e ce ne farà tante anche adesso». Sarà, chiediamo, perché i beduini hanno rapporti con traffici di ogni tipo, compreso quello di armi che percorre tutto il Sinai? Ride sdentato: «Traffici ce ne sono! Armi quante se ne vuole... ma i beduini non c’entrano». Ma appena lo lasciamo una macchina della polizia ci affianca e ci scorta fino a un check-point. Vogliono sapere chi siamo, cosa facciamo, perché parliamo con i beduini. Ci sospettano, guardano i nostri appunti, a malapena dopo aver chiesto il numero della camera d’albergo lasciano la presa.
La sera cala su Sharm El-Sheikh: davanti alle telecamere spunta una curiosa manifestazione «spontanea» contro il terrorismo fatta da cuochi col cappello e da lavoratori degli hotel con cartelli nuovi di zecca che dicono «No al terrorismo». Il loro «no» è certo in parte spontaneo: i loro bambini avranno fame se Sharm El-Sheikh non si rimette alla svelta. Ma quando chiedi se protestano contro il terrore islamico che ferisce tutto il mondo rispondono: «Non esiste».
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