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La Repubblica Rassegna Stampa
23.07.2005 Gli scrittori israeliani di fronte al terrorismo
un articolo di Susanna Nirenstein

Testata: La Repubblica
Data: 23 luglio 2005
Pagina: 44
Autore: Susanna Nirenstein
Titolo: «Letteratura e Kamikaze»
LETTERATURA E KAMIKAZE
Gli scrittori israeliani di fronte al terrorismo
articolo di Susanna Nirenstein sulla REPUBBLICA di oggi 23-07-05
Per un lungo periodo l´argomento non è stato affrontato Ma ora gli attacchi suicidi risuonano nei romanzi Da Yehoshua a Keret, Liebrecht e Shifra Horn

Eccol'articolo:




Israele ha qualcosa di speciale da insegnarci in questi giorni di guerra "contro gli ebrei e i crociati". Si ha idea di cosa ha voluto dire vivere per anni costantemente braccati dal terrorismo? Per un lungo periodo gli autori israeliani non hanno affrontato di petto l´argomento: la letteratura via via ha vibrato di sionismo, nascita dello Stato ebraico, l´ombra dello sterminio, si è intessuta delle guerre e dei loro strascichi, ha dipinto esistenze eroiche quotidiane, individui in bilico tra memoria, esilio, nuova identità, determinazione felice, conflitti. Poi qualcosa è cambiato, la catastrofe si è riaffacciata nella vita di ognuno.
Eppure fino ad adesso nei romanzi israeliani il riferimento agli attentati suicidi si presentava come un eco, un rimbombo funesto e straniante, quasi fosse una Medusa da non guardare negli occhi pena rimanerne accecati. Come nella surrealtà di Edgar Keret e della sua Pizzeria kamikaze, o in Parti umane di Orly Castel-Bloom, o ancora nel più noto Il responsabile delle risorse umane di Abraham B. Yehoshua, così come in alcuni degli ultimi racconti intitolati Un buon posto per la notte di Savyon Liebrecht usciti da pochissimi giorni (edizioni e/o, pagg. 296, euro 16).
Shifra Horn non si accontenta di quel risuonare lugubre, delle morti anonime e nebbiose, dei fragori lontani. La scrittrice nata a Tel Aviv in una famiglia immigrata da sette generazioni e da un padre russo sopravvissuto alla Shoah, nota soprattutto per romanzi più o meno appartenenti al "realismo magico" (citiamo per tutti Quattro madri e La più bella tra le donne), questa volta, con Inno alla gioia (Fazi, pagg. 338, euro 16, ora in libreria) mette i piedi nel piatto del disastro e della realtà. E d´improvviso siamo a due passi dalla fine: in macchina dietro un autobus che un terrorista palestinese fa scoppiare a Ghilo, Gerusalemme. O siamo a New York, Bali, Casablanca, Istanbul, Madrid, Londra, o davanti al centro commerciale di Nethanya qualche settimana fa?
Yael guida la sua vettura e gioca a fare cucù con un bambino che la guarda dal fondo del bus. La radio manda in onda l´Inno alla gioia di Beethoven. Un frastuono squarcia il cielo e la terra. Squarcia tutto. Lei è viva, sbalzata via insieme alla macchina, intorno c´è solo odore di bruciato, un repugnante e inestinguibile odore di carne bruciata. La storia è quella di Yael che non riesce quasi più a guardare il suo bambino Yoav, che sprofonda nella distanza già esistente col marito Nahum, che fa una doccia ogni cinque minuti per togliersi quel fetore di dosso, che lascia la casa andarsene giù, sempre più giù e non trova conforto se non nell´idea di innamorarsi di Avraham, padre del bambino che lei ha intravisto nel bus e che è morto, un religioso che lei invade morbosamente con mille attenzioni inopportune.
Niente nel cervello di Yael va più al suo posto. Il trauma si è preso ogni centimetro disponibile, o quasi. Dolore e paura abitano un pianeta incomunicabile, ma intorno scorre la vita e lei deve farci qualcosa e, zoppicando, la fa, tornare al lavoro, riempire il frigorifero, abbracciare Yoav, mandare a monte il matrimonio.
Quel che le fa fare un salto, comunque, è capire il silenzio in cui l´ha cresciuta il padre sopravvissuto alla Shoah. Per anni si era chiesta i perché di quel mutismo sull´esperienza dei lager, per decenni lo aveva interrogato e aveva registrato la sua incapacità a ridere. Ora Yael è come lui, una sopravvissuta, e non può raccontare niente a nessuno, comunicare niente con nessuno che non sia coinvolto nello stesso lutto. Grazie al cielo c´è Nehama, amica cicciona e generosa, psicologa: la sua parola d´ordine è superare il trauma, condividere, riprendere a vivere, un percorso in cui Israele ha allenato parecchio i muscoli negli ultimi anni. Le cose lentamente riprendono a muoversi, secondo corsi totalmente nuovi e imprevisti però. L´importante è non farsi intimorire, sfidare la macelleria del terrorismo suicida andando al supermarket, al cinema, mandando i figli a scuola, innamorandosi, vivendo nonostante tutto la libertà. E Yael, così come ce la racconta Shifra Horn nel ritratto autentico della società israeliana e della sua tempesta quotidiana che traccia, farà proprio così.

Al quale segue un'intervista con Zeruya Shalev.
Eccola:

PARLA L´AUTRICE DI "INNO ALLA GIOIA" CHE RACCONTA L´ANGOSCIA REALE DELLE BOMBE

L´attentato in presa diretta

Nata a Tel Aviv, un´infanzia trascorsa a Gerusalemme, due anni nell´aeronautica, studi biblici e archeologici, attiva nella campagna per riportare gli ebrei etiopici in Israele, ha scelto di scrivere Inno alla gioia dopo che uno shahid ha fatto saltare un autobus nel suo quartiere gerusalemitano, Gilo, un attentato in cui morirono persone da lei conosciute. Pochi mesi dopo, un´altra amica fu coinvolta in un attentato suicida, la scrittrice Zeruya Shalev: a quel punto «l´orrore si era fatto troppo vicino».
Gli altri scrittori israeliani hanno affrontato finora il tema del terrorismo in modo più indiretto. Quando e perché ha deciso di collocare la sua protagonista sulla scena di un attentato suicida?
«Vivo parte dell´anno in Nuova Zelanda. Credo sia stata la lontananza a permettermi di vedere le cose con una certa distanza e capire la dimensione di quel che gli israeliani sono costretti ad affrontare quotidianamente».
Lei abita a Gerusalemme. Ha paura?
«Per più di un anno il mio quartiere è stato il bersaglio di attacchi notturni, e il bus che esplode nel mio libro è esploso realmente non lontano da casa mia».
Nel suo libro il trauma del terrorismo è continuamente abbinato a quello lasciato dalla Shoah nei sopravvissuti.
«La protagonista Yael dopo l´attentato improvvisamente può identificarsi col padre, un sopravvissuto, e capire la tragedia ebraica. Si sente esattamente come lui, un superstite».
Crede che il mondo, l´Europa, abbiano capito il dramma d´Israele, la minaccia di un terrorismo quotidiano che aggredisce persone qualsiasi e innocenti?
«Non penso che gli europei capiscano l´intensità del nostro incubo. Eventi terribili come quelli di Londra forse possono aiutarli a comprendere e ad essere meno giudicanti su Israele. Spero che il terrorismo non divenga una routine. Noi comunque non ci abitueremo a subirlo».
Quanto è cambiata la società israeliana col terrorismo?
«Siamo diventati più forti ed elastici e uniti».
Il suo romanzo finisce bene. È ottimista per Israele? È ansiosa rispetto al ritiro israeliano da Gaza?
«Devo essere ottimista. Altrimenti non potrei vivere qui».
S. Nir.
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