Della necessità di riconoscere il nemico, e il male un articolo dello scrittore olandese Leon de Winter sul terrorismo
Testata: Il Foglio Data: 22 luglio 2005 Pagina: 1 Autore: Leon de Winter Titolo: «Dall'Olocausto ad al Qaida. Perchè per noi occidentali è così difficile e vitale riconoscere il male»
IL FOGLIO di venerdì 22 luglio 2005 pubblica a pagina 1 dell'inserto l'articolo dello scrittore olandese Leon De Witt "Dall'Olocausto a d al Qaida. Perchè per noi occidentali è così difficile e vitale riconoscere il male", che riportiamo L’islamista ci odia perché siamo diversi. Essendo diversi siamo il suo nemico. Essendo noi suo nemico, vuole la nostra rovina. Non abbiamo scelta: se lui ci dichiara suo nemico dobbiamo difenderci. "Nemico" è per i figli di ebrei sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale un concetto noto. I genitori di questi figli erano il nemico di un qualcuno che un giorno avrebbe bussato alla porta e distrutto la famiglia e tutto quello che le era caro e noto, solo perché non cercava altro che la distruzione. I bambini sanno bene che il nemico non ha bisogno di alcun motivo per vedere nei suoi genitori dei nemici. Per i bambini si tratta del nemico nella sua forma assoluta, una grandezza inconcepibile, quasi sovrannaturale. E’ la negazione della sicurezza che i genitori danno. Ma i genitori sono impotenti. Solo per un caso assolutamente fortuito sono sopravvissuti al terrore del nemico. E i bambini crescono con il bisogno di proteggere i genitori da questo pericolo immenso (…). "Nemico è chi è disposto a morire per ucciderti", si legge in "Civilization and its Enemies " di Lee Harris, l’intellettuale americano che forse più degli altri ha analizzato in profondità gli effetti morali, psicologici e politici dell’11 settembre. "E anche se il nemico ha un motivo preciso per odiarci, è il suo non il nostro. Ci odia per i nostri errori non meno che per le nostre virtù. Lui vede un mondo diverso da quello che vediamo noi, e nel mondo che lui vede noi siamo i suoi nemici. Per noi è difficile capire tutto questo, ma dobbiamo farlo se vogliamo comprendere che cosa significa il concetto di ‘nemico’". Nel leggere queste parole, ho realizzato che Lee Harris non parlava soltanto dell’odio islamista verso l’occidente, ma anche dell’odio, al quale da secoli gli ebrei si sentono esposti. Io sono cresciuto con la paura del nemico. L’esperienza dei miei genitori mi aveva fatto capire sin da bambino che esisteva, che c’era qualcuno che mi considerava un nemico, ma non sapevo chi fosse e quando si sarebbe palesato. Ero però anche in grado di relativizzare questa paura, di ridurla a implicazioni psicologiche dovute al fatto assolutamente accidentale di essere nato in una famiglia ebrea. Si trattava di un’ipersensibilità che sarebbe scemata col tempo, che volevo scemasse col tempo perché non solo ero figlio dei miei genitori, ma anche del mio tempo e non ero disposto a dover convivere con l’idea del "nemico" (…). La mia sensibilità riguardo a questo tema potrà essere anche ereditaria, ma non per questo è meno forte. Me ne sono reso conto quando l’11 settembre gli aerei si sono schiantati contro le Twin Towers. All’improvviso ho capito che cosa avevano dovuto sopportare i miei genitori: vivere con la consapevolezza di essere odiati da uomini che li consideravano nemici. Non tutti sanno che cosa si prova. Tant’è che è venuta a crearsi una fondamentale divergenza di opinioni tra le persone che hanno vissuto questa esperienza direttamente o no e le altre. "Noi ci troviamo nel bel mezzo di un conflitto tra coloro per i quali la categoria nemico è determinante nell’organizzare l’esperienza umana, e coloro per i quali l’immagine del nemico è bandita dal dibattito pubblico e addirittura dai propri pensieri", scrive Harris: "Perché ci odiano? Ci odiano perché siamo il loro nemico". Harris descrive qui un’esperienza di base degli ebrei. Qualsiasi cosa l’occidente abbia potuto fare al mondo arabo-islamico nei passati 200 anni, niente può giustificare l’intensità dell’odio e il fine che si è proposto, cioè la rovina dell’occidente e l’istaurazione di uno Stato arabo sovrannazionale che funzioni come un "comitato di salute pubblica permanente". Per l’islamista la nostra sola esistenza è fonte di odio, perché si sente umiliato e offeso. Le sue ambizioni non coincidono con la realtà. Per questo deve disfarsi della realtà distruggendola. L’islamista mi costringe ad apparire nel suo mondo come antagonista e dunque di reagire alle sue azioni. Vedendomi come suo nemico, mi costringe a vederlo come mio nemico, e a tornare a ragionare in categorie che io in quanto europeo moderno avevo voluto dimenticare o perlomeno: secondo le quali non avrei mai più voluto agire perché (…) il concetto di "nemico" ha fatto sprofondare l’Europa nella tragedia e ha trasformato milioni di persone in vittime. Ma non abbiamo scelta: se egli ci dichiara suo nemico, dobbiamo difenderci. Dunque dobbiamo occuparci più da vicino di lui. Il mondo arabo islamico è afflitto da molti mali. Nel 1999 il totale del prodotto nazionale di tutti i paesi della Lega araba non raggiungeva quello della Spagna. In nessuno di essi vige una democrazia di stampo occidentale. Le donne sono persone di serie B; la metà di loro è analfabeta. Le università e gli istituti di ricerca sono lontanissimi da uno standard accettabile. Più della metà degli arabi ha meno di 18 anni ed è privo di qualsiasi prospettiva futura. Il tasso di disoccupazione è alto. I media sono sottoposti a una censura severa. Molti paesi arabi si trovano in una situazione di "stato di emergenza" permanente, e dunque vige una sospensione de facto dei diritti costituzionali. I regimi autocratici e dittatoriali si mantengono al potere ricorrendo a massicce azioni di repressione e a servizi segreti senza scrupoli. Anche se a partire dall’11 settembre si è potuto osservare un timido tentativo da parte dei mass media arabi di aprire un dibattito (vedi www.memri.org) e malgrado le Nazioni Unite abbiano pubblicato due rapporti molto franchi sulla crisi nel mondo arabo-islamico, è proprio la mancanza di un reale spazio di dibattito pubblico uno dei motivi principali dell’incapacità araba di giudicare la propria situazione in modo chiaro e senza pregiudizi. Un arabo che voglia scrivere e parlare in piena libertà deve andare in esilio in occidente. (…) Se ci prova (nel suo paese) non fa che scontrarsi con le barriere alzate dalle élite politiche e dalle istituzioni religiose, le prime prevalentemente corrotte, le seconde prevalentemente reazionarie. Per entrambe è infatti di vitale importanza il mantenimento dello status quo. Le élite politiche temono di perdere il potere e con esso la base del loro arricchimento. Quelle religiose temono il rinnovamento tanto quanto la radicalizzazione fondamentalista. In questo scenario cupo, dove nulla è come appare, dove i tiranni si definiscono democratici, dove le elezioni sono una farsa, dove i media non sono altro che il megafono delle classi politiche autocratiche, dove non sono contemplate manchevolezze proprie, semmai solo nella misura in cui sono state indotte da colpe altrui – dei crociati, dei sionisti – due sono i modelli di pensiero vigenti intesi a spiegare alle masse frustrate e disperate i fatti del mondo. Il primo è ovviamente dato dall’islam. E’ vero che nella pratica di questa religione vi sono grandi differenze regionali, ma il suo nocciolo essenziale rimane: Maometto è l’ultimo profeta di Dio e il messaggio che Dio gli ha trasmesso in veste di Corano (…) è l’unica verità rivelata. La maggioranza dei musulmani pratica il proprio credo in forma assai più radicale dei cristiani e degli ebrei. L’islam non è come ogni altra religione una forma di meditazione, islam si propaga in tutti gli ambiti della vita. Secondo lo studioso britannico di islam David Pryce-Jones l’intero sistema di valori dell’islam si fonda su tre forme sostanziali di disparità relazionale, che hanno forgiato e forgiano la cultura musulmana: il fedele è superiore all’infedele, il padrone allo schiavo, l’uomo alla donna. "Queste tre forme di relazione – scrive Pryce-Jones – stanno a indicare quello che viene considerato l’ordine giusto in questo mondo e in quello che seguirà. Derivate dal codice dell’Arabia tribale di quattordici secoli fa, si contrappongono alla democrazia così come alla semplice tolleranza. La loro essenza sta nel preservare l’onore e lo status del maschio musulmano". Non basta dunque spiegare le crisi nel mondo arabo- islamico solo sulla base di cause socioeconomiche o geopolitiche o storiche, è necessario svelare il nocciolo vero che sta dietro a queste cause, altrimenti non sarà mai possibile riconoscere e combattere la follia che alberga nel terrorismo islamista, il quale, è vero, conta solo pochi membri attivi, ma sembra avere (come attestano i sondaggi) molti milioni di ammiratori islamici passivi. Quello che risulta evidente è che il primo islam legittimava le azioni di Maometto conquistatore: solo Maometto conosceva il messaggio di Dio e questo spiegava il successo delle sue conquiste. Egli era maschio, signore, credente. Il potere schiacciante del primo islam, che si esprimeva anche in ambito culturale e scientifico, era la prova inconfutabile della superiorità del messaggio contenuto nell’islam. Nei clan dei beduini arabi, le tre forme relazionali sono state nei secoli, prima e dopo Maometto,"strategie di sopravvivenza". La cultura araba del deserto è una cultura nomade quasi esclusivamente improntata alla vergogna, dove la sessualità femminile è altamente problematizzata e condizionata dalla necessità del maschio di salvaguardare il proprio onore e il rispetto dovutogli. Sono trascorsi quattordici secoli da allora, ma non vi sono state pressoché evoluzioni nel mondo arabo in questo campo, se per evoluzione s’intende una graduale equiparazione tra uomo e donna. Anno dopo anno sono uccise migliaia di donne arabe perché colpevoli di aver infangato l’onore della famiglia, del fratello o del marito (…). Non a caso esistono movimenti di femministe musulmane che vogliono liberare l’islam dalle influenze della cultura beduina preislamica. L’evoluzione conosciuta dall’ebraismo nei duemila anni dopo la distruzione del Secondo Tempio risalente all’anno 70 d.C. dimostra che anche una cultura religiosa può mutare, può sostituire all’interpretazione letterale delle Sacre scritture una simbolica e astratta. Lo stesso si può dire per il cristianesimo. Ma una trasformazione del genere è possibile anche nell’islam prima che gli islamisti sconquassino il mondo? E ancora è possibile trasformare uno dei tre pilastri fondanti della cultura islamica, cioè il rapporto diseguale tra uomo e donna (così determinante nell’educazione, nel matrimonio, nella famiglia) senza causare l’implosione di tutta la Casa dell’islam e senza privare un miliardo di persone dei rituali che rappresentano il senso della loro cultura? Con la colonizzazione del mondo arabo, nel corso del XIX e inizio XX secolo, il rapporto di sottomissione dello schiavo al signore è andato perdendo notevolmente di significato. In altre parole l’islam qui è riuscito a modernizzarsi. Non così è stato per quel che riguarda la posizione subordinata delle donne e degli infedeli. Della lotta islamista contro la razza inferiore degli infedeli trattano gli scritti di Osama bin Laden, "Il Jihad contro gli ebrei e i crociati" e "Dichiarazione di guerra agli americani che occupano il paese dei due luoghi sacri", redatti a metà anni 90. Nella "Dichiarazione di guerra" bin Laden cita ampi stralci dell’opera di Ibn Taymmyya, un dotto vissuto tra il 1263 e il 1328, un’epoca caratterizzata da una forte resistenza di cristiani e sunniti tartari all’islam imperante. Bin Laden vede corrispondenze tra l’oggi e i tempi turbolenti di allora. Lo dimostrano le citazioni scelte, affatto innocue. Così si legge per esempio che il fine di una vita condotta secondo i precetti di Dio sta in ultima analisi nel combattere e distruggere sotto tutti gli aspetti il nemico. Bin Laden è l’interprete di un modo di pensare per noi occidentali grottesco. Sostiene che gli è più cara la morte della vita, esattamente come proclamano da anni molti rappresentanti dell’islam radicale, da Hamas agli autori del proclama che rivendicava gli attentati nella metropolitana di Madrid. In occidente siamo arrivati alla conclusione, che la vita vada vissuta qui e ora e che tutto quello che potrebbe venire dopo la morte è pura speculazione. Il mondo di bin Laden e degli islamisti si propaga invece indisturbato oltre alla morte (…). Anche ebrei e cristiani di stretta osservanza credono in un aldilà che premia i veri fedeli. La differenza sta però nel fatto che in attesa di giungere allo stadio di eterna beatitudine, per l’islamista il mondo è il luogo dove mettere in atto la disputa violenta tra credenti e infedeli, tra la Casa dell’islam e il resto del pianeta: la Casa della guerra. Il risultato è già deciso: i credenti vinceranno, e la vittoria sarà la dimostrazione della superiorità dell’islam, perché l’islam è di per sé superiore. Questo è il circolo vizioso che costituisce l’essenza dell’islamismo. Come spiega allora l’islamista la superiorità economica, militare e tecnologica odierna di questo occidente subdolo e miscredente? Secondo lui, così dice, è dovuta al fatto che i musulmani si sono allontanati dalla forma pura, tradizionale dell’islam e l’infedele perfido ha sfruttato la scarsa religiosità dei musulmani. Una logica che però non basta a rispondere alla seguente domanda: perché è scomparsa la forma pura dell’islam, quella predominante ai tempi di Maometto e subito dopo, perché è andata persa quella perfezione, che sola garantiva il dominio del mondo ai veri credenti, cioè ai musulmani? Come può una forza superiore soccombere a forze inferiori? Ed è qui che entra in scena la seconda categoria con cui gli arabi spiegano i loro problemi: la teoria del complotto. La storia dell’islam e dei popoli araboislamici pullula di congiure e complotti (…). E’ quasi impossibile contare il numero di colpi di Stato che avvengono nel mondo arabo-islamico. I sovrani da quelle parti sanno bene che nell’oscurità c’è sempre qualcuno che attenta al loro trono – loro stessi, il più delle volte, sono arrivati così al potere – per questo i servizi segreti hanno mano libera nel reprimere con ogni mezzo qualsiasi anche solo potenziale pericolo. Essere dissidenti nel mondo arabo può risultare fatale. Anche in paesi considerati più moderati, come il Marocco e la Giordania, le carceri sono sovraffollate di avversari politici. Stupisce dunque ancora di più che ciò nonostante ogni generazione partorisca individui coraggiosi, disposti a ribellarsi a questi despoti, anche a costo della
loro libertà personale. Dittature e complotti sono le due facce dello stesso fenomeno. E visto che tutti i paesi arabo-islamici sono, chi più chi meno, dittature, la teoria del complotto gode di particolare credito tra gli oppressori così come tra gli oppressi. Anche nell’Iraq odierno, dove per la prima volta è nata una stampa araba libera, la tesi secondo la quale all’origine del malgoverno, dei problemi attuali, degli attentati vi sia un complotto dell’occidente è ritenuta del tutto plausibile. I nuovi media ne scrivono continuamente. Sono gli americani e gli agenti del Mossad, così si legge, a compiere gli attentati per poi incolpare al Qaida e di conseguenza l’islam. Alla base di queste elucubrazioni c’è l’odio contro l’occidente non la logica. Il che non è nuovo. Bernard Lewis il più autorevole arabista del XX secolo scriveva che l’atmosfera degli anni 50 nel mondo arabo era contraddistinta "dall’odio verso l’occidente e dal desiderio di scacciarlo e umiliarlo". E per quel che riguarda la concezione "magica" del complotto asseriva: "Nel mondo oscurantista dei miti e dell’immaginario popolare, l’occidente è la fonte di tutti i mali" (…). Ad acuire ulteriormente il risentimento c’è poi Israele. Un pugno di ebrei, persone che secondo l’interpretazione musulmana hanno rifiutato il messaggio di Maometto e dunque si sono condannate con le loro stesse mani a essere "dhimmi", persone di serie B, è riuscito nel 1948 a tener testa agli eserciti di un numero consistente di paesi arabi. Gli effetti dello choc causato dall’infamante sconfitta inflitta dagli ebrei si fanno tutt’ora sentire (…). Nella cultura islamica l’ebreo è sinonimo di vigliacco. Che la realtà, a partire dal 1948, si rivelasse altra era inaccettabile. Per questo l’ebreo vigliacco si è trasformato agli occhi degli arabi sconfitti nel carnefice ebreo in combutta con Satana. Era inconcepibile, infatti, che gli ebrei avessero potuto vincere senza l’intervento di forze magiche o diaboliche. La descrizione che Khomeini fece dell’America come Grande Satana e di Israele come Piccolo Satana va pertanto intesa alla lettera. Da allora il mondo arabo-islamico è stato sommerso da leggende che affondano le radici addirittura nell’antisemitismo del medio evo cristiano. Le organizzazioni ebraiche hanno puntualmente richiamato l’attenzione su questo, ma l’occidente si è mostrato poco interessato al razzismo radicale che imperversa nei media arabi, e che nulla ha da invidiare alla peggiore propaganda antisemita della Germania nazista. "Mein Kampf" e "I Protocolli dei Savi Anziani di Sion" sono peraltro molto diffusi (…). L’enorme disparità di benessere, potere e libertà tra l’occidente e il mondo arabo-islamico ha rafforzato la visione classica dell’islam di uno stato di conflitto permanente tra la Casa dell’islam e la Casa della guerra (del mondo non arabo). L’occidente avrà anche il potere, ma la parità tra uomo e donna, l’essersi lasciato andare ai piaceri profani e la scarsa devozione a Dio l’hanno corrotto e indebolito. Per questo l’occidente tenta ora di sedurre con strumenti diabolici anche il fedele musulmano, vuole spingerlo a diventare come lui, un’apostata debole e decadente. Un peccato, quello dell’apostasia, considerato nella cultura tribale capitale. Per questo l’occidente è "il nemico". Mentre nei passati cinquant’anni si diffondeva dunque nel mondo arabo-islamico il fondamentalismo, teso soprattutto a stigmatizzare e combattere il nemico, in occidente andava scomparendo l’abitudine di "ragionare in termini di nemico". Lee Harris scrive: "L’uomo civilizzato di oggi ha dimenticato i presupposti per cui non si uccide il proprio vicino. E’ stato un enorme lavoro compiuto dai nostri antenati, perché ci restasse in eredità.L’uomo di oggi ha dimenticato che esiste una categoria dell’esperienza umana che si chiama ‘nemico’. Almeno fino all’11 settembre. Sino ad allora il concetto di nemico era stato bandito dal nostro vocabolario morale e politico. Un nemico era semplicemente un amico di cui non ci si era preoccupati abbastanza" (…). L’odio dell’islamista è più antico dell’impegno americano nel medio oriente e della nascita dello Stato di Israele. Il suo odio si fonda su concetti islamici classici, si sviluppa nel XIX secolo attraverso il confronto con l’occidente, nel corso della sua colonizzazione e successiva decolonizzazione che, guarda caso, porta maggiori ricchezze e libertà all’occidente. Ma tutto ciò basta per spiegare l’odio apocalittico che alimenta l’islamismo? Sul nazismo si sono pubblicate migliaia di ricerche, ma nessuna è riuscita a spiegare fino in fondo la bestialità che lo animava. E’ vero, fattori storici e socioeconomici hanno contribuito in modo determinante a far scoccare la scintilla della rabbia di cui si è alimentato il nazismo degli anni Venti e Trenta in Germania. Ma la ragione vera che ha portato allo sterminio industriale di milioni di persone, una ragione in grado di convincere persone razionali, illuminate, ancora oggi ci sfugge. Non è comprensibile che il nemico mi odi solo perché penso che mia moglie abbia gli stessi miei diritti; perché riconosco a chiunque il diritto di vivere come gli aggrada, fintanto che non limita la libertà altrui; perché non onoro il Dio del nemico; perché non voglio dividere il mio mondo nelle contrapposizioni uomo-donna, credente-miscredente; perché non mi voglio sottomettere alla presunta superiorità del nemico; perché vivo le molte sfaccettature della vita in occidente, che vanno dalla purezza assoluta al degrado più profondo, come ricchezza e libertà; perché reputo la vita dei miei figli, esseri mortali quanto me, la cosa più importante della vita. Una cultura in cui i genitori di suicidi incitano anche gli altri loro figli al suicidio, mi è profondamente estranea. So bene che questi appelli sono una sorta di rituale, una forma di retorica, ma trovo repellente anche questa retorica. Non comprendo il perché non vi sia nel mondo arabo-islamico un movimento di massa che condanni il terrorismo suicida, e che faccia appello al ravvedimento, che invochi la comprensione e l’autoanalisi. Invece si assiste all’esatto opposto (…).
Secondo Harris due sono le modalità con cui le persone in occidente reagiscono al pericolo di essere viste come nemico: c’è chi accetta l’ostilità e si comporta di conseguenza, chi invece la nega. Il che porta a uno stato di crescente disaccordo tra gli occidentali. Da una parte ci sono europei e americani convinti che siano state le nostre azioni passate a scatenare questo odio, dunque ce lo meritiamo. Per sostenere la loro tesi ricordano come l’occidente abbia aiutato i dittatori arabi, quanto poco abbia compreso il problema palestinese. Secondo loro basterà cambiare modo di agire per essere amati dal mondo islamico. Altri, tra cui i conservatori americani, i protestanti "born again", i "neocon" e gli ebrei delle diverse correnti, sono invece dell’avviso che i problemi che affliggono il mondo arabo contemporaneo sono solo in parte riconducibili ai misfatti occidentali. A loro avviso hanno piuttosto a che fare con circostanze specificamente arabo-islamiche. Questo gruppo riconosce nell’ostilità dell’islamismo la forma contemporanea di un qualcosa per il quale non esiste altra definizione se non quella del "male". Una definizione comprensibile per i credenti così come per gli atei. Per i credenti, l’esistenza del male ha l’evidenza di un dogma, per gli atei è l’unica definizione che possa unire sotto un unico denominatore gli assassinii di massa del secolo scorso e l’istinto di annientamento che abita l’islamismo. Gli ebrei europei con i quali ho discusso di tutto questo dopo l’11 settembre, appartengono in maggioranza "a coloro per i quali la categoria ‘nemico’ è determinante nell’organizzare l’esperienza umana". Si sentono dunque sempre più estranei all’ambiente non ebreo che li circonda e che secondo loro, chiude gli occhi davanti alla determinazione del nemico; che si ostina a minimizzare il pericolo (…). Salvo eccezioni, che ci sono, la maggior parte degli ebrei europei che incontro riconosce il volto di questo nemico. E’ il male – a loro purtroppo tristemente noto – che da sempre aleggia come uno spettro sulla storia ebrea e ora si è esteso a tutto l’occidente. Come mostra l’antisemitismo, l’odio irrazionale non necessita di un motivo vero, qualsiasi motivo va bene. Come Bush anche gli ebrei definiscono questo volto il volto del male; e non a caso c’è più accettazione tra gli ebrei europei della politica di Bush che tra i non ebrei. La descrizione del nemico fatta da Lee Harris è per gli ebrei comprensibilissima. Ma gli ebrei non formano un blocco monolitico. Lo strappo divide esattamente a metà gli ebrei americani che tradizionalmente votano per i democratici. L’idea che la molla che spinge il nemico all’azione sia di natura irrazionale – anche se non si può negare che la seduzione esercitata dall’islamismo avviene sullo sfondo di condizioni socio-economiche disperanti, così come di una politica ingiusta nei territori occupati – disturba la visione del mondo del "positivista ottimista", come lo chiamo io, dell’europeo e del nord americano più o meno laico e benestante. Il positivista ottimista ha fatto di tutto perché dopo secoli di evoluzione – dopo guerre di religione che hanno devastato l’Europa, dopo l’Illuminismo, la Rivoluzione francese, il materialismo storico, i bagni di sangue delle due guerre mondiali e la divisione dell’Europa – il concetto di nemico che tanta miseria ha prodotto, fosse una volta per tutte seppellito. Non è dunque disposto a dissotterrare nuovamente questa figura sinistra, a includerla nel suo mondo. Per questo contesta soprattutto coloro che in occidente accettano l’antagonismo aggressivo intrinseco nell’immagine del nemico e agiscono di conseguenza, per questo si oppone al militarismo israeliano e allo spirito di missione americano. Il positivista ottimista non vuole rinunciare alla sua calma interiore e dunque continua a spiegare il mondo con argomentazioni (storico-politiche e socioeconomiche) ragionevoli (…). Per il positivista ottimista è impensabile che la molla che spinge il nemico all’azione sia l’irrazionalità. L’ebreo sa invece da tempo che a nulla valgono gli sforzi: il nemico non si può comprendere. Nel suo saggio, diventato ormai un classico, "Power and Weakness", pubblicato dalla Policy Review, Robert Kagan analizza il rapporto differente che Stati Uniti e Europa hanno con il potere, prendendo a prestito concetti propri alle dottrine politiche classiche: storia, geografia, economia, forza militare. In esse manca però il fenomeno del nemico accecato dalla rabbia, o meglio, manca il concetto del male, un termine teologico e filosofico con fortissime implicazioni. Ma se si vuole spiegare le differenze esistenti tra americani ed europei nel modo di intendere il potere, la violenza e il pericolo rappresentato dall’islamismo, non bastano le teorie classiche. Come interpreterebbe Robert Kagan questa citazione tratta dal rapporto Memri del 15 giugno 2004?: "La televisione saudita sottostà in gran parte alla programmazione religiosa. Numerosi programmi hanno come fine la diffusione dell’islam nel mondo e la lotta contro i non musulmani. In una puntata di ‘Mushkilat Min Al-hayat’ (Problemi di vita) trasmessa da Iqraa TVs (un canale satellitare) lo sceicco Abdallah Al-Muslih, presidente della Commissione scientifica del Corano (…), ha portato prove tratte dal primo islam, per sostenere che attentati suicidi in aree nemiche sono ammessi dalla legge islamica: "So che riguardo a una persona che si fa saltare in aria le interpretazioni degli imam moderni e della giurisdizione divergono profondamente. Ma non c’è nulla di sbagliato nel martirio, se infligge un danno consistente al nemico (…). Per esempio se si tratta della Casa della guerra (i paesi degli infedeli, cioè l’occidente). Ma se parliamo di paesi musulmani come l’Arabia Saudita allora, fratelli, è vietato!(…)".
L’11 settembre ha rivelato il pericolo apocalittico che rappresenta l’islamismo. I servizi di sicurezza di tutto il mondo si sono messi all’opera per combatterlo efficacemente. Senza il loro lavoro di intelligence vi sarebbero stati altri, numerosi e terribili attentati. Ma solo se vi sarà una presa di posizione netta e precisa da parte delle popolazioni arabo-islamiche, solo se saranno disposte a fare autocritica, ad attribuire alle loro manchevolezze le disperate condizioni socio-economiche in cui versano, solo se riconosceranno i paradossi, le insensatezze e gli elementi illusori della loro concezione religiosa, morale e culturale, che hanno contribuito in modo fatale al crescente divario tra loro e l’occidente così come con l’est asiatico in materia di benessere, libertà e giustizia, solo allora potrà essere scongiurata davvero un’Apocalisse globale. Molti ebrei – perlopiù cittadini comuni con una consapevolezza democratica – non hanno saputo a suo tempo concepire l’inconcepibile, riconoscere il male. Sono finiti sui treni della morte. Ora di nuovo si affaccia il pensiero insopportabile: noi uomini occidentali abbiamo un nemico. Vuole la nostra rovina. Dopo le catastrofi del XX secolo è risorta un’ideologia che anela al potere mondiale, e che per ottenerlo è disposta a distruggere tutto quello che l’occidente, con sforzi immani, ha prodotto in termini di civilizzazione. E’ allarmante vedere che nell’occidente libero non si riesca a trovare un accordo sul tipo di pericolo che ciò rappresenta. Gli ebrei sanno che lo sterminio di massa è possibile. Per loro il concetto di "nemico che ti vede come nemico" è parte della loro storia, parte della loro memoria collettiva, parte della loro identità. All’indomani dell’11 settembre Le Monde scriveva che ora anche noi occidentali, non americani, eravamo tutti americani. No, le cose stanno molto peggio: ora siamo tutti ebrei. Leon de Winter
Questo articolo dello scrittore olandese, che vive tra Los Angeles e Amsterdam ed è noto anche in Italia per il libro "Una fame senza fine" (Marcos y Marcos), è stato pubblicato sul settimanale liberal tedesco Cicero nell’agosto 2004. (Traduzione di Andrea Affaticati) Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.