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La Stampa Rassegna Stampa
21.07.2005 Una lettera ai palestinesi di Abraham B. Yehoshua
sul ritiro da Gaza

Testata: La Stampa
Data: 21 luglio 2005
Pagina: 1
Autore: Abraham B. Yehoshua
Titolo: «Via da Gaza per risarcire i palestinesi»
LA STAMPA di giovedì 21 luglio 2005 pubblica in prima pagina l'articolo di Abraham B. Yehoshua "Via da Gaza per risarcire i palestinesi".

Pubblichiamo l'articolo per completezza di informazione, senza esprimere giudizi sui suoi contenuti:

Questa lettera è stata redatta dallo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua su richiesta della rivista «Eretz Akheret» (Un’altra terra), in vista del ritiro unilaterale degli israeliani dalla striscia di Gaza il prossimo agosto

AI palestinesi residenti nella striscia di Gaza, shalom.
Molte persone al mondo, tra cui forse anche noi stessi, faticano a comprendere come mai il conflitto tra ebrei e palestinesi, iniziato più di centoventi anni fa, continui a imperversare e non se ne veda la fine. Questo conflitto, malgrado sia limitato a un territorio non particolarmente vasto e coinvolga un numero relativamente ridotto di persone, è ormai da molti anni al centro dell'interesse politico mondiale e, nonostante gli sforzi diplomatici della comunità internazionale, delle grandi potenze e dell'Unione europea, non trova una soluzione né la sua violenza si attenua. Cos’è a tenerlo vivo e a infiammarlo ogni volta di nuovo? Cosa lo rende particolare rispetto ad altri conflitti verificatisi nel ventesimo secolo? Anche quando sembra che si stia per giungere a una conclusione e si sia trovata una formula di compromesso (come nel caso dell'accordo di Oslo nel 1993 o di quello quasi siglato a Camp David nel 2000) e le nazioni del mondo già si congratulano per il risultato (assegnando ai leader delle due parti anche il premio Nobel per la pace, onorificenze varie, e promettendo sostanziali aiuti politici ed economici), le cose tornano a complicarsi e gli scontri si riaccendono con duplicata violenza, come è accaduto nel settembre 2000 allo scoppio dell'Intifada Al Akza.
Indubbiamente esistono varie spiegazioni a questo fenomeno e ritengo che una di esse sia collegata alla peculiarità del movimento sionista che in voi palestinesi risveglia una reazione particolarmente violenta. Ancora oggi che siete ormai pronti ad accettare l'esistenza di Israele, il carattere «sionista» dello Stato, come voi lo definite, rimane ai vostri occhi la radice di ogni male. E solo estirpandola si potrà giungere a un'intesa e alla distensione.
Non c'è dubbio che il ritorno degli ebrei alla loro antica madre patria dopo circa duemila anni di diaspora rappresenti un evento anomalo e senza precedenti nella storia dell'umanità. Di conseguenza anche voi palestinesi vi trovate ad affrontare un fenomeno unico ed eccezionale, a vivere un'esperienza nazionale e umana mai vissuta prima da nessun altro.
Sia voi che noi possiamo però vantarci almeno di una cosa in questo conflitto sanguinoso: l'essere protagonisti di avvenimenti peculiari e senza uguali e di conseguenza impossibilitati a trovare esempi o modelli da cui trarre insegnamento per poter giungere a una soluzione.
Noi ebrei abbiamo sempre aspirato ad ottenere la legittimazione del nostro ritorno a Sion sia dalle grandi potenze che dal mondo arabo che ci circonda. In cuor nostro, però, siamo sempre stati certi che non avremmo potuto ottenerla da voi palestinesi, i diretti interessati. Nessun popolo al mondo infatti rinuncerebbe a una parte della propria patria in favore di un altro popolo, per quanto grande sia stata la sua sofferenza. Fin dall'inizio, quindi, non ci siamo illusi di una possibile vostra approvazione di un nostro ritorno alla terra d'Israele, la vostra Palestina.
Come risultato, senza trascurare la possibilità di un dialogo con voi e con il mondo arabo, né risparmiare sforzi per ottenere il riconoscimento della legittimità del sionismo e dell'esistenza dello Stato di Israele, abbiamo portato avanti anche azioni unilaterali. Abbiamo fondato insediamenti e colonie spinti dalla convinzione che, alla fine, la loro legittimità sarebbe stata gradualmente riconosciuta in base al fatto stesso di esistere.
Così, da centovent'anni a questa parte, per mezzo di lotte aperte o occulte, rosicchiamo le vostre terre al fine di creare uno stato di cose irreversibile. Ma dopo la guerra dei Sei Giorni la costruzione di insediamenti nei territori conquistati è divenuta inutile e ingiustificata. In Israele infatti non mancavano spazi vuoti e disabitati (ce ne sono ancora oggi) e dal punto di vista demografico non vi era alcuna necessità di stanziare cittadini in nuove zone. Anche dal punto di vista della sicurezza il bisogno di rendere la Cisgiordania libera da armi pesanti e da ingenti forze dell'esercito per mezzo della presenza di insediamenti era inutile. Per raggiungere questo scopo sarebbe bastato mantenere un presidio militare fino a che voi palestinesi e gli Stati arabi aveste accettato e riconosciuto la nostra esistenza.
I nostri insediamenti nei vostri territori rappresentano dunque la ferita più dolorosa e crudele che Israele potesse infliggervi. Accanto ai campi profughi - dove continuano a vivere centinaia di migliaia di persone che avevano abbandonato i loro villaggi o ne erano state cacciate durante la guerra del 1948, in un'attesa irrazionale e nella speranza di poter tornare un giorno alle proprie case - noi israeliani abbiamo eretto insediamenti moderni investendo somme enormi, ed espropriato terre e fonti d'acqua. Agli israeliani trasferitisi in quegli insediamenti non mancavano alloggi a Tel Aviv o a Haifa e alcuni di loro erano addirittura proprietari di case. Si sono però impossessati a forza di nuovi territori per creare una realtà che avrebbe lasciato voi palestinesi privi di alcun diritto civile nella vostra stessa madrepatria.
L'iniziativa unilaterale dei profughi ebrei (motivata anche dalla mancanza di scelta e da una precaria situazione esistenziale) che aspiravano a un lembo di terra su cui mantenere una propria sovranità e difendersi dalle persecuzioni antisemite conosciute nella storia, è divenuta illegittima dopo la guerra dei Sei Giorni. Di conseguenza solo un'azione unilaterale opposta e contraria può ora porvi rimedio.
Molti oppositori dell'attuale ritiro israeliano dalla striscia di Gaza sostengono che accetterebbero più facilmente questa soluzione se essa avvenisse in seguito a un accordo con i palestinesi. Ciò che suscita in loro rabbia e avversione è il fatto che Israele non riceva nulla in cambio. Considerano la decisione di ritirarsi un atto umiliante, disfattista, e temono che possa incoraggiare voi palestinesi a proseguire la lotta armata affinché Israele si ritiri da tutti i territori senza alcuna contropartita.
Io ritengo tuttavia moralmente giusto che un'azione unilaterale venga cancellata da una analoga e contraria. Così è stato in Libano e, a quanto pare, questa simmetria ha dato prova di sé anche in Vietnam, per esempio. E lo dimostra il fatto che il confine con il Libano è ormai tranquillo da più di cinque anni.
Sarebbe quindi meglio per voi palestinesi considerare il ritiro unilaterale da Gaza non unicamente come una vittoria della vostra capacità di resistenza ma anche come un atto di riparazione morale da parte israeliana. Anche se non porterà la pace, può comunque rappresentare l'inizio di un tollerabile modus vivendi degli uni accanto agli altri. Nella presente situazione, e considerata anche la profonda mancanza di fiducia fra le parti, è altamente improbabile (con mio grande rammarico) che nel prossimo futuro riusciremo a trovare il modo di appianare tutte le nostre divergenze. Esiste ancora però la possibilità di giungere a un compromesso per continuare a vivere e non a morire, per costruire e non distruggere.
Sarà dunque la vostra reazione a questo ritiro a stabilire se vi è qualche possibilità di spezzare il circolo vizioso in cui ci troviamo. Se voi palestinesi di Gaza considererete il nostro ritiro non come una sconfitta di Israele ma come un suo gesto di riparazione e sceglierete la strada dello sviluppo e della crescita evitando di bombardare cittadine israeliane entro i confini del '67 (che rappresentano la linea di frontiera riconosciuta tra noi), esiste la possibilità che il ritiro venga accettato anche da chi oggi vi si oppone e che vi siano esempi simili in futuro. Ma se sceglierete di "buttare tutto all'aria" come avete fatto a metà dei colloqui di pace di Camp David e Taba, imboccando nuovamente la strada della violenza nelle zone lasciate libere dai soldati e dai coloni israeliani, pronuncerete una sentenza di morte a un eventuale futuro ritiro.
Noi, come vedete, abbiamo intrapreso un cammino difficile che ci sta conducendo alla soglia di una guerra civile. Siamo però determinati a percorrere questo cammino fino in fondo. Adesso tocca a voi dimostrare che lottate contro l'occupazione e gli insediamenti e non contro l'esistenza stessa dello Stato di Israele. La responsabilità è nelle vostre mani. E noi facciamo appello a tutti i palestinesi di buon senso perché assumano il controllo della situazione, compiano un gesto di pace e tolgano la striscia di Gaza e la zona della Samaria settentrionale dalla spirale di sangue e violenza.
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