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Il Mattino Rassegna Stampa
20.07.2005 L'inesistente espulsione dei palestinesi
inventata da un editorialista del quotidiano napoletano

Testata: Il Mattino
Data: 20 luglio 2005
Pagina: 1
Autore: Paolo Janni
Titolo: «I pretesti del terrorismo»
IL MATTINO di martedì 19 luglio 2005 pubblica in prima pagina l'editoriale di Paolo Janni "I pretesti del terrorismo" che torna a istituire falsi collegamenti tra il terrorismo che colpisce l'Europa e il conflitto israelo-palestinese, inserendo tra queste teorie smentite dai fatti un'autentica menzogna:
"La soluzione del lungo conflitto tra israeliani e palestinesi - due popoli che usano Dio per espellere l'altro dalla stessa terra, priverebbe l'estremismo islamico dell'argomento avente la più vasta risonanza emotiva nel mondo arabo".

Gli israeliani inaftti, non stanno espellendo i palestinesi da nessuna terra, tantomeno "usando Dio" (come per altro non lo stanno facendo i palestinesi, dato che non possono).

Ecco l'intero articolo:

Meno di un anno prima che gli estremisti islamici occupassero l'ambasciata americana, la Cia aveva assicurato Carter che l'Iran non era in una situazione prerivoluzionaria. Brzezinski, consigliere nazionale per la sicurezza, convinse Carter a privilegiare la valenza strategica dell'Iran nel quadro della guerra fredda e dunque a schiacciare gli oppositori dello Scià. L'atto di nascita del terrorismo internazionale fu firmato venticinque anni fa dai radicali iraniani.
Ma niente sembra essere realmente cambiato. Nel frattempo, Iran e Stati Uniti sono rimasti prigionieri del loro vortice di satanizzazione reciproca. Fu soltanto dopo il lungo calvario degli ostaggi americani che gli Stati Uniti cominciarono a chiedersi se quello che succedeva «in terre lontane» non avrebbe potuto un giorno investire anche le coste americane. Negli ultimi venticinque anni i ridicali islamici hanno continuato a colpire con un crescendo spietato e senza distinzioni religiose, uomini e donne innocenti dall'Indonesia allo Yemen, dal Kenya alla Tanzania, dalla Cecenia alla Turchia, dall'Algeria all'Egitto, da New York alla Spagna ed ora Londra. Una guerra santa? Contro chi? Finora abbiamo risposto agli interrogativi con una litania di slogan emotivi. Dovremmo invece separare l'analisi riguardante gli arabi da quella relativa al resto del mondo musulmano. Nel mondo arabo la svolta avvenne quando le forze siriane, giordane ed irachene vennero sconfitte dalla piccola Israele. Quel «disastro» accese nell'anima degli arabi quei sentimenti di umiliazione, occupazione e torti storici che essi avevano così a lungo subito nel passato e che stavano per essere aggravati dalla avanzata della globalizzazione, della occidentalizzazione e della secolarizzazione. Ci sono voluti secoli di guerre civili e religiose prima che gli europei trovassero il loro punto di conciliazione con la modernità. Gli arabi non l'hanno ancora trovato. Ma potremmo cercare di alleviarne il disagio rimuovendo almeno due delle ragioni che il terrorismo prende come pretesti per le sue attività: il conflitto israelo-palestinese e l'occupazione dell'Iraq. La soluzione del lungo conflitto tra israeliani e palestinesi - due popoli che usano Dio per espellere l'altro dalla stessa terra, priverebbe l'estremismo islamico dell'argomento avente la più vasta risonanza emotiva nel mondo arabo. La crisi irachena, marcata quotidianamente da stragi che hanno portato ormai il paese sulla soglia della guerra civile e religiosa, chiede una soluzione politica forse ancora più urgente. L'occupazione del paese si è rivelata un fallimento politico e militare ed ha trasformato il l'Iraq in terreno di cultura dell'estremismo islamico. Un paese dove un manipolo di jihadisti che si ingrossa ogni giorno crede che la guerra santa sia la loro ricompensa, una condizione perpetua, senza fine, fino al giorno del giudizio. Dove, secondo le nostre fantasie, l'esercito iracheno dovrebbe sostituire quello americano per vincere miracolosamente una guerra che quest'ultimo non è ancora riuscito a vincere. Il ministro degli Esteri britannico Jack Straw ha dichiarato ieri al vertice di Bruxelles che «i tempi per le giustificazioni fornite al terrorismo sono finiti: gli attacchi in Kenya, Tanzania, Indonesia, Yemen e, questo weekend, in Turchia, non hanno niente a che vedere con la guerra in Iraq. Questi paesi - ha aggiunto Straw - non sostenevano la nostra azione in Iraq. È necessaria dunque la responsabilità di tutto il mondo civilizzato per affrontare il terrorismo e non fornirgli alcuna giustificazione». Effettivamente l'estremismo islamico aveva colpito ben prima della guerra in Iraq e, duramente, finanche nell'Algeria musulmana. Ma non c'è dubbio che la soluzione delle due crisi bonificherebbe il terreno nel quale il radicalismo affonda le sue radici e ne lascerebbe apparire finalmente la sua vera natura: quella di un conflitto interno al mondo musulmano che non ha ancora trovato il suo punto di conciliazione con la modernità. La battaglia contro il terrorismo sarà al centro delle preoccupazioni delle nostre democrazie ed impegnerà le generazioni future. Le mutazioni demografiche nelle democrazie occidentali provocate dalle migrazioni stanno assumendo dimensioni bibliche. Non possiamo affrontarle con paradigmi del passato. Per venirne a capo pagheremo un prezzo sia in termini di libertà individuali che di sovranità nazionali. La coesione delle democrazie è ridiventata così un imperativo assoluto, ancor più forte di quella che ci venne imposta dalla minaccia nucleare sovietica. Mai forse prima la diplomazia è stata chiamata a «fare una analisi concreta di una situazione concreta» come in Medio Oriente per capire quello che Brzezinski non capì al tempo della crisi degli ostaggi amaricani, quando, preoccupato di mantenere la stabilità geopolitica, trascurò una analisi delle tendenze di fondo che scoutevano l'Iran. Nessuno potrebbe negare che senza il conflitto israelo-palestinese e senza occupazione militare di una terra araba, il Medio Oriente sarebbe meno minaccioso alla sicurezza di tutti e che il terrorismo islamico perderebbe due dei suoi appelli più emotivi. Nessuno potrebbe negare che la democrazia nella regione può essere soltanto lo sbocco di un lungo processo politico evolutivo e non un obiettivo rivoluzionario realizzabile sotto pressione esterna.
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