La bomba ad orologeria del multiculturalismo, un dilettantesco best seller sull'Iraq analisi di Mark Steyn e Carlo Panella
Testata: Il Foglio Data: 20 luglio 2005 Pagina: 2 Autore: Mark Steyn - Carlo Panella Titolo: «Cercasi identità - Unlibro vuole ritrarre la follia di Churchill,ma prova l’esatto contrario»
IL FOGLIO di mercoledì 20 luglio 2005 pubblica a pagina 2 dell'inserto l'articolo di Mark Steyn "Cercasi identità", che riportiamo. Quest’ultima settimana mi ha fatto riflettere vedere come alcuni dei miei colleghi più "svampiti" si siano gradualmente resi conto del fatto che la vera bomba suicida è il "multiculturalismo". Il suo ticchettio inesorabile, fattosi improvvisamente più assordante del rullo di tamburo etnico delle manifestazioni contro la globalizzazione, ha indotto il povero vecchio Boris Johnson a scatenarsi infuriato contro questa column di giovedì scorso. L’appello di Boris a favore di una maggiore britannicità è stato sentito e coraggioso, ma non so se ci scommetterei. Gli attentatori di Londra erano apparentemente integrati: mangiavano fish and chips, giocavano a cricket, indossavano abbigliamento sportivo di pessimo gusto. Avevano adottato così tanti alberi da non farci capire che quella che a loro mancava era la grande foresta madre: l’essenza dell’identità, della lealtà. Non ci si può integrare in una nullità, il multiculturalismo. Pertanto, se l’estremismo islamico è il genio che state cercando di reinfilare nella lampada, non è stata una buona idea quella di ridurla in frantumi. Tony Blair, il giorno degli attentati, ha dichiarato che ai terroristi non avrebbe permesso di "cambiare il nostro paese o il nostro modo di vivere". Certo che no. E’ questo il suo lavoro, dalla caccia all’europeizzazione. Potreste dirmi quali aspetti del "nostro modo di vivere" desidera preservare la classe dirigente britannica? Il carnevale di Notting Hill? Ahimè, non basta. Prendiamo ad esempio il vescovo di Lichfield che, a Evensong, la notte degli attacchi, si è affannato a rassicurare i fedeli: "Proprio come l’IRA non ha nulla a che vedere con il cristianesimo, questo tipo di terrorismo non ha niente a che fare con nessuna fede". Non è tanto la stoltezza dell’affermazione, quanto il messaggio più ampio che trasmette: siamo degli smidollati disfattisti; bombardateci e vi chiederemo scusa. E’ per questo che in Gran Bretagna la Chiesa anglicana è entrata in una spirale senza uscita, mentre l’islam è la religione a diffusione più rapida. Non c’è mercato per una fede che non crede in se stessa. E la stessa fine della Chiesa la fa anche lo Stato: perché introdurre le carte d’identità in una nazione senza identità? La moglie del primo ministro l’anno scorso vinse un processo in difesa di Shabina Begum: le scuole di tutto il paese devono ora permettere alle studentesse d’indossare il velo integrale. La signora Booth salutò l’evento come "una vittoria per tutti i musulmani che desiderano mantenere la loro identità e valori a discapito dei pregiudizi e dell’intolleranza". Sembra quasi troppo banale osservare che un tale mantenimento estremo dell’identità musulmana della signorina Begum non può che avvenire a spese di un’eventuale identità britannica. Non che la signorina Begum, tra l’altro, stia "preservando" alcuna identità: è di origine bengalese, e la sua adozione adolescenziale della jilbab è un simbolo dell’arabizzazione dell’islam dell’Asia meridionale (e dell’Africa, e dell’Europa) che è alla radice di innumerevoli problemi. E’ "integralista" sostenere che la jilbab rappresenta una barriera all’acquisizione della cultura comune necessaria a ogni società che funzioni? Pare di sì, stando a Cherie Booth. Colpa della sfrontatezza e ovviamente di B&B Una delle caratteristiche più sorprendenti del mondo post 11 settembre è il livello marginale di separazione che sussiste tra i cosiddetti "estremisti" e l’establishment: la Principessa Haifa, moglie dell’ambasciatore saudita a Washington, regala 130.000 dollari ai complici dei terroristi dell’11 settembre; il capo del gruppo che certifica i cappellani musulmani per l’esercito statunitense altro non è che un portaborse dei terroristi; uno degli attentatori di Londra è accompagnato in visita alla Camera dei Comuni da un parlamentare laburista. The Guardian ingaggia come "giornalista tirocinante" un membro di Hizb ut Tahir, "il gruppo islamico più radicale della Gran Bretagna" (per riprendere la descrizione del suo stesso giornale), che, nel suo primo articolo successivo al 7 luglio, si fa gioco dell’idea che chiunque possa restare "scioccato" di fronte al bombardamento di Londra da parte di un manipolo di Yorkshiremen: "I musulmani di seconda e terza generazione sono privi dell’atteggiamento di ‘non dar fastidio agli altri’ che limitava i nostri progenitori. Noi siamo più sfrontati con le nostre opinioni, e non ci importa se diamo fastidio" – o se facciamo esplodere gli autobus o se polverizziamo la metropolitana. Il collega del Guardian David Foulkes, ucciso a Edgware Road, sarebbe senza dubbio rincuorato di sapere che è morto per causa della "sfrontatezza musulmana". Ma tant’è, tutto è come prima. Nell’Independent di ieri, c’era una vignetta di Dave Brown che mostrava Bush e Blair vestiti da terroristi che salivano in metrò a Baghdad. Ha-ha. L’altro giorno, in Thailandia, dove dall’inizio dell’anno hanno perso la vita 800 persone per mano di islamici, sono stati decapitati due contadini del Laos. Suppongo che anche in quel caso la colpa sia di Bush e di Blair. Mark Steyn Copyright Telegraph Group (traduzione di Chiara Serafin, Associazione Milano Interpreti) Sempre a pagina 2 dell'inserto l'articolodi Carlo Panella "Unlibro vuole ritrarre la"follia di Churchill",ma prova l’esatto contrario" critica al libro di Cristopher Catherwood "La follia di Churchill" , summa di dilettantechi luoghi comuni sulla storia e sul presente iracheni, fatat pubblicare in Italia da Sergio Romano.
Ecco il testo Roma. Buone notizie per i dilettanti:Cristopher Catherwood dimostra infatti che si può scrivere un libro, essere ammirati da Sergio Romano che lo pubblica in Italia (nella collana che dirige al Corbaccio), essere citati sul Corriere della Sera dallo stesso Romano e non avere la più pallida idea dell’argomento su cui si scrive. Una fantasiosa storiografia new age, in cui l’unico problema è "essere nella corrente", trovare un buon titolo di marketing – e "La follia di Churchill" è eccellente – scopiazzare autori iracheno-zdanoviani (simpatizzanti del "fondamentale" partito comunista iracheno), cogliere molte spighe nel politicamente corretto e, soprattutto, sostenere che la follia di Churchill e quella di George W. Bush sono della stessa pasta. Una storiografia letteralmente color arcobaleno. Il lettore inizia a sospettare che Catherwood, professore a Cambridge, manchi delle nozioni di base quando s’imbatte in una geremiade sui "confini tracciati col righello" in Africa, là dove il righello è prova evidente della malvagità imperialista e colonialista. Forse nessuno avrà la pazienza di spiegarlo a Catherwood, forse se ne accorgerà da solo, ma il fatto è che i confini africani e asiatici sono tagliati col righello solo quando passano per un deserto, per la semplice ragione che solo così si può tracciare una linea sulla sabbia. Altrove, invece, i confini sono frastagliati perché vi sono montagne e fiumi. Questo dubbio sullo spaesamento dell’autore diventa però certezza nell’impegnativo capitolo intitolato "Da Abramo ad Allenby", là dove Catherwood sostiene che "gli ottomani consideravano un gioiello della corona" il Marocco. Il problema non piccolo è che il Marocco non è mai, assolutamente mai, appartenuto agli ottomani, che tutta la storia del Maghreb arabo è segnata da questa peculiarità e che un’affermazione simile equivale a sostenere che Londra è stata per sei secoli possedimento della corona francese. Questa certezza diventa poi scoramento quando ci si accorge che mai Catherwood dà segno di essere a conoscenza della formidabile guerra di "dottrine" che contrappose il governatorato dell’India al Foreign Office, a proposito, appunto, della politica araba inglese. Sono due strategie diversificate: la prima incentrata sulla rendita coloniale pura; la seconda mirata alla collaborazione con movimenti arabi nazionalisti emergenti e attenta alla questione petrolifera, che aveva permesso già di vincere la guerra dei mari, grazie alla capacità di Churchill di sostituire i motori a carbone con quelli a petrolio, più manovrabili e a maggior autonomia. Si entra infine nel merito della "follia" del Nostro, la quale, innanzitutto, secondo Catherwood, si manifesta in due fissazioni: quella antisovietica e quella del risparmio sull’impiego dei soldati. Qui inizia a disvelarsi il segreto fantastico del libro: tutti i documenti storici che l’autore presenta demoliscono radicalmente le sue stesse tesi. E’ infatti frutto di preveggenza e di eccellenti doti di statista sostenere la priorità del contrasto del leninismo in Russia. Churchill questo fa. E’ di nuovo sintomo addirittura di sensibilità sociale rifiutarsi di impegnare soldati e fondi britannici per garantire la sicurezza di territori arabi, che devono garantirsela con proprie risorse. Churchill questo fa. Peraltro David Fromkin (che Catherwood spesso cita ma che poco legge) spiega che i milioni di coscritti inglesi mal sopportano la continuazione della ferma in periodo di pace, che l’Inghilterra è stremata dai debiti di guerra e che è indispensabile spostare risorse dalle spese militari a quelle per la produzione e il welfare. Esattamente la politica di Churchill. Ma Churchill, lo dice la documentazione di Catherwood, è saggio anche su ben altri piani. Per esempio tenta di corrispondere alle attese nazionalistiche dei curdi e punta alla costituzione di un Kurdistan indipendente. Non gli sfugge l’enorme potenziale di destabilizzazione che la questione curda può introdurre nei paesi arabi, ma infine abbandona questo disegno soltanto per il timore che lo stato curdo diventi veicolo di instabilità a causa dell’azione turca. Di più, Churchill si occupa e preoccupa di un elemento ideologico fondamentale: quella ideologia wahabita degli ibn Saud che invece il governatorato dell’India (che lo aveva pagato durante la guerra perché non combattesse) sottovaluta, come dimostra la citazione riportata qui sopra. Nonostante il lettore si renda sempre più conto – dai documenti storici, non dal testo – che Churchill è già Churchill anche quando si occupa di Iraq, la tesi della sua "follia" continua a essere riproposta. Alla fine viene anche spiegata e si arriva così al tragicomico con un Catherwood che prescinde dal contesto e dagli agenti storici reali. Il contesto è presto descritto: si è disintegrato un impero multietnico e multinazionale ed è necessario che le nazioni vincitrici – come sostiene il diritto internazionale – definiscano un nuovo assetto di Stati e nazioni. Gli arabi e i palestinesi, però, non sono tra i vincitori, sono tra gli sconfitti non possono quindi aspirare al potere, tranne il cobelligerante degli inglesi Feisal al Hashemi, suo padre Hussein e suo fratello Abdallah (questo punto "sfugge" a tutti gli antimperialisti e sostenitori dei diritti degli arabi e dei palestinesi). Non solo. Gli arabi non si sono limitati a combattere per i turchi – loro colonizzatori – e a perdere la guerra con loro, ma anche dopo la guerra non sono stati in grado, né a Baghdad né a Damasco né a Gerusalemme, di mettere in piedi un minimo di gruppo nazionalista affidabile. La follia che Catherwood rinfaccia a Churchill è in realtà quella di chi sostiene che i gruppi dirigenti arabi che l’Inghilterra aveva appena sconfitto sul piano militare (deboli e in perenne lite tra di loro) avrebbero dovuto avere in premio per la loro sconfitta l’Iraq e la Siria: una storia che premi i perdenti e penalizzi i vincitori. Così Catherwood esalta, dando una certa qual ragione a Osama bin Laden, la base del revanscismo arabo, che oggi s’intreccia col fondamentalismo e che produce terrorismo islamico. Questa è la base delle geremiadi autocompassionevoli della cultura araba diffusa che pretende che gli arabi non debbano pagare il prezzo di avere combattuto tutte le guerre dalla parte dei totalitarismi (compresi quello nazista e sovietico) e per di più di averle perse tutte. I palestinesi in testa. Churchill, per fortuna, ragionò invece col senso della storia e anche del diritto e consegnò l’Iraq all’unico leader arabo cobelligerante, Feisal al Hasehemi, con regolare, legittimo mandato della Società delle Nazioni, che però, come l’Onu, è considerata da certi storici garante della legalità internazionale solo quando fa comodo, altrimenti è agente dell’imperialismo o complice di chissà quali "follie". Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. 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