Pro e contro il ritiro da Gaza le opinioni discordi di quattro membri del Centro Shalem
Testata: Il Foglio Data: 20 luglio 2005 Pagina: 1 Autore: Amy K. Rosenthal Titolo: «Israeliani. Chi si ritira e chi no»
IL FOGLIO di mercoledì 20 luglio 2005 pubblica a pagina 1 dell'ìnserto un intervista di Amy K. Rosenthal a quattro membri del Centro Shalem , che riportiamo: Gerusalemme. Sta per scoccare l’ora del disimpegno, in Israele crescono le tension tra amici e parenti, ma anche in seno a uno dei più illustri "pensatoi" del paese, il Centro Shalem, un’istituzione dedicata al pensiero ebraico e alla politica israeliana che include membri anziani come Michael Oren (autore del best-seller "La guerra dei sei giorni"), Yossi Klein Halevi (autore di "Memoirs of a Jewish Extremist"), Natan Sharansky (autore di "The Case for Democracy", accolto con molto favore da George W. Bush e Condoleezza Rice) ed Eitan Dor- Shav, ricercatore. A causa del clima di disaccordo tra questi colleghi, che hanno espresso le loro opinioni su testate come The New Republic e The Jerusalem Post, Shalem non ha prodotto alcuna pubblicazione significativa in tema di disimpegno, a parte l’articolo di Halevi apparso in primavera sulla sua rivista Azure sotto il titolo "Instabilità". Le interviste che seguono dimostrano le divergenze esistenti tra Oren e Halevi, che sono a favore del disimpegno, e Dor-Shav e Sharansky (quest’ultimo talmente contrario al piano da aver rassegnato le dimissioni da ministro degli Affari della diaspora nel mese di maggio) che lo contrastano ferocemente.
MICHAEL OREN Perché il disimpegno in questo momento? "Perché è adesso che deve realizzarsi Anche se Sharon volesse restare a Gaza, non potrebbe per due ragioni. Una è di natura interna/nazionale e l’altra esterna/diplomatica. La ragione interna è che la società di Israele resta unita solo grazie a un contratto sociale non scritto che dice quanto segue: Noi popolo di Israele andremo a combattere una guerra dichiarata dal governo di Israele se tu, governo di Israele, puoi dimostrare a noi, popolo di Israele, senza ombra di dubbio, che la guerra è giusta e necessaria. Quello che è successo a Gaza è che un numero crescente di Israeliani non crede più che tenere 8.000 nostri cittadini in mezzo a 1,4 milioni di arabi giustifichi la guerra. Non manderanno i loro figli a combattere. Non manderanno i loro mariti. Rifiuteranno di combattere e questo contratto sociale incomincerà a sgretolarsi. La ragione esterna è che esiste già una parità demografica tra ebrei e arabi, tra il Giordano e il Mediterraneo – esiste de facto uno Stato binazionale e quindi perché non creare semplicemente uno Stato bi-nazionale e chiamarlo Israele-Palestina e farla finita? Questo naturalmente rappresenterebbe la fine del sogno sionista e la fine dello Stato ebraico, ed è precisamente quello che vuole l’Olp in questo momento. L’Olp non chiede più una soluzione a due Stati. L’occupazione di 1,4 milioni di arabi a Gaza è un argomento molto solido a favore di questa soluzione, e Sharon lo sa". E’ un bene per Israele? "E’ un bene pe Israele a lungo termine, ma è estremamente doloroso per Israele". E’ un bene per i palestinesi? "Non lo so e non mi importa necessariamente sapere se sia o no un bene. E’ un processo unilaterale per quanto ci riguarda, poiché i palestinesi non hanno una leadership capace di prendere decisioni affidabili, decidere per esempio di disarmare tutte le persone che girano per strada con un fucile. I palestinesi hanno quantomeno l’opportunità di dimostrare al mondo che sono in grado di governare questo piccolo Stato a Gaza. Penso sia molto importante vedere se i palestinesi sfrutteranno questa opportunità per trovare una sistemazione per i profughi. Se li terranno nei campi profughi, vorrà dire che non hanno alcuna intenzione di porre termine al conflitto. E’ un test che dovranno superare". Il governo di Israele ha dichiarato che le operazioni di disimpegno si svolgeranno senza scontri. Lo ritiene possibile? "No. Sono sicuro che le fazioni palestinesi faranno di tutto per spararci addosso mentre cercheremo di andarcene, in modo da dimostrare al mondo che ci stanno sbattendo fuori e che non siamo noi ad andarcene di nostra iniziativa. Se poi ci saranno degli ebrei che si metteranno a sparare… ho la sensazione che qualcuno lo farà. Si tratta di vedere se lo faranno e se spareranno per uccidere". Che cosa succederà ai coloni che verranno sradicati da Gaza? "I coloni che collaboreranno all’evacuazione riceveranno delle cas prefabbricate molto confortevoli e in seguito potranno costruire abitazioni normali. E’ prevista l’assegnazione di alcuni dei migliori terreni dello Stato di Israele a prezzi straordinariamente ridotti. La maggior parte delle famiglie si sposterà solo di una trentina di chilometri dalla residenza attuale e saranno sempre in riva al mare. Il processo di disimpegno è un profondo trauma per il sionismo religioso, che oggi costituisce la componente più dinamica e impegnata della società israeliana. Un terzo dei nostri ufficiali sono sionisti. Il sionismo religioso si basa sulla convinzione che lo Stato di Israele serve un fine messianico superiore. E’ un primo gradino della scala che conduce alla redenzione messianica; e lo Stato serve questa funzione fintanto che protegge la terra di Israele. Se non protegge, ma anzi cede parti della terra di Israele, lo Stato non ha più alcuna funzione e di fatto diventa un nemico. Alcune componenti del movimento sionista nazionale sono già giunte a questa conclusione. Nelle loro sinagoghe non viene più esposta la bandiera di Israele. Nella preghiera del sabato – il Sabbath – non si prega più per lo Stato, e c’è già chi dice che il vostro Stato non è il nostro Stato". Sicurezza. Il disimpegno sarà un pass verso la pace tra israeliani e palestinesi o porterà a un inasprimento del terrorismo e della guerra? "Non vi è dubbio che assisteremo a una nuova ondata di terrorismo dopo il disimpegno. Bisogna capire che il disimpegno è il minore tra due mali. Sicuramente è male premiare il terrorismo ed è proprio quello che faremo, perché ci ritireremo dopo una guerra condotta da terroristi e non avremo niente come contropartita né dai palestinesi né dagli americani. Tuttavia, se restiamo siamo morti. Restare a Gaza è una minaccia esistenziale. Quindi non abbiamo scelta. Ma non bisogna illudersi che dopo il disimpegno tutto andrà per il meglio. Al contrario, molti palestinesi, se non la maggioranza dei palestinesi, assieme al mondo arabo, non vedranno un ritiro bensì una ritirata sotto il fuoco palestinese una dimostrazione di debolezza e, nel classico stile arabo, cercheranno di sfruttare questa debolezza sparandoci addosso. Sì, sono certo che ci spareranno. Cercheranno anche di creare divisioni nella società israeliana e cercheranno di dimostrare alla sinistra che là dove Israele si ritira tutto è tranquillo. Spareranno da zone diverse. Non spareranno da Gaza. Spareranno da zone della Cisgiordania che sono sotto l’occupazione di Israele e così la sinistra israeliana dirà: ‘Vedete, vedete dove ci ritiriamo tutto è tranquillo. Continuiamo a ritirarci’. E quando ci saremo ritirati da tutte le zone, tutti potranno spararci. Questo è lo scenario".
YOSSI KLEIN HALEVI Perché il disimpegno in questo momento? "Il disimpegno unilaterale è il frutto della disperazione della sinistra e della destra. Quando la maggioranza degli israeliani si è resa conto che eravamo stati fuorviati successivament dal movimento dei coloni e dal movimento dei pacifisti, le due forze che hanno dominato la politica di Israele per 30 anni, si è giunti a questa conclusione: la destra israeliana aveva ragione in quanto non è possibile raggiungere la pace con i palestinesi, ma anche la sinistra aveva ragione in quanto non possiamo occupare i territori palestinesi. Quindi la sola opzione rimasta era di ritirarci unilateralmente fino a confini che noi stessi avremmo fissato. Metteremo fine all’occupazione della maggior parte dei territori palestinesi, ma abbandoneremo sia l’idea di confini più vasti per il nostro paese sia l’idea di un falso processo di pace. Non bisogna dimenticare che qui non si tratta di un ritiro, ma di un ritiro unilaterale. Ciò significa che la componente ‘ritiro’ ci dice che il sogno di una grande Israele è finito, mentre la componente ‘unilaterale’ ci dice che il sogno di pace – di un accordo negoziato – è ugualmente finito. Accettiamo la realtà: se avessimo un interlocutore affidabile, perché ci staremmo ritirando unilateralmente? Sharansky dice: ‘Perché rinunciamo a qualcosa in cambio di niente’? La mia risposta è: perché non abbiamo un interlocutore con cui negoziare. Non voglio niente in cambio da Abu Mazen e dai palestinesi perché so che quello che vorrei veramente ottenere da loro, che riconoscessero e legittimassero lo Stato di Israele, non posso ottenerlo perché in questa fase non sono in grado di darmelo. E’ semplice". E’ un bene per i palestinesi? "Se l’obiettivo dei palestinesi è una soluzione a du Stati con la Palestina in quasi tutta la Cisgiordania e in tutta Gaza, allora il ritiro unilaterale è un’ottima cosa poiché offre ai palestinesi la possibilità di provare a un pubblico israeliano molto scettico che sono in grado di governare uno Stato. Se l’obiettivo palestinese non è di creare uno Stato, ma di distruggere lo Stato ebraico, allora il ritiro unilaterale può avere un duplice effetto. Può essere utile come base terroristica per destabilizzare Israele. D’altra parte, più i cittadini israeliani si renderanno conto che non ci si può fidare dei palestinesi, più sarà difficile convincerci per esempio, a condividere Gerusalemme. Perché dovrei trovarmi con un’Autorità palestinese armata a due passi da casa mia - che è letteralmente quello che accadrebbe – quando ciò potrebbe trasformare Gerusalemme in una Belfast dei giorni più neri? Si tratta quindi di decifrare l’obiettivo dei palestinesi. Se mirano a una soluzione a due Stati e alla fine del conflitto, sarebbe molto positivo. Personalmente non credo che sia questo il loro obiettivo. Penso che la tragedia di questo conflitto è che c’é un’asimmetria intrinseca – che esiste da almeno 10 o 15 anni, probabilmente sin dalla prima Intifada – con una maggioranza israeliana centrista che accetta sinceramente la legittimità di uno Stato palestinese non solo come necessità politica, ma come necessità morale. Questo è un concetto relativamente nuovo per Israele. L’asimmetria consiste nel fatto che, da parte palestinese, anche i palestinesi moderati tendono a essere dei moderati tattici su un argomento così strategico". E’ un bene per Israele? "Sinceramente non so. Prendo molto sul serio le argomentazioni della destra israeliana. Quasi tutte le sue argomentazioni vanno a segno. Probabilmente porteremo la linea del terrorismo più vicino alle città israeliane. Già adesso i razzi di Qassam possono raggiungere gli insediamenti di Gaza. Potrebbero raggiungere anche il porto di Ashdod e la raffineria di petrolio e questo è veramente preoccupante". Il governo di Israele ha dichiarato che le operazioni di disimpegno si svolgeranno senza scontri. Lo ritiene possibile? "Quando ho posto la stessa domanda a una fonte militare mi ha risposto che la prima pallottola sarà anche l’ultima. E’ una buona notizia, ma anche una cattiva notizia. La buona notizia è che si ritiene che il primo atto di violenza da parte dei coloni susciterà una reazione di sdegno nell’opinione pubblica israeliana tale da bloccare sul nascere altre iniziative del genere. La cattiva notizia è che chiaramente l’esercito si aspetta un’esplosione di violenza". Che cosa succederà ai coloni che saranno sradicati da Gaza? "La questione non riguarda solo 8.000 coloni. Il problema è il sionismo religioso, che ha prodotto il movimento dei coloni e che è uno dei pilastri della società israeliana. Non è un gruppo periferico e raccoglie anche dei fanatici. Nel complesso costituisce una componente essenziale della popolazione israeliana e un terzo degli ufficiali dell’esercito provengono dal mondo sionista, che include anche illustri accademici, giornalisti e cineasti, che non sono ebrei ultra ortodossi con barba e cappello nero. Sono israeliti moderni, dinamici. Tuttavia, il mondo sionista si compone in realtà di due mondi. Il mondo che ho appena descritto, di intellettuali moderati, è la maggioranza, ma c’è una consistente minoranza che negli ultimi anni ha incominciato a emulare l’autoghettizzazione degli ultra ortodossi. Quello che spero possa accadere come conseguenza del ritiro unilaterale è uno scisma in seno al sionism religioso. Gli estremisti culturali che de facto sono già degli ortodossi diranno che questo non è più il nostro Stato – che una maggioranza edonistica secolare ha tradito il sionismo e gli insediamenti – e che quindi non vogliamo avere niente a che fare con questo Stato secolare. Costringeranno la maggioranza intellettuale, che si considera ancora parte dello stesso campo politico dei separatisti, a ripudiare quel campo e di conseguenza sia il movimento dei coloni sia il sionismo religioso finiranno per ricongiungersi con la principale corrente israeliana". Sicurezza. Il disimpegno sarà un passo verso la pace tra israeliani e palestinesi o porterà a un inasprimento del terrorismo e della guerra? "Non credo che sia possibile raggiungere nei prossimi anni un accordo di pace globale che ponga termine al conflitto. A lungo termine devo credere che accada, altrimenti sarei disperato; sarebbe molto difficile far crescere i nostri figli in questo conflitto, per questo voglio sperare che ci sia una possibilità. A breve-medio termine, non s’intravedono i segni di una volontà da parte palestinese di accettare una soluzione a due Stati. Quello che vediamo invece è un’accettazione tattica della soluzione dei due Stati come fase temporanea in attesa del raggiungimento dell’obiettivo di un unico Stato". EITAN DOR-SHAV Perché il disimpegno ora? "E’ un momento di grande sconforto. Doveva accadere qualcosa per cambiare la realtà. L’idea è che, anche se non è la cosa giusta, dobbiam fare qualcosa. E’ come se il medico vi dicesse che avete un’infezione sanguigna e che vi deve amputare una gamba. Si preferisce affrontare l’amputazione invece di cercare una soluzione per l’infezione. Inoltre abbiamo una leadership debole che ha consentito questo disimpegno. Certo, l’idea di una qualche forma di ritiro non è nuova. Sharon non l’ha inventata, è un’idea che è nell’aria da molto tempo. Sharon si è trovato in una situazione in cui poteva guadagnare l’appoggio della sinistra. Se Sharon avesse proposto un ritiro parziale da Gaza, non avrebbe avuto l’appoggio della sinistra. Per loro non sarebbe stato abbastanza, e la destra, da parte sua, l’avrebbe lasciato solo. Il ritiro è in parte una necessità. In altri termini, la sopravvivenza politica di Sharon è assicurata fintanto che Shimon Peres lo appoggia e lo sostiene". E’ un bene per Israele? "No, non è un bene per Israele. Sono dell’opinione che Israele stia giocando d’azzardo e la posta in gioco è troppo alta. E’ un gesto impulsivo. Avrebbe dovuto avvenire gradualmente con delle concessioni da parte dei palestinesi e non come una soluzione esplosiva. Penso che Sharansky abbia ragione. Israele non ha molte carte strategiche da giocare e le poche che abbiamo dovremmo tenercele ben strette. Quello che dobbiamo ottenere dai palestinesi, dal mondo occidentale e dal mondo musulmano è la sicurezza. I palestinesi devono instaurare dei mezzi democratici per controllare Hamas, e questo richiede un processo graduale. L’Autorità palestinese deve riuscire a controllare i terroristi per essere in grado di offrire sicurezza e non violenza Il disimpegno annulla ogni possibilità d pace. La sinistra in Israele non si aspetta più la pace e vede l’autodeterminazione delle frontiere come un modo per evitare di negoziare con i palestinesi. Nessuno pensa più in termini interculturali. Israele è in una condizione di angoscia psicologica e di debolezza. Le famiglie sono disunite e c’è una profonda depressione. Israele si sta scucendo perché c’è una sensazione diffusa di fragilità e di pericolo per la nostra società. Abbiamo dei leader ingenui che pensano che il mondo ci approverà per questo disimpegno. Invece sta succedendo il contrario. Il mondo sente odore di sangue e reagisce identificandosi con i forti (il mondo musulmano) e non con i deboli (Israele)". E’ un bene per i palestinesi? "Ne sono convinto. I palestinesi sono furbi e lasceranno che il disimpegno si svolga senza troppa violenza. Tuttavia, nel momento in cui apparirà irreversibile, inizieranno un ‘fait accompli’. Diranno che Israele ha dovuto ritirarsi sotto il fuoco e parleranno della loro vittoria. La strategia principale dei palestinesi dopo il ritiro da Gaza sarà di sferrare attacchi in altre zone. Inizieranno una guerriglia nei sobborghi di Gerusalemme e nell’area di Ariel nella Cisgiordania". Che cosa succederà ai coloni che sarann sradicati da Gaza? Diventeranno tutti sionisti? "No, i coloni non diventeranno tutti sionisti. Le fazioni religiose diventeranno molto più potenti. Avranno perso la battaglia contro il disimpegno, e anche i coloni e i lor rappresentanti avranno perso, ma la società israeliana vedrà sorgere nuovi confini. Fino a oggi gli israeliani erano divisi 50/50 tra destra e sinistra (Likud e Laburisti). La destra religiosa era una piccola fazione vicina al Likud, ma non sarà più così.Il fronte nazionale religioso avrà più peso del Likud e diventerà la voce della destra. Quell’ideologia fa sempre più presa. E’ l’unica altra voce accanto al Likud e nessuno nemmeno Benjamin Netanyahu, muove un dito senza consultarsi con il movimento dei coloni perché può mobilitare centinaia di migliaia di persone. Acquisterà ancora più peso. Il sionismo religioso nazionalista darà più credibilità al sionismo". Sicurezza. Il disimpegno sarà un passo verso la pace tra israeliani e palestinesi o porterà a un inasprimento del terrorismo e della guerra? "Non bisogna aspettarsi che il terrorismo sia sempre uguale. La prossima fase sarà pianificata strategicamente dai palestinesi per ottenere quello che vogliono. I palestinesi approfitteranno della debolezza di Israele e del ritiro. Sono molto pazienti e non rischieranno di compromettere questo piano con azioni intempestive". NATAN SHARANSKY Perché è così contrario al disimpegno i questa fase? "Sono contro il disimpegno non perché pensi che dobbiamo restare a Gaza, ma perché le concessioni unilaterali potrebbero trasformare Gaza in uno Stato terrorista. Se in Palestina si sviluppasse una democrazia, uno Stato palestinese non sarebbe pericoloso. Mi piacerebbe che alle concessioni territoriali da parte israeliana corrispondessero delle riforme nell’ambito dell’Autorità palestinese. Dovremmo vincolare le nostre concessioni all’impegno di riforme democratiche dell’Autorità palestinese. Se il disimpegno comportasse delle riforme democratiche in seno all’Autorità palestinese, sarei assolutamente a favore di questo processo. Ma sono contrario a qualsiasi cessione di territori in cambio di terrorismo". E’ un bene per Israele? "No. Ho sempr pensato e continuo a pensare che il disimpegno sia un prezzo molto alto da pagare e che avrà come unico risultato di promuovere il terrorismo. Nella mia lettera di dimissioni dal governo nel mese di maggio, formulav queste domande: abbandonando Gaza riusciremo a promuovere la libertà di espressione e un ordinamento giuridico che tuteli i diritti umani? Cesserà l’incitamento alla violenza che fa parte del sistema educativo palestinese? I gruppi terroristici saranno smantellati? La risposta a tutte queste domande ovviamente è no". E’ un bene per i palestinesi? "No, perché non assicuriam la libertà ai palestinesi". Il governo di Israele ha dichiarato che le operazioni di disimpegno si svolgeranno senza scontri. Lo ritiene possibile? "Mi preoccupa questa crescita del livello di violenza in Israele. La demonizzazione dei leader e dei coloni è molto pericolosa, e sento che aumenta il livello di violenza tra chi si oppone al ritiro, ma anche tra chi vuole demonizzare i coloni". Sicurezza. Il disimpegno sarà un passo verso la pace tra israeliani e palestinesi o porterà a un inasprimento del terrorismo e della guerra? "No, inasprirà il conflitto con i palestinesi, porterà a un aumento del terrorismo e allontanerà la prospettiva di una vera pace". Amy K. Rosenthal (Traduzione di Mirella Sanvito Associazione Milano Interpreti) Riportiamo anche in riquadro con sintetiche informazioni biografiche sui membri del Centro Shalem interpellati.
Ecco il testo: MICHAEL B. OREN: storico american ha vissuto per più di 25 anni in Israele, prestand servizio militare e lavorando come consigliere del governo Rabin. YOSSI KLEIN HALEVI: corrispondente da Israele per la rivista americana New Republic, è autore di "Memoirs of a jewish extremist". EITAN DOR SHAV: esperto di pr della campagna contro il ritiro da Gaza. NATHAN SHARANSKY: dissidente ucraino, è stato condannato dal regime sovietico a 13 anni di lavori forzati in Siberia. Ad aprile ha dato le dimissioni dal governo Sharon, in rottura con la decisione di ritirarsi dai territori. E’autore di "The case for democracy". Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.