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Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


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La Stampa Rassegna Stampa
19.07.2005 Il "vecchio cronista" ripete la vecchia favola: la questione palestinese all'origine del terrorismo internazionale
un editoriale di Igor Man ripropone lo screditato luogo comune

Testata: La Stampa
Data: 19 luglio 2005
Pagina: 1
Autore: Igor Man
Titolo: «Un'alternativa all'odio assoluto»
LA STAMPA di martedì 19 luglio 2005 pubblica in prima pagina un editoriale di Igor Man.
Vi si sostiene una tesi abusata e screditata: che la sicurezza del mondo, la sconfitta del terrorismo islamista e la pace mondiale dipendano dalla soluzione del conflitto israelo-palestinese.
Lo stesso Man, nello svolgersi dell'articolo, entra in contraddizione con questo assunto, per esempio ricordando che la "causa palestinese" è solo un pretesto per il terrorismo al qaedista.
Resta il fatto che il collegamento tra il conflitto israelo-palestinese e l'offensiva jihadista contro l'Occidente è riproposto e, insieme ad esso, implicitamente, sono riproposti i suoi velenosi corollari: Israele deve rinunciare alla propria sicurezza per raggiungere una "pace ad ogni costo" indispensabile al ristabilimento dell'equilibrio internazionale.

Tale analisi è del tutto fuorviante perchè l'offensiva del terrorismo islamista contro Europa ed America non è un effetto dell'autodifesa di Israele dal terrorismo palestinese, semmai ha con quest'ultimo radici ideologiche comuni. E non per una mutazione recente, come scrive Man. Infatti la prima leadership del terrorismo palestinese, quella del muftì Al Husseini che condusse l'offensiva contro gli insediamenti ebraici e poi contro il nascente Stato di Israele , era islamista.
Se vi è un rapporto di causa ed effetto nell'intreccio delle vicende del terrorismo antiisraeliano e di quello che ormai dilaga in tutto il mondo, è semmai un altro. Politiche errate, soprattutto europee, di compromesso con il terrorismo palestinese hanno inevitabilmente incoraggiato altri a far ricorso ai suoi medesimi mezzi.

Ecco l'articolo:

La pace è racchiusa nel cuore antico del mondo: in Palestina, cassaforte ideale delle tre religioni monoteiste. Finché non ci saranno, in Terra Santa, due Stati: Israele e quello palestinese, regnerà la confusione e l’erba zizzania sarà il pascolo immenso del terrorismo. Ma questo assioma ha subito nel tempo una mutazione drammatica. Le azioni terroristiche dei fedayn di George Habbash e del Fronte democratico di Nayef Hawatme rimasero sempre ancorate a moduli diremo laici, mutuati dalla rivoluzione algerina. Tutto cambia con la connection iraniana. Essa si salda con l’esodo di Arafat dal Libano e con l’alleanza tra l’alauita Assad di Siria e l’imam sciita, Khomeini. Da quel momento (grosso modo tra la fine del 1978 e l’inizio del ’79) irrompe sulla devastata ribalta mediorientale il nuovo terrorismo, quello dei «kamikaze» islamici. Khomeini, sommo giuresperito, dice che sì il suicidio è peccato mortale - lo stabilisce il Corano -, tuttavia immolare la propria vita per uccidere il nemico infedele è sublimazione nel martirio che garantisce il paradiso.

L’11 settembre, la strage di Madrid, il massacro di Londra danno connotati tecnologici al terrorismo suicida. Nelle sconnesse rivendicazioni dei terroristi dell’ultima leva, la tragedia del popolo palestinese viene citata di passaggio secondo routine rivelandosi per quello che è: un mero pretesto. A Osama bin Laden (o a un suo clone, non fa differenza) la causa palestinese non interessa. A muovere lo Sceicco della Morte (o chi per lui) è l’odio. In primo luogo l’odio per il regno di Arabia Saudita, in secondo per gli Stati Uniti e i loro «satelliti». Quando lo Sceicco Yamani, il potentissimo ministro del petrolio saudita, si dimise, i giornalisti occidentali corsero a Ryad; come mai quel colpo di scena? Finché un Principe non disse alla stampa: «Insomma, signori, non vi sembra eccessivo tanto rumore per un dipendente licenziato?». Osama, figlio di un palazzinaro saudita, assurse a eroe internazionale per aver impresso una spinta decisiva alla guerra contro gli invasori sovietici dell’Afghanistan. I suoi fedayn gli fecero guadagnare onorificenze democratiche e l’ingresso nel salotto buono saudita. Poi, d’improvviso, Osama in 24 ore lascia l’Arabia Saudita. Verosimilmente non è riuscito a stare al suo posto, qualche scivolata lo ha, dall’oggi al domani, ridotto al rango di «dipendente» (licenziato). Come spesso accade nella Storia, lo snobismo diventa odio e l’odio genera vendetta. Ma vendicarsi è come prendere un’aspirina: copre, non risolve.
Il fatto nuovo è la partecipazione al massacro dell’infedele di chi con l’infedele è cresciuto. Il filosofo della politica Roger Scruton scrive che le ultime stragi sono state ordite ed eseguite da coloro (i muhâjirun) che vivono «in una simbiosi apparentemente inoffensiva» con la comunità che li accoglie. Incapaci di organizzare una opposizione nei propri Paesi d’origine; incapaci di integrarsi nella società in cui vivono (spesso ai margini) «essi sono portati alla violenza religiosa, unica testimonianza della loro identità». Da qui l’urgenza di proporre «una alternativa credibile ai valori assoluti che il militante islamico invoca a giustificazione del suo stragismo». L’idea d’una guerra (convenzionale) contro il terrorismo ha poco senso: «Il terrorismo non è il nemico ma un metodo utilizzato dal nemico», la sua arma. Di più: sappiamo dalla Storia come mai e poi mai il terrorismo sia riuscito a diventare istituzione.
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