Luoghi comuni sulla guerra al terrorismo islamista la critica di Carlo Panella
Testata: Il Foglio Data: 15 luglio 2005 Pagina: 4 Autore: Vademecum dei luoghi comuni che non reggeranno al jihad Titolo: «Carlo Panella»
IL FOGLIO di venerdì 15 luglio 2005 pubblica la quarta parte del viaggio di Carlo Panella tra le "scemenze" politicamente corrette sulla guerra al terrorismo (le due parti precedenti sono state riportate da Informazione Corretta in "La fabbrica europea dei terroristi suicidi, i luoghi comuni sulla guerra al terrorismo", 14-07-05 e "Contro il pensiero unico della resa al nemico islamista" 13-07-05).
Ecco l'articolo NO ALLO "SCONTRO DI CIVILTÀ"
La fortunata formula definita nel 1993 (in una rivista di Harvard, poi in un libro) da Samuel Huntington per definire le tensioni che attraversano il pianeta, con la fine del secolo delle ideologie e della Guerra fredda, è da anni travisata, in particolare dai critici della strategia anglo-americana contro il terrorismo. Lo studioso americano, infatti, non è stato e non è affatto il profeta dello "scontro di civiltà", non lo augura, non lo invoca, non lo auspica. Semplicemente lo constata. Huntington, infatti, si limita a sostenere che il mondo non va verso una civiltà unica (quella occidentale), come ha sostenuto Francis Fukuyama nel suo libro "La fine della storia". Al contrario, secondo lui, le civiltà non occidentali, in specie quella cinese e quella islamica, con crescente assertività rifiutano dell’occidente la secolarizzazione, la democrazia e i diritti umani, qui le radici dello scontro in atto. Nessuna chiamata alle armi per un conflitto di civiltà, ma la constatazione che questo scontro è in atto. I fatti hanno dato ragione a questa premonizione. Solo che una parte dell’islam ha trasformato questo scontro in una guerra. Una guerra dichiarata unilateralmente contro un occidente che si cullava nell’illusione che la fine dell’incubo atomico, provocata dal collasso dell’impero sovietico, aprisse una fase planetaria di pace e di stabilità. Una guerra di una parte dell’islam – non certo di tutto l’islam, ma di una sua parte radicata, con ampio seguito e consenso – deflagrata l’11 settembre 2001. E’ quasi incredibile che non si prenda atto che questo scontro di civiltà delineato da Huntington (in particolare il rifiuto di tanti musulmani dei Diritti dell’uomo sanciti dalla Dichiarazione Onu del 1948) si è trasformato in una guerra. E’ scandaloso che non si veda come questo sia il legame che unisce il terrorismo islamico al fondamentalismo islamico radicato in paesi come il Pakistan in cui l’apostasia è reato penale (come in Egitto e Sudan) e quell’Arabia Saudita che rifiuta tuttora di firmare la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo dell’Onu perché contraria alla shari’a per quanto riguarda la sottomissione della donna alla autorità tutoria dell’uomo e la libertà di coscienza. In realtà, però, chi rifiuta oggi di prendere atto che dall’11 settembre l’occidente è sotto tiro di una "guerra di civiltà" da parte di una agguerrita componente islamica, va oltre. Il multiculturalismo è infatti la formula magica che questa componente politico- culturale contrappone allo scontro di civiltà. La convinzione che il semplice accostamento delle culture, la tolleranza più estesa, la convivenza pacifica tra diverse fedi e civilizzazioni producano, di per se stessi, l’antidoto allo scontro di civiltà. Questa corrente di pensiero è molto forte in Italia (ne è paladina l’esperta dei Ds sui temi dell’immigrazione Livia Turco) e in Europa, soprattutto in Olanda e nei paesi scandinavi. L’incrocio tra il multiculturalismo e il pacifismo è dunque scritto nelle cose e purtroppo costituisce la radice profonda della assoluta incapacità di buona parte della cultura politica europea (anche neo gollista, non solo socialdemocratica o ulivista) di elaborare una qualsivoglia strategia alternativa all’azione del terrorismo. La stessa proposta, tipicamente di ispirazione multiculturale, avanzata recentemente dall’Unione, di basare la concessione della nazionalità non più sullo ius sanguinis, ma sul luogo di nascita ne è espressione. Pure, attribuire la cittadinanza italiana ai figli di immigrati stranieri nati in Italia, con tutta evidenza, sarebbe oggi una vera iattura nell’azione di contrasto del terrorismo islamico. L’atroce esecuzione di Theo Van Gogh da parte di un marocchino di nazionalità olandese, figlio benestante del multiculturalismo offre un chiaro esempio del groviglio di contraddizioni che questa strada prepara e prefigura. Ma queste pericolose dinamiche, sia pure di lampante evidenza, non sfiorano neanche le menti dei teorici delle virtù salvifiche del multiculturalismo.
VA DEFINITA SUBITO UNA EXIT STRATEGY DALL’IRAQ
Questa richiesta ha dell’incredibile, soprattutto quando viene avanzata da forze che si richiamano con martellante noia alla fonte di legalità internazionale, rappresentata solo e unicamente dalle Nazioni Unite. L’exit strategy dall’Iraq è infatti già tracciata dall’Onu da ben due anni, praticamente in contemporanea con la "entry strategy". Il 22 maggio 2003 infatti l’Onu approva la risoluzione 1483 che riconosce lo status quo dell’occupazione anglo-americana in Iraq, che poi si perfeziona con le risoluzioni 1511 del 16 ottobre 2003 che definisce le tappe del processo di democratizzazione del paese e quindi della fonte legittimazione della unica fonte autorizzata a decidere sulla permanenza o meno di un contingente militare internazionale (Mnf) in Iraq: il governo iracheno. L’8 giugno 2004, tredici mesi fa, la mozione 1546, infine, definisce il calendario politico della "exit strategy", che da allora è stato perfettamente rispettato. Questo scadenzario prevede la proclamazione di una Costituzione entro l’agosto prossimo, un referendum confermativo entro il 15 ottobre ed elezioni politiche entro il 31 dicembre 2005. Una volta svolte le elezioni politiche la titolarità della decisione sulla permanenza meno del contingente internazionale passerà interamente – ed ovviamente – al legittimo governo iracheno. L’exit strategy del contingente italiano (come di tutto il contingente internazionale) è dunque già perfettamente delineata – non dall’Ulivo, dall’Onu – dipenderà, come ha sempre sostenuto il governo italiano, dalla posizione che assumerà il governo iracheno, legittimato dal voto popolare. Semplice, lineare, definito. Hoshyar al Zebari, ministro degli Esteri del governo legittimo di Baghdad ha chiesto all’Onu il 31 maggio, a nome del governo iracheno, che la presenza del contingente internazionale venga confermata, nel quadro definito dalle Nazioni Unite. Il contingente italiano dunque è in Iraq su richiesta del Consiglio di sicurezza dell’Onu e si ritirerà quando verrà richiesto dal governo iracheno e dall’Onu. Di nuovo: semplice, lineare, definito e con tutti i crismi della legalità internazionale. Ma il centrosinistra italiano continua a fare finta di non essere al corrente di questo quadro, di questa exit strategy chiara e inequivocabile. Semestralmente la sinistra italiana, infatti, affronta il dibattito sul finanziamento della missione militare italiana "Antica Babilonia" dando prova di stridenti lacerazioni interne che scarica, appunto, chiedendo la definizione di exit strategy e facendo finta che essa non sia già acquisita. Dopo gli attentati di Londra queste contraddizioni si sono aggravate, con una componente favorevole al ritiro (Verdi, Rifondazione, Comunisti italiani e sinistra Ds) e una più forte componente (Ds, Margherita e Udeur), che tenta di prefigurare il proprio ruolo di governo, ben cosciente che non può più reggere quella posizione massimalista che pure l’ha fatta marciare sotto l’egemonia – ma anche i fischi e le sberle – del "popolo della pace". Il tutto, in un quadro in cui nessuno chiede di legittimare a ritroso la guerra anglo-americana in Iraq (a cui il nostro contingente non ha per nulla partecipato), ma solo di finanziare la permanenza di quel contingente che – fra l’altro – ha fornito l’unica protezione agli abitanti di Nassiriyah che il 30 gennaio (sorprendendo il centrosinistra italiano) si sono recati a votare e che deve farlo il prossimo 15 ottobre al referendum costituzionale e alle prossime elezioni politiche. Non finanziare il nostro contingente significa non proteggere il voto degli iracheni secondo quanto predisposto dall’Onu. Una scelta politicamente criminale.
E’ TERRORISMO LEGITTIMATO DA UNA "GUERRA DI LIBERAZIONE" Dal 1967 a oggi, lo stesso, identico fronte europeo che si oppone alla guerra in Iraq, fa finta di credere che la guerra che oppone israeliani e palestinesi sia unicamente una guerra "per la terra". Non a caso si tratta delle stesse forze e leader (a partire da Romano Prodi, allora presidente dell’Ue) che hanno sostenuto che la soluzione di pace in medio oriente passa per la applicazione dell’accordo di Ginevra, partorito da due figure emarginate in Israele e in Palestina come Yossi Beilin e Yasser Abed Rabbo, che semplicemente ignora il tema del terrorismo palestinese e che si muove nella logica di "terra in cambio di pace". E’ stato Charles de Gaulle, dopo la "Guerra dei Sei giorni" (vinta da Israele, gliene va dato atto, grazie allo straordinario aiuto militare francese voluto del genéral), a codificare questa falsa analisi della natura del conflitto israelo-palestinese. Conseguenza ovvia di questa analisi errata, è che un immediato ritiro di Israele dai Territori (che infatti De Gaulle chiese già nell’agosto 1967) segnerebbe la fine del conflitto. Questa convinzione, va detto, non è falsa in toto. Ha solo il difetto, il drammatico limite, di essere parziale, di leggere solo una parte della realtà. Il "rifiuto arabo di Israele", infatti è costituito da due elementi intrinsecamente intrecciati e tipici della visione della vita dell’islam, in cui la terra (dar al islam), non è quella della nazione in senso europeo, ma quella in cui vige la legge dell’islam. E’ un rifiuto quindi essenzialmente religioso in cui l’elemento nazionalista – della terra materialmente persa, occupata, da riconquistare – non è scindibile e non è scisso dall’elemento religioso. Lo statuto di Hamas (branca palestinese dei Fratelli musulmani) riassume magistralmente questo elemento che accomuna tutta la umma musulmana e che – solo – spiega 90 anni di conflitto: "La Palestina è un deposito legale (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’islam fino al giorno della Resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad alcuna parte di essa (neanche quindi al territorio assegnato dall’Onu allo Stato d’Israele, ndr) Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati arabi nel loro insieme, nessun re o presidente, né tutti i presidenti messi insieme, nessuna organizzazione, né tutte le organizzazioni palestinesi o arabe unite, hanno il diritto di cedere anche un singolo pezzo di essa, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell’islam sino al giorno del Giudizio. Chi, dopo tutto, potrebbe arrogarsi il diritto di agire per conto delle generazioni dell’islam sino al giorno del Giudizio?" Solo questa concezione religiosa del legame che unisce il popolo arabo e la terra – che è tale solo se vi regna la legge dell’islam, non quella degli ebrei o la democrazia degli occidentali – spiega l’apparentemente inspiegabile ragione per cui le due leadership palestinesi (quella del filonazista Gran Muftì e poi, con piena continuità quella di Yasser Arafat) hanno sempre rifiutato ogni compromesso, ogni mediazione: nel 1936 (Commissione Peel), nel 1939 (libro Bianco inglese), nel 1947 (nascita di uno Stato palestinese e di uno israeliano sancita dall’Onu); nel 1979 (Camp David: pace con l’Egitto e restituzione del Sinai) e nel 2000 (Camp David 2: Arafat rifiuta la riconsegna del 97 per cento della "terra" da parte di Ehud Barak ). L’unico compromesso – subito fallito – viene siglato da Arafat a Oslo nel 1993, ma solo dopo che la sua sciagurata scelta di schierarsi a fianco di Saddam Hussein (non a caso) l’ha portato alla rottura con la intera Lega Araba, con l’intero popolo che vice sul dar al islam. La stessa, identica, ideologia, è alla base del "nazionalismo" dei terroristi iracheni. E’ indubbio che l’occupazione militare di una potenza straniera abbia eccitato il nazionalismo iracheno e in qualche modo anche legittimato il terrorismo. Ma, sin dall’inizio, l’azione dei ribelli iracheni ha agito in senso opposto a quella di qualsiasi guerra di liberazione nazionale. Invece di focalizzare la sua violenza solo e unicamente sull’occupante (e sui "collaborazionisti"), sull’obbiettivo di "liberare la terra", l’azione della guerriglia e dei terroristi iracheni si è scatenata – e con maggior forza – contro i musulmani iracheni non omogenei alla propria componente religiosa. La prima vittima del terrorismo iracheno – lo si dimentica sempre – è stato l’ayatollah al Khoei, oppositore di Saddam, di grandissimo prestigio religioso, ucciso alla fine dell’aprile 2003 a Najaf non appena rientrato dal suo esilio londinese. In contemporanea con l’inviato dell’Onu Viera de Mello – garante tra i più sicuri dell’indipendenza irachena e oppositore istituzionale dell’occupazione americana – viene ucciso – con un centinaio di fedeli sciiti – l’ayatollah Bagher al Hakim, leggendario oppositore di Saddam, leader dell’insurrezione fallita del 1991. Nel novembre 2003, le stragi di centinaia di fedeli sciiti nell’Ashura di Najaf e di Kerbala. Poi la tentata insurrezione sciita di Moqtada al Sadr che miete più vittime tra gli iracheni (tenta persino di assassinare il grande ayatollah al Sistani, dopo averlo "scomunicato) che tra gli americani. L’intera strategia dei terroristi iracheni, in tutte le sue componenti, senza eccezioni, non punta affatto a unificare un ampio fronte nazionale contro "l’invasore", ma a contrastare le truppe americane contemporaneamente umiliando, uccidendo, straziando, le altre componenti nazionali. Nella storia tormentata delle guerre di liberazione nazionale – neanche in quella della resistenza jugoslava, tra le più tragiche sotto questo profilo – non si è mai assistito a una tale subordinazione dell’obbiettivo di liberare "la terra" a quello di fare valere la propria opzione religioso-politica. Di nuovo, è la logica del jihad quella che prevale, della "guerra di civiltà" addirittura all’interno delle famiglie musulmane, contro ogni logica politica, ogni strategia di unità nazionale. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.