Contro il pensiero unico della resa al nemico islamista smascherare i luoghi comuni sulla guerra al terrorismo e quelli sulle crociate, ricordare la profezia di un grande antropologo e la "colpevole demenza" dei pacifisti nel 1940
Testata: Il Foglio Data: 13 luglio 2005 Pagina: 2 Autore: Carlo Panella - Giulio Meotti Titolo: «Vademecum dei luoghi comuni che non reggeranno al jihad - Viva viva il feroce Saladino! - La profezia di Lévi Strauss sull'islam»
A pagina 2 dell'inserto IL FOGLIO di mercoledì 13 luglio 2005 pubblica un articolo di Carlo Panella sui falsi luoghi comuni politicamente corretti sulla guerra al terrorismo.
Ecco il testo: IL TERRORISMO NON SI SCONFIGGE CON LA GUERRA
La prima grande offensiva del terrorismo islamico non si scatena né in Afghanistan, né in Iraq, ma in Algeria, nei primi anni 90. Sempre ignorata dai dotti analisti politicamente corretti e dai pacifisti, l’esperienza algerina dimostra che il primo obiettivo del terrorismo islamico sono i governi musulmani e che può essere sconfitto, come è stato sconfitto in Algeria, solo con una vera e propria guerra: dispiegamento dell’esercito, occupazione militare del territorio; rastrellamenti, coprifuoco, bombardamenti aerei dei "santuari", lanci di paracadutisti, assedio di città e anche "guerra sporca". Il terrorismo maghrebino dimostra che non è affatto vero che il terrorismo islamico nasce in reazione all’imperialismo americano o a Israele. Il governo contro cui il Gia e le altre organizzazioni islamiche levano le armi è il simbolo stesso della lotta anticoloniale in Africa, è sempre stato la "punta di diamante" del fronte antimperialista, dei "paesi non allineati", del "Fronte del Rifiuto" contro Israele. E’ l’unico governo arabo ideologicamente "laico" (non è così né per i governi nasseriani o baathisti, che sono però intrisi di cultura, ideologia e religione islamica, e che vengono erroneamente definiti laici soltanto perché gestiti dal corpo militare, non dagli ulema dell’islam). L’unica, grande differenza tra la strategia addottata dagli algerini – apertamente e materialmente aiutati dalla Francia di Mitterrand e poi di Chirac – e quella degli americani in Iraq è politica. In Algeria le azioni di vera e propria guerra protratte per otto anni, puntano a ristabilire un quadro di comando dittatoriale del Fln che era stato spessamente sconfitto nelle urne nelle prime elezioni democratiche del ’90-’91. La Francia e l’Unione europea offrono una piena copertura politica – e anche molti aiuti militari – all’annullamento di regolari elezioni parlamentari; così s’innesca la rivolta terrorista di massa, in un processo che si conclude con il ripristino del governo militare autoritario del Fln. In Iraq, invece, la strategia americana è opposta e la guerra punta a costruire le condizioni per le prime elezioni democratiche. Obiettivo già raggiunto il 30 gennaio scorso e ora consolidato con la trattativa con le organizzazioni sunnite che allora avevano chiamato al boicottaggio del voto. L’esperienza algerina, con i suoi 150.000 morti e i suoi "desaparecidos" (dell’una e dell’altra parte; Guantanamo è un college svizzero rispetto alle carceri algerine, che i "consulenti" europei perfettamente conoscono), insegna anche che il radicamento del terrorismo islamico è tale che non è possibile estirparlo del tutto, che il suo essere parte del corpus religioso del paese lo cronicizza. Oggi, in Algeria, la cadenza degli attentati e degli scontri militari produce una media di 900 morti l’anno (ignorati dalla stampa, dagli "esperti", dai pacifisti), ma la vittoria politico-militare sul terrorismo pare ormai consolidata.
LA DEMOCRAZIA NON SI ESPORTA CON LA GUERRA
Ovviamente questo postulato è intimamente legato al precedente. Il solo problema è che è storicamente falso. Nel corso di tutto il Novecento, solo una democrazia è sbocciata all’esterno di un contesto bellico: quella spagnola alla morte di Franco. In tutti gli altri casi, inclusa la democrazia coreana, al centro del processo di democratizzazione vi è una iniziativa bellica, sempre gestita peraltro (a eccezione del Portogallo del 1974) dagli Stati Uniti. E’ questo un boccone amaro da digerire per la cultura pacifista, no global e di derivazione comunista, ma i fatti stanno a dimostrare che l’utopia strategica americana definita per la prima volta dal presidente Woodrow Wilson – con tutti i suoi limiti, le sue contraddizioni, anche i suoi pasticci – ha segnato tutto il ventesimo secolo e tende a segnare anche il ventunesimo. Questa strategia lega la "sicurezza nazionale" degli Stati Uniti all’allargamento dell’area della democrazia nel globo. Questo a partire non tanto e non solo da una convinzione ideologica, ma da una realpolitica considerazione materiale: ogni sistema totalitario – sia esso nazista, fascista, nippo-scintoista, comunista, fondamentalista islamico – è destinato ad attentare alla "sicurezza nazionale" degli Stati Uniti. Lo schema di fondo applicato da George W. Bush in Iraq è quello wilsoniano di tutto il secolo precedente, rinvigorito (lo ricordi Walter Vetroni) da J. F. Kennedy: appoggiarsi alle forze democratiche di un paese per permettere loro di instaurare un regime democratico che sostituisca quello totalitario abbattuto manu militari. E’ questo lo schema della Prima e della Seconda guerra mondiale, della Guerra fredda e oggi della guerra al totalitarismo islamico. In Afghanistan queste forze democratiche sono state individuate nell’Alleanza del Nord, in Iraq dalle forze che reggono il nuovo governo democratico di Baghdad. Tutti i leader che oggi sono al vertice dell’Iraq (il presidente Jalal Talabani, il premier Ibrahim Jaafari, l’ex premier Iyyad Allawi, il leader sciita Abdulaziz al Hakim, Ahmed Chalabi e altri) hanno partecipato a Washington nell’agosto 2002 alla prima delle tante riunioni in cui questo nucleo democratico è stato formalmente riconosciuto dall’Amministrazione Bush. Il 30 gennaio 2005, con la straordinaria partecipazione popolare al voto nonostante la minaccia terrorista, ha gettato vergogna e onta su tutte quelle forze politiche – tutti i pacifisti, tutto il centrosinistra italiano, tutti gli chiracchiani d’Europa – che non hanno saputo comprendere che i democratici iracheni, su cui l’Amministrazione americana sin dall’inizio ha puntato, godevano e godono di una straordinaria corrispondenza nel popolo iracheno, pronto a rischiare la morte per mettere in un’urna il loro voto per questa loro leadership. Naturalmente questo non vuol dire che gli Stati Uniti, nel corso del Novecento, non abbiano commesso straordinari errori (le Amministrazioni democratiche di Kennedy e Johnson, nell’applicare questo schema scatenando la guerra del Vietnam si appoggiano su una leadership sudvietnamita cattolica – ereditata dalla Francia – assolutamente inadeguata, non democratica e questo errore è la causa principale della sconfitta della "vietnamizzazione"), né che non abbiano compiuto scelte nefaste, antidemocratiche e imperialiste, innanzitutto in America Latina (tutte riparate, peraltro, a partire dall’Amministrazione Reagan, che dal 1980 in poi, ha accompagnato e favorito la democratizzazione di tutto il continente). Anche l’appoggio cinquantennale ai regimi autoritari in medio oriente (con gli straordinari profitti in termini economici e di potere conseguenti) rientra in questo schema. Gli Stati Uniti vi hanno sofferto anche umiliazioni militari cocenti (come la morte di 225 marines uccisi assieme a 180 parà francesi in un attentato a Beirut il 24 ottobre 1983, seguita dal ritiro dell’intero contingente, senza alcuna ritorsione) sino a quando non hanno ritenuto che la loro "sicurezza nazionale" fosse in pericolo. Con l’11 settembre 2001 essa è stata violata e gli Stati Uniti hanno applicato la loro dottrina ormai secolare: guerra per favorire la democrazia. La grande differenza con l’Europa è tutta qui. Come dimostra la Madrid di Zapatero, come dimostra la politica dell’asse franco-tedesco e delle sinistre pacifiste, la "vecchia Europa" non ritiene che la propria "sicurezza nazionale" sia in pericolo. Non ritiene dunque che valga la pena di elaborare alcuna strategia che vada oltre il mantenimento dello status quo (senza neanche accorgersi, peraltro, che esso aveva un senso soltanto nella logica della contrapposizione bipolare e quindi della deterrenza atomica che ne era la conseguenza). In Europa è radicata la convinzione che le vittime potenziali degli attentati islamici siano soltanto gli americani e gli israeliani e neanche la successione dei rapimenti dei giornalisti più antiamericani e antisraeliani che si possano immaginare in Iraq la scalfisce. Come durante la drôle de guerre, si pensa che sia sufficiente fare il viso dell’arme e che, a un certo punto, l’aggressore, pasciuto delle sue conquiste, si fermerà. Si pensa che sia sufficiente stare fermi e il nemico non ti attaccherà. Sempre di Carlo Panella un corsivo che propone un paragone storico molto appropriato.
Ecco il testo: Nell’agosto 1940 Arthur Koestler, appena giunto avventurosamente a Londra, annota esterrefatto la cosa che più lo impressiona e inquieta. Non la ferocia indiscriminata dei bombardamenti della Luftwaffe, non l’eccellente capacità degli inglesi di reggere la prova. No. La cosa che lo atterrisce, in cui vede riassunta tutta la follia di quei giorni è un’altra. E’ la parola d’ordine, la consegna ai militanti che campeggia sulla prima pagina del giornaletto distribuito dal miniscolo Partito comunista: "Non partecipiamo alle attività di soccorso della popolazione civile colpita dai bombardamenti! Non condividiamo la responsabilità della guerra imperialista condotta dalla Gran Bretagna contro la Germania!". Vige il patto tra Hitler e Stalin, ed è ovvio e normale che – mentre l’Urss riconsegna alle Ss gli antinazisti tedeschi perché vengano trucidati – il Pc britannico esalti in questo modo folle la propria scelta pacifista. Costretti oggi al ricordo angoscioso di quei giorni londinesi del 1940, possiamo cogliere l’occasione per ricordare altri avvenimenti di quell’anno, oltre la colpevole demenza dei pacifisti di allora. Koestler, quando annota questo episodio, è appena scampato, assieme a Leo Valiani (divenuto nell’occasione suo amico), alla deportazione nella Germania nazista, dopo un breve periodo di prigionia nel campo di concentramento del Vernet nella Francia appena conquistata da Hitler. Il suo amico, il comunista Willi Mýnzenberg, inventore della disinformatja comunista sui media tedeschi e francesi, è stato trucidato dai suoi stessi compagni durante la fuga. Parigi è appena caduta. La drôle de guerre, la guerra stupida, è finita così, come non poteva non finire. Chi oggi, con ossessiva ripetitività e con saccenza, sottolinea gli errori infiniti accumulati dagli americani nella guerra in Iraq farebbe bene a ricordarsi degli errori compiuti dalle democrazie antinaziste in guerra in quell’incredibile periodo che va dal 3 settembre 1939 al 14 giugno 1940 (quando Parigi cade), la drôle de guerre, appunto. Vi è infatti un formidabile punto di contatto politico tra questi due scenari: lo scabroso rapporto tra l’efficienza bellica e la natura democratica di governi che contrastano sul terreno un feroce totalitarismo (efficientissimo) avendo però sempre un limite: la necessità del consenso del popolo, quello in divisa e quello delle retrovie, delle città. Con le fucilazioni in massa dei reparti renitenti all’attacco e dei disertori ordinate nel 1917 da Pètain sulla Marna e da Diaz a Caporetto si è chiusa la fase degli eserciti sottoposti alla gerarchia. Da allora in poi, dopo quei traumi e le loro conseguenze, nelle democrazie, esercito e società civile diventano un tutt’uno inscindibile, e strategia e tattica militare ne devono tenere conto, addirittura si devono ispirare a questo limite. Durante i lunghi nove mesi che separano il 1939 e il 1940, dunque, un corpo di spedizione inglese di 300 mila uomini e tutto l’esercito francese se ne stanno appiattiti dietro la linea Maginot, praticamente senza sparare un colpo, mentre Hitler si annette tranquillamente la Polonia, la Norvegia e la Danimarca e Stalin, suo alleato, si mangia la Finlandia e la sua parte di Polonia. L’immensa, fantastica, linea Maginot altro non è se non la concretizzazione militare, strategica, architettonica dello "spirito di Monaco", dell’atteggiamento rinunciatario, statico, opportunista delle democrazie nei confronti dell’aggressività del totalitarismo. E’ un infinito serpente- bunker di cemento armato, con centinaia di casematte profonde sottoterra tre-quattro piani, ininterrottamente steso per centinaia di chilometri di frontiera, con i suoi cannoni puntati oltre il Reno, con i suoi treni sotterranei, con la sua straordinaria inutilità, è dunque il monumento dimenticato alla debolezza della democrazia in guerra. E’ immensa, ma ha due difetti: prevede che il nemico debba per forza attaccare di fronte, non di lato, non dalle spalle e quindi non ha feritoie sul lato posteriore. Hitler, semplicemente, attacca di lato – dal Belgio sguarnito – prende, senza colpo ferire, la linea Maginot da dietro. Una nuova onta per la Francia. Oggi, con uno straordinario contrappasso, i bunker della Maginot ospitano immense coltivazioni di champignons. Quei nove mesi di drôle de guerre, riassumono – ben più dello "spirito di Monaco" – il punto nodale di tutti gli errori, i dogmi, le false certezze, delle false strategie conseguenti, che le democrazie pagano a se stesse quando entrano in guerra. Si rilegga l’atmosfera sfatta che emana dalle pagine di "Le mur", di Jean-Paul Sartre, sulla vischiosa e indolente mobilitazione dei coscritti della provincia francese per la guerra che pareva imminente nel ’38, poi rinviata a Monaco, nel tripudio del "popolo della pace", e si avrà la sensazione quasi tattile dell’impaccio per un governo democratico a convincere i propri cittadini a scannarsi in guerra. Un impaccio che produce false idee, falsi miti, rocciose certezze sul nemico e sulle sue caratteristiche che tutte – per un verso o per l’altro – conducono alla "drôle de guerre", agli errori strategici e tattici dei quartieri generali, alla guerra proclamata, mobilitata, addirittura col popolo in armi alle frontiere… ma non combattuta. Questo stesso clima, questi stessi profondi, intricati nodi politici, segnano oggi la guerra al terrorismo. Una guerra che vede la Francia (questa volta accompagnata dalla Germania), di nuovo arroccata dietro una nuova, immaginaria linea Maginot costituita dalla roboante sua "politique arabe", che subito si rivela altrettanto aggirabile quanto i bunker di allora. Uno scontro in cui – di nuovo – gli inglesi sono generosamente impegnati a non far perdere la faccia all’Europa libera, saldamente ancorati alla loro vocazione atlantica, in compagnia di pochi altri: l’Italia di Silvio Berlusconi e i paesi appena liberati da un’altra guerra non combattuta dalla Francia, la Guerra fredda, contro il totalitarismo sovietico. Queste le baggianate che accompagnano la nuova drôle de guerre contro il terrorismo della "vecchia Europa". a pagina 1 dell'inserto l'articolo di Giulio Meotti "Viva viva il feroce Saladino!", che spiega perché "La deprecazione delle crociate è un messaggio in codice. Di resa" "Morendo, Cristo lascia quattro chiodi, Maometto sette spade " (Victor Hugo, 1857)
Nello Zanichelli è chiamato affettuosamente "sovrano saggio d’Egitto". Ma chi fosse veramente il Saladino, il curdo conquistatore di Gerusalemme che riunì un mondo islamico a lungo diviso fra califfati rivali, lo si capisce dalle parole del suo segretario, Imad Eddin, che descrisse così la scena dei templari trucidati ad Hattin: "Egli (Saladino) ordinò che essi dovessero decapitarsi, preferendo averli morti che in prigione. Con lui c’era gran schiera di eruditi e di sufi e un certo numero di uomini devoti e asceti; ognuno di loro supplicò che gli fosse permesso di ucciderne uno e sguainare la sua spada. Saladino, gioendo in viso, stava seduto sul suo baldacchino; i miscredenti mostravano nera disperazione". Senior editor del Daily Telegraph e columnist del New York Sun, Daniel Johnson ha scritto per il nuovo numero di Commentary un saggio su come pensare le crociate alla luce della guerra al terrorismo islamico. E’ uno scritto discutibile ma non eludibile, importante non soltanto per la rara forza intellettuale che lo trascina e la tensione storiografica che lo sorregge, ma perché è stato pubblicato dalla rivista dell’American Jewish Committe. E sappiamo quale buco nero siano le crociate nella memoria ebraica. La tesi di Johnson è che la cultura occidentale ha tradito e colpevolizzato il suo passato tragico e glorioso, ha nutrito e pasciuto la sua coscienza infelice attraverso una vergognosa storiografia che ha evirato la verità del secolare scontro fra occidente e mondo islamico e ha disinformato a vantaggio di questo’ultimo rinunciando a un fondamentale strumento nella comprensione del jihad che c’è stato dichiarato. Per i crociati non vale nemmeno il detto: "De mortuis nihil nisi bonum". "Agli occhi della maggior parte dei cristiani i crociati sono stati un crimine contro l’umanità. La condanna dei crociati è basata sulla premessa che era una guerra barbara, di sterminio e di conquista, scagliata contro una civiltà superiore e incomparabilmente più tollerante". Oggi, spiega Johnson, "gli Stati Uniti sono identificati dai suoi critici, soprattutto in Europa, con il fanatismo religioso e la rapacità militare dei crociati". Lo scrittore premio Nobel Günter Grass, subito dopo la detronizzazione di Saddam Hussein, scrisse contro il "fondamentalismo religioso", il "declino morale" e la "follia organizzata" di Washington e invitò Giovanni Paolo II, "che conosce le devastazioni causate dalla mentalità e dalle azioni dei cristiani crociati", a fare apologia verso il mondo islamico. La prima crociata fu lanciata nel 1095 per ristabilire il controllo sul Santo Sepolcro di Gerusalemme. I crociati fondarono numerosi Stati "oltremare", che sono durati per più di due secoli. "La battaglia sanguinosa e incessante per difendere questi insediamenti isolati contro l’ascesa dell’aggressione musulmana avrebbe cambiato il corso della storia", scrive Thomas Asbridge in "The first crusade" (2004). Nel 1204 la quarta crociata saccheggiò Costantinopoli e stabilì l’impero latino negli ex territori bizantini. Sopravvisse fino al 1261, quando i greci riconquistarono la capitale. Con la caduta di Acri nel 1291, il regno di Gerusalemme si ritirò a Cipro, difesa per stabilire dei "bastioni della cristianità nel Mediterraneo". Per gli ebrei la prima crociata fu un disastro, con il massacro di tre comunità renane. La memoria di quelle giornate è conservata in tre narrazioni e nella recitazione di una preghiera ebraica annuale. La seconda crociata, plasmata dal "grande genio religioso" di Bernardo di Chiaravalle, finì per includere una guerra all’eresia sul suolo europeo. La riconquista cristiana della penisola iberica, che nel 1257 ridusse il dominio dei mori, rientrò nell’ideale della crociata. La colonizzazione delle terre slave condotta dai templari fu modellata sull’esempio dei cavalieri dislocati in Terra Santa. La cronistoria di Johnson è ineccepibile: dal grido di Simone di Monfort ("Bruciateli tutti, Dio riconoscerà i suoi") in occasione del massacro degli eretici albigesi, alla frattura sanguinosa con i cristiani ortodossi, fino al crollo bizantino che aprì la strada all’islamizzazione dell’Europa. "Per il mondo islamico, la perdita di Gerusalemme è stata un trauma catartico. Sebbene altre invasioni, come quella mongola del XIV secolo, fossero state molto più distruttive per la civiltà musulmana, non c’è dubbio che i crociati sono collocati molto più profondamente nella memoria collettiva islamica, incorporati in una narrativa che provvede alla crescente disparità fra islam e occidente a partire dal XVIII secolo". Ma la domanda che interessa Johnson e il lettore occidentale dopo i massacri di New York, Madrid e Londra è un’altra: cosa hanno da dire oggi gli storici sulle crociate? "La narrativa dominante è nata dalla critica illuministica e dall’assalto alla religione, a quella cattolica in particolare". Un solo esempio, il magistrale Edward Gibbon. "Secondo lo storico britannico l’unico merito dei crociati è stato quello di aver indebolito il dominio del feudalesimo europeo". Per il resto "queste guerre sante", scrive Gibbon, "hanno arrestato piuttosto che accelerato la maturità dell’Europa. Le vite e il lavoro di milioni di uomini seppelliti a oriente sarebbero state più utili nel progresso della loro nazione d’origine". E Gibbon continua con un inno al sincretismo pacifico, ai profumi orientaleggianti e alla goffaggine europea rispetto all’eleganza araba. Si racconta che un barone, invitato a colazione dal Saladino, puzzava a tal punto che venne preso dai paggi del sultano per farlo lavare. Iniziò a urlare perché aveva paura che lo spellassero vivo. Non è un caso che i tre volumi di Sir Steven Runciman, la bibbia della storiografia crociata adottata dalle università di mezzo mondo, siano stati pubblicati negli anni della decolonizzazione del medio oriente. Il senso di colpa era un ottimo combustibile. "La maggior parte degli storici delle crociate le hanno giudicate attraverso il prisma della recente storia europea". Runciman ha enfatizzato le sofisticazioni della civilizzazione bizantina, biasimato i latini e incarnato quanto di peggio si annidava nel "pessimismo dell’upper class inglese". Runciman ha trascorso la Seconda guerra mondiale a Instanbul come professore di arte bizantina, decise di scrivere sulle crociate, "un soggetto che detestava", solo per "rieducare gli inglesi". "Quando dichiarò che il movimento crociato era stato un fiasco, rifletteva lo spirito della campagna di Suez". Thomas F. Madden, curatore del libro "The Crusades", (Oxford, 2002), ha fatto notare che "la ‘Società per gli studi dei crociati’ è un’organizzazione che ha 480 membri in 30 nazioni. Molte centinaia di studi sono pubblicati ogni anno. Il risultato è che ora noi sappiamo più sulle crociate e i crociati di quanto si sia mai saputo prima. Gli studiosi moderni hanno largamente rigettato la condanna di Runciman delle crociate". Tuttavia, faceva notare Geminello Alvi sul Corriere della Sera nell’ottobre scorso, "si ripete l’identico livore dei libri dello storico Runciman. Tutti costernati per quant’erano civili gli arabi, invece venali e selvaggi i nostri antenati. Il politicamente corretto di sinistra lo prescriverà pure nelle propagande di una società multietnica. Prospera in tv, sui giornali, nelle accademie un’intellettualità sessantottina delle scoperte in ritardo". Non meno nefasta è stata l’influenza di Carl Erdmann, il brillante storico tedesco di "The origin of the idea of the Crusade". Questo classico apparve nel 1935 e voleva essere un attacco alla Germania nazista. Escluso dalle università tedesche, Erdmann fu spedito al fronte orientale, dove morì. Sostenne l’idea che con la prima crociata Urbano II era più interessato a "sguinzagliare una guerra ecclesiastica contro gli infedeli", in collaborazione con l’imperatore Enrico IV, che non alla restaurazione dei diritti cristiani e alla libertà di pellegrinaggi al Santo Sepolcro. Per Erdmann "l’empia alleanza del Papa e di Cesare non solo significò un tradimento dei vangeli, ma fu un presagio della guerra di sterminio razziale di Hitler". La letteratura ostile a tutta l’epopea crociata, a partire da Gibbon e Runciman, si radicò nell’immaginazione occidentale trovando vasta eco nella cultura popolare. Riccardo Cuordileone, Torquato Tasso, i romanzi di Walter Scott e i drammi di Paul Claudel sono stati ridotti al rango di pizzi elisabettiani da parte di una classe intellettuale impegnata, secondo Johnson, a screditare prima di tutto la guerra al terrorismo islamista. Uno di questi è Ridley Scott, regista di "Kingdom of Heaven", attraverso il suo finto eroe francese, Baliano II di Ibelin, arrivato in Terra Santa per una serie di fortuite coincidenze. Quello autentico, di origine italiana, era nato a Gerusalemme. La Terra Santa di Scott è una sorta di "Nuovo Mondo, una fratellanza di pensatori liberal", mentre Saladino viene ritratto in modo simpatizzante nei panni illuminati dell’attore siriano Ghassan Massoud. "Per gli islamisti che sognano la vittoria musulmana definitiva su ebrei e cristiani, il Saladino è il vero modello del guerriero, non il protoptipo di un segretario generale delle Nazioni Unite. Ma il film insiste nell’opporre l’immagine idealizzata del Saladino ai crociati sanguinosi, bevitori, venali e sopratto crito fanatici. Guy di Lusignano e Raimondo di Chatillon sono la caricatura di George W. Bush e Donald Rumsfeld, le sfortunate offerte di pace di Bill Clinton e Colin Powell sono incarnate da Balduino IV di Tiberiade". Lo sfondo del film è l’assedio di Gerusalemme. Baliano è un eroe molto democratico, "un cavaliere di tutte le fedi e di nessuna", combatte coraggiosamente affinché il Saladino accetti di negoziare la resa cristiana. Ai fedeli spiega che il Sepolcro non conta niente, quello che vuole è salvare vite umane. Il vescovo grida "blasfemia!", ma viene subito silenziato. Baliano chiede al Saladino: "Cos’è Gerusalemme?". Il sultano replica "niente", e dopo aggiunge un "tutto". La città si arrende senza lottare e quando Riccardo Cuordileone invita Baliano a prendere parte alla riconquista lui lo snobba, "fanatico". Una nuova generazione di storici è emersa negli ultimi anni, senza il gusto dei compulsivi capi d’accusa verso la cultura occidentale. Johnson fa i nomi del già menzionato Thomas Asbridge e di Jonathan Phillips, autore di un importante studio sulla quarta crociata. Bassi di tono, maggiormente attenti al potente "movimento dello spirito occidentale" che condusse alle crociate, entrambi sono arrivati in libreria dopo l’11 settembre. Sollecitano i musulmani al chiarimento senza per questo condannare o fare l’apologia dei crociati cristiani. "Il materialismo, decisivo nella letteratura dominante, era solo un fattore secondario; la maggior parte dei crociati si sacrificarono per qualcosa di più di quanto ottennero", aggiunge Johnson. Asbridge ha ricordato che ai crociati il passaggio a Gerusalemme costava cinque volte le loro entrate annuali. "Quando conquistarono la città di Antiochia e stabilirono un principato sulla strada per Gerusalemme, credevano semplicemente di riportare alla cristianità il luogo della prima chiesa di Pietro". Secondo Johnson "i crociati non erano nemmeno tanti da giustificare il concetto di colonizzazione di massa". Mezzo milione di europei parteciparono a sette crociate in due secoli, anni in cui la popolazione europea crebbe del cinquanta per cento, dai 48 milioni del 1100 ai 69 milioni del 1250. "Il costo umano delle campagne è stato insignificante rispetto all’annichilimento di Baghdad da parte dell’orda mongola di Hulagu nel 1258, che ne scacciò mezzo milione dalla città e pose fine al califfato abbaside, o paragonate al sacco di Gerusalemme del 1244 da parte dei turcomanni". L’altra affascinante tesi di Commentary è che i crociati hanno dato il là alla grande diffusione della cultura occidentale. "L’Europa ha dato i natali alla legge e allo Stato moderno, al libero mercato e alla Magna Carta, alle cattedrali gotiche e alla scolastica universitaria, a Dante e Tommaso d’Aquino, a una nuova spiritualità e a un primo rinascimento. Individualismo, empirismo, misticismo: sono tutti debitori della rivoluzione lanciata dai crociati". In termini economici, l’esistenza degli Stati d’oltremare in Terra Santa ha portato una prosperità incredibile alla Palestina e alla Siria come non si vedeva dai tempi dei romani. "E non solo per i cristiani, ma per ebrei e musulmani, come l’ultimo declino di queste province sotto dominio turco ha poi dimostrato". Johnson sostiene che le crociate sono state "una controffensiva di breve durata contro un’altra, molto più lunga, e molto più resistente guerra santa, il jihad islamico contro la cristianità. E mentre i crociati sono stati un fenomeno temporaneo di appena due secoli, il jihad è ed è stato un fenomeno permanente della vita islamica. Il jihad si è evoluto in una dottrina della giurisprudenza islamica come un prodotto della grande espansione araba dopo la morte del profeta Maometto". Ibn Khaldun, il più grande degli storici musulmani, ha comparato la guerra santa islamica a quella crociata: "Nella comunità musulmana, la guerra santa è un dovere religioso, a causa dell’universalismo della missione islamica e l’obbligo di convertire tutti all’islam con la forza o la persuasione. Gli altri gruppi religiosi non hanno missione e la guerra santa non era un dovere religioso ma di difesa". Lo stesso Kahldun capì che l’inarrestabile decadenza del mondo islamico sarebbe stata causata dalla sua inclinazione dispotica, in termini sia culturali sia economici. E nel XV secolo scrisse, in un passo memorabile che potrebbe essere scambiato per uno di Adam Smith, che "vessare la proprietà privata significa uccidere negli uomini la volontà di guadagnare di più riducendoli a temere che la spoliazione è la conclusione dei loro sforzi. Una volta privati della speranza di guadagnare, essi non si prodigheranno più. Gli attentati alla proprietà privata fanno crescere il loro avvilimento. La civiltà, il benessere e la prosperità pubblica dipendono dalla produttività e dagli sforzi che compiono gli uomini, in tutte le direzioni, nel loro proprio interesse e per il proprio profitto. Quando gli uomini non lavorano più per guadagnarsi la loro prosperità e cessa ogni attività lucrativa, la civiltà materiale deperisce e ogni cosa va di male in peggio". Una chiave di lettura magistrale per spiegare l’arretratezza del mondo arabo ricchissimo di materie prime. Secondo Johnson la maggior parte degli intellettuali occidentali non ha voluto né saputo cogliere quella distinzione di Khaldun, preferendogli il copione di un islam "tollerante e religiosamente quasi indifferente". Addirittura lo storico francese Fernand Braudel ha definito la cristianità "brutale, violenta e sotto il segno di un’assoluta ignoranza". Arnold Toynbee, nel suo "Racconto dell’uomo (1976) scrisse invece che "rapina, guerra e massacro furono alcuni dei sistemi con i quali Maometto portò l’islam alla vittoria. Gli stessi delitti erano stati compiuti anche dai cristiani, e, in misura minore, perfino dai buddisti, e analoghe imprese vengono attribuite, nelle scritture ebraiche, a Mosè e a Giosuè. Ma almeno i fondatori del buddismo e del cristianesimo non avevano offerto ai loro seguaci il cattivo esempio". E Denis Diderot nel 1759 scrisse che "il Corano è stato il solo libro della nazione araba per molti secoli. Sono stati bruciati gli altri, o perché erano superflui, se c’era quel che si trovava nel Corano, o perché erano perniciosi, se contenevano qualcosa che non c’è. E’ stato dopo questo ragionamento che per sei mesi i bagni di Alessandria sono stati scaldati con le opere dei tempi antichi". Paragonate ai tre assalti islamici al cuore della cristianità (arabo, tartaro e turco), le sette spedizioni crociate secondo Johnson sono state "una risposta molto limitata", tesi confermata da Bernard Lewis. "Le crociate erano la reazione a specifiche umiliazioni, come la distruzione parziale del Santo Sepolcro da parte del califfo Hakim nel 1009". Il sermone di Urbano II durante il concilio di Clermont del 1095, che tanto elettrizzò la cristianità, fu una risposta ai massacri saraceni ai danni dei pellegrini. "E fu forse puerile l’altro Papa, Sisto IV, a indire una nuova crociata quando i turchi presero Otranto, nel 1480, e decapitarono ottocento persone che non volevano convertirsi?". E la seconda crociata che discese al largo del Portogallo e nel 1147 tolse Lisbona ai musulmani, fu proprio un male per quello che siamo oggi? "In breve i tanti scopritori di libri in ritardo che avversano le crociate – ha scritto Alvi – come possono tacere il bene che fecero all’occidente?". Raimondo conte di Tolosa era un latifondista più ricco persino del re di Francia, ma a cinquantacinque anni lasciò le sue ricchezze per concludere la sua vita al servizio di Gerusalemme. Secondo Johnson erano i cristiani in generale a sentirsi minacciati: i saraceni saccheggiarono Roma nell’845 e la loro base siciliana venne ripresa solo quarant’anni dopo la prima crociata. "Il sacco di Costantinopoli non può essere giustificato, ma era stato provocato". E’ vero, aggiunge Johnson, che "Urbano II disumanizzò culturalmente i musulmani come ‘razza aliena a Dio’, ma più significativo a lungo termine fu che i crociati, stabilendo rotte verso le comunità oltremare, costrinsero i francesi a familiarizzare con la cultura islamica, come i normanni fecero nella Sicilia saracena e gli spagnoli e i portoghesi nell’Iberia dei mori". Federico II coltivò l’architettura, la scienza e la filosofia in un milieu tutto arabo. "La coesistenza fra arabi e crociati in medio oriente rimase possibile fino a che la minaccia esterna dei mongoli non radicalizzò l’islam". L’ascesa dei turchi mammelucchi sancì lo sterminio dei templari. "Da quando al Qaida ha dichiarato guerra all’occidente, i crociati sono stati espulsi dalla nostra coscienza a favore dell’islam. L’invocazione islamista ai crociati ha oggi due scopi: compattare i musulmani nella causa del jihad contro la civiltà giudaico-cristiana e indebolire la legittimità della resistenza al jihad. "I cristiani europei tifano per i musulmani anziché per Bush o Sharon. Così fanno le élites europee, ma anche certi accademici americani, intellettuali e portavoci delle ‘chiese’ dominanti". Gli islamici sanno perfettamente come sfruttare il peccato post-cristiano e post-imperiale, vero tallone d’achille dell’occidente". Sono riusciti a trasformarsi in una reazione all’aggressione occidentale. Nella letteratura islamica lo Stato d’Israele è la reincarnazione del regno medievale di Gerusalemme e il sionismo la moderna manifestazione dell’impulso imperialista crociato. Per questo, conclude Daniel Johnson, "quando gli occidentali deprecano i crociati mandano un messaggio in codice sia a Israele sia al mondo islamico. Il messaggio dice che semplicemente come occidentali, in particolare come cristiani, non sono pronti a difendere i loro progenitori e lo Stato ebraico, così come la liberazione dell’Iraq". Fino a che i crociati saranno interpretati per il consumo popolare, c’è un serio pericolo che trionfi la storiografia della scuola di al Qaida. Sono parte integrante della storia occidentale, certamente "anche un casus belli, e lo rimarranno fino a che farà comodo agli islamici. Ma sul fronte culturale della guerra al terrorismo un pezzo della nostra storia se ne è andata disastrosamente nella direzione di un disarmo unilaterale". Giulio Meotti ripropone anche in un breve articolo "La profezia di Lévi strauss sull'islam"
Ecco il testo: Nell’ottobre del 2002, in un’intervista al francese Nouvel Observateur, Claude Lévi–Strauss disse che "siamo contaminati dall’intolleranza islamica". Ma il grande antropologo francese aveva consegnato le sue intuizioni più acute sull’islam a "Tristi tropici", il suo libro più celebrato del lontano 1955. Si dice che solo nel 1989 avesse preso atto dell’attacco islamico all’occidente. Una mezza verità, per credere leggere le ultime pagine di questo libro lirico e struggente e capire che Lévi-Strauss era consapevole fin dall’inizio della frattura insanabile. Contiene parole vereconde e terribili, purtroppo dimenticate anche come semplice segno ammonitore: "L’islam ci ha islamizzati. Sul piano morale ci si trova di fronte all’equivoco di una tolleranza ostentata, a danno di un proselitismo il cui carattere compulsivo è chiaro. Il contatto dei non-musulmani li mette in angoscia. Il loro genere di vita provinciale si perpetua sotto la minaccia di altri generi di vita, più liberi e più facili del loro". Questo gigante del pensiero occidentale ha avuto il dono di capire lo spirito islamico contemplando tombe ("le uniche cose che hanno lasciato in India") e mausolei, abolizione della sensualità e abluzioni rituali, promiscuità maschile nella vita spirituale e passagggio immediato dell’arte islamica iconoclastica "dal palazzo al bazar", ma soprattutto: "Niente donne". "Il Profeta li ha condannati a una situazione di crisi permanente, che risulta dalla contraddizione fra la portata universale della rivelazione e l’ammissione della pluralità delle fedi religiose (...) Tutto l’islam sembra un metodo per produrre nello spirito dei credenti conflitti insormontabili. Con una mano li si spinge, con l’altra li si trattiene sull’orlo dell’abisso. Vi preoccupate per la virtù delle vostre spose o delle vostre figlie mentre siete fuori città? Niente di più semplice, velatele e chiudetele in un chiostro". Così si arriva al burkha moderno, "simile a un apparecchio ortopedico". Se un corpo di guardia potesse essere religioso, l’islam sarebbe la sua religione ideale, ironizza Lévi-Strauss. "Quegli ansiosi sono anche degli uomini d’azione; presi fra sentimenti incompatibili, compensano l’inferiorità di cui risentono con delle forme tradizionali di sublimazione associate da sempre all’anima araba: gelosia, fierezza, eroismo". Di fronte alla benevolenza universale del buddismo, al desiderio cristiano del dialogo, l’intolleranza musulmana secondo Lévi-Strauss fa sì che "il solo modo per essi di mettersi al riparo dal dubbio e dall’umiliazione consiste in un annientamento di questo prossimo. L’islam è rimasto cristallizzato nella contemplazione di una società che era reale sette secoli fa. L’islam ha tagliato in due un mondo più civile. Vive in uno spostamento millenario". Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.