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Il Foglio Rassegna Stampa
13.07.2005 Contro il pensiero unico della resa al nemico islamista
smascherare i luoghi comuni sulla guerra al terrorismo e quelli sulle crociate, ricordare la profezia di un grande antropologo e la "colpevole demenza" dei pacifisti nel 1940

Testata: Il Foglio
Data: 13 luglio 2005
Pagina: 2
Autore: Carlo Panella - Giulio Meotti
Titolo: «Vademecum dei luoghi comuni che non reggeranno al jihad - Viva viva il feroce Saladino! - La profezia di Lévi Strauss sull'islam»
A pagina 2 dell'inserto IL FOGLIO di mercoledì 13 luglio 2005 pubblica un articolo di Carlo Panella sui falsi luoghi comuni politicamente corretti sulla guerra al terrorismo.

Ecco il testo:

IL TERRORISMO NON SI SCONFIGGE CON LA GUERRA

La prima grande offensiva del terrorismo
islamico non si scatena né in Afghanistan,
né in Iraq, ma in Algeria, nei primi anni
90. Sempre ignorata dai dotti analisti politicamente
corretti e dai pacifisti, l’esperienza
algerina dimostra che il primo obiettivo
del terrorismo islamico sono i governi
musulmani e che può essere sconfitto, come
è stato sconfitto in Algeria, solo con una
vera e propria guerra: dispiegamento dell’esercito,
occupazione militare del territorio;
rastrellamenti, coprifuoco, bombardamenti
aerei dei "santuari", lanci di paracadutisti,
assedio di città e anche "guerra
sporca". Il terrorismo maghrebino dimostra
che non è affatto vero che il terrorismo
islamico nasce in reazione all’imperialismo
americano o a Israele. Il governo contro cui
il Gia e le altre organizzazioni islamiche levano
le armi è il simbolo stesso della lotta
anticoloniale in Africa, è sempre stato la
"punta di diamante" del fronte antimperialista,
dei "paesi non allineati", del
"Fronte del Rifiuto" contro Israele. E’ l’unico
governo arabo ideologicamente "laico"
(non è così né per i governi nasseriani
o baathisti, che sono però intrisi di cultura,
ideologia e religione islamica, e che vengono
erroneamente definiti laici soltanto perché
gestiti dal corpo militare, non dagli ulema
dell’islam).
L’unica, grande differenza tra la strategia
addottata dagli algerini – apertamente e
materialmente aiutati dalla Francia di Mitterrand
e poi di Chirac – e quella degli
americani in Iraq è politica. In Algeria le
azioni di vera e propria guerra protratte
per otto anni, puntano a ristabilire un quadro
di comando dittatoriale del Fln che era
stato spessamente sconfitto nelle urne nelle
prime elezioni democratiche del ’90-’91.
La Francia e l’Unione europea offrono una
piena copertura politica – e anche molti
aiuti militari – all’annullamento di regolari
elezioni parlamentari; così s’innesca la
rivolta terrorista di massa, in un processo
che si conclude con il ripristino del governo
militare autoritario del Fln. In Iraq, invece,
la strategia americana è opposta e la
guerra punta a costruire le condizioni per
le prime elezioni democratiche. Obiettivo
già raggiunto il 30 gennaio scorso e ora consolidato
con la trattativa con le organizzazioni
sunnite che allora avevano chiamato
al boicottaggio del voto.
L’esperienza algerina, con i suoi 150.000
morti e i suoi "desaparecidos" (dell’una e
dell’altra parte; Guantanamo è un college
svizzero rispetto alle carceri algerine, che i
"consulenti" europei perfettamente conoscono),
insegna anche che il radicamento
del terrorismo islamico è tale che non è
possibile estirparlo del tutto, che il suo essere
parte del corpus religioso del paese lo
cronicizza. Oggi, in Algeria, la cadenza degli
attentati e degli scontri militari produce
una media di 900 morti l’anno (ignorati dalla
stampa, dagli "esperti", dai pacifisti), ma
la vittoria politico-militare sul terrorismo
pare ormai consolidata.

LA DEMOCRAZIA NON SI ESPORTA CON LA GUERRA

Ovviamente questo postulato è intimamente
legato al precedente. Il solo problema
è che è storicamente falso. Nel corso di
tutto il Novecento, solo una democrazia è
sbocciata all’esterno di un contesto bellico:
quella spagnola alla morte di Franco. In
tutti gli altri casi, inclusa la democrazia coreana,
al centro del processo di democratizzazione
vi è una iniziativa bellica, sempre
gestita peraltro (a eccezione del Portogallo
del 1974) dagli Stati Uniti. E’ questo
un boccone amaro da digerire per la cultura
pacifista, no global e di derivazione comunista,
ma i fatti stanno a dimostrare che
l’utopia strategica americana definita per
la prima volta dal presidente Woodrow Wilson
– con tutti i suoi limiti, le sue contraddizioni,
anche i suoi pasticci – ha segnato
tutto il ventesimo secolo e tende a segnare
anche il ventunesimo. Questa strategia lega
la "sicurezza nazionale" degli Stati Uniti all’allargamento
dell’area della democrazia
nel globo. Questo a partire non tanto e non
solo da una convinzione ideologica, ma da
una realpolitica considerazione materiale:
ogni sistema totalitario – sia esso nazista,
fascista, nippo-scintoista, comunista, fondamentalista
islamico – è destinato ad attentare
alla "sicurezza nazionale" degli
Stati Uniti.
Lo schema di fondo applicato da George
W. Bush in Iraq è quello wilsoniano di tutto
il secolo precedente, rinvigorito (lo ricordi
Walter Vetroni) da J. F. Kennedy: appoggiarsi
alle forze democratiche di un
paese per permettere loro di instaurare un
regime democratico che sostituisca quello
totalitario abbattuto manu militari. E’ questo
lo schema della Prima e della Seconda
guerra mondiale, della Guerra fredda e oggi
della guerra al totalitarismo islamico. In
Afghanistan queste forze democratiche sono
state individuate nell’Alleanza del
Nord, in Iraq dalle forze che reggono il
nuovo governo democratico di Baghdad.
Tutti i leader che oggi sono al vertice dell’Iraq
(il presidente Jalal Talabani, il premier
Ibrahim Jaafari, l’ex premier Iyyad
Allawi, il leader sciita Abdulaziz al Hakim,
Ahmed Chalabi e altri) hanno partecipato
a Washington nell’agosto 2002 alla prima
delle tante riunioni in cui questo nucleo
democratico è stato formalmente riconosciuto
dall’Amministrazione Bush. Il 30
gennaio 2005, con la straordinaria partecipazione
popolare al voto nonostante la minaccia
terrorista, ha gettato vergogna e onta
su tutte quelle forze politiche – tutti i pacifisti,
tutto il centrosinistra italiano, tutti
gli chiracchiani d’Europa – che non hanno
saputo comprendere che i democratici iracheni,
su cui l’Amministrazione americana
sin dall’inizio ha puntato, godevano e godono
di una straordinaria corrispondenza nel
popolo iracheno, pronto a rischiare la morte
per mettere in un’urna il loro voto per
questa loro leadership.
Naturalmente questo non vuol dire che
gli Stati Uniti, nel corso del Novecento, non
abbiano commesso straordinari errori (le
Amministrazioni democratiche di Kennedy
e Johnson, nell’applicare questo schema
scatenando la guerra del Vietnam si appoggiano
su una leadership sudvietnamita
cattolica – ereditata dalla Francia – assolutamente
inadeguata, non democratica e
questo errore è la causa principale della
sconfitta della "vietnamizzazione"), né che
non abbiano compiuto scelte nefaste, antidemocratiche
e imperialiste, innanzitutto
in America Latina (tutte riparate, peraltro,
a partire dall’Amministrazione Reagan,
che dal 1980 in poi, ha accompagnato e favorito
la democratizzazione di tutto il continente).
Anche l’appoggio cinquantennale ai regimi
autoritari in medio oriente (con gli
straordinari profitti in termini economici e
di potere conseguenti) rientra in questo
schema. Gli Stati Uniti vi hanno sofferto anche
umiliazioni militari cocenti (come la
morte di 225 marines uccisi assieme a 180
parà francesi in un attentato a Beirut il 24
ottobre 1983, seguita dal ritiro dell’intero
contingente, senza alcuna ritorsione) sino a
quando non hanno ritenuto che la loro "sicurezza
nazionale" fosse in pericolo. Con
l’11 settembre 2001 essa è stata violata e gli
Stati Uniti hanno applicato la loro dottrina
ormai secolare: guerra per favorire la democrazia.
La grande differenza con l’Europa
è tutta qui. Come dimostra la Madrid di
Zapatero, come dimostra la politica dell’asse
franco-tedesco e delle sinistre pacifiste,
la "vecchia Europa" non ritiene che la propria
"sicurezza nazionale" sia in pericolo.
Non ritiene dunque che valga la pena di
elaborare alcuna strategia che vada oltre il
mantenimento dello status quo (senza neanche
accorgersi, peraltro, che esso aveva un
senso soltanto nella logica della contrapposizione
bipolare e quindi della deterrenza
atomica che ne era la conseguenza).
In Europa è radicata la convinzione che
le vittime potenziali degli attentati islamici
siano soltanto gli americani e gli israeliani
e neanche la successione dei rapimenti dei
giornalisti più antiamericani e antisraeliani
che si possano immaginare in Iraq la
scalfisce. Come durante la drôle de guerre,
si pensa che sia sufficiente fare il viso dell’arme
e che, a un certo punto, l’aggressore,
pasciuto delle sue conquiste, si fermerà.
Si pensa che sia sufficiente stare fermi e
il nemico non ti attaccherà.
Sempre di Carlo Panella un corsivo che propone un paragone storico molto appropriato.

Ecco il testo:

Nell’agosto 1940 Arthur Koestler, appena giunto avventurosamente a Londra, annota esterrefatto
la cosa che più lo impressiona e inquieta. Non la ferocia indiscriminata dei bombardamenti
della Luftwaffe, non l’eccellente capacità degli inglesi di reggere la prova. No. La
cosa che lo atterrisce, in cui vede riassunta tutta la follia di quei giorni è un’altra. E’ la parola
d’ordine, la consegna ai militanti che campeggia sulla prima pagina del giornaletto distribuito
dal miniscolo Partito comunista: "Non partecipiamo alle attività di soccorso della popolazione
civile colpita dai bombardamenti! Non condividiamo la responsabilità della guerra imperialista
condotta dalla Gran Bretagna contro la Germania!". Vige il patto tra Hitler e Stalin, ed è
ovvio e normale che – mentre l’Urss riconsegna alle Ss gli antinazisti tedeschi perché vengano
trucidati – il Pc britannico esalti in questo modo folle la propria scelta pacifista.
Costretti oggi al ricordo angoscioso di quei giorni londinesi del 1940, possiamo cogliere l’occasione
per ricordare altri avvenimenti di quell’anno, oltre la colpevole demenza dei pacifisti di
allora. Koestler, quando annota questo episodio, è appena scampato, assieme a Leo Valiani (divenuto
nell’occasione suo amico), alla deportazione nella Germania nazista, dopo un breve periodo
di prigionia nel campo di concentramento del Vernet nella Francia appena conquistata
da Hitler. Il suo amico, il comunista Willi Mýnzenberg, inventore della disinformatja comunista
sui media tedeschi e francesi, è stato trucidato dai suoi stessi compagni durante la fuga. Parigi
è appena caduta. La drôle de guerre, la guerra stupida, è finita così, come non poteva non finire.
Chi oggi, con ossessiva ripetitività e con saccenza, sottolinea gli errori infiniti accumulati dagli
americani nella guerra in Iraq farebbe bene a ricordarsi degli errori compiuti dalle democrazie
antinaziste in guerra in quell’incredibile periodo che va dal 3 settembre 1939 al 14 giugno
1940 (quando Parigi cade), la drôle de guerre, appunto. Vi è infatti un formidabile punto di contatto
politico tra questi due scenari: lo scabroso rapporto tra l’efficienza bellica e la natura democratica
di governi che contrastano sul terreno un feroce totalitarismo (efficientissimo) avendo
però sempre un limite: la necessità del consenso del popolo, quello in divisa e quello delle retrovie,
delle città. Con le fucilazioni in massa dei reparti renitenti all’attacco e dei disertori ordinate
nel 1917 da Pètain sulla Marna e da Diaz a Caporetto si è chiusa la fase degli eserciti sottoposti
alla gerarchia. Da allora in poi, dopo quei traumi e le loro conseguenze, nelle democrazie,
esercito e società civile diventano un tutt’uno inscindibile, e strategia e tattica militare ne
devono tenere conto, addirittura si devono ispirare a questo limite.
Durante i lunghi nove mesi che separano il 1939 e il 1940, dunque, un corpo di spedizione inglese
di 300 mila uomini e tutto l’esercito francese se ne stanno appiattiti dietro la linea Maginot,
praticamente senza sparare un colpo, mentre Hitler si annette tranquillamente la Polonia,
la Norvegia e la Danimarca e Stalin, suo alleato, si mangia la Finlandia e la sua parte di Polonia.
L’immensa, fantastica, linea Maginot altro non è se non la concretizzazione militare, strategica,
architettonica dello "spirito di Monaco", dell’atteggiamento rinunciatario, statico, opportunista
delle democrazie nei confronti dell’aggressività del totalitarismo. E’ un infinito serpente-
bunker di cemento armato, con centinaia di casematte profonde sottoterra tre-quattro
piani, ininterrottamente steso per centinaia di chilometri di frontiera, con i suoi cannoni puntati
oltre il Reno, con i suoi treni sotterranei, con la sua straordinaria inutilità, è dunque il monumento
dimenticato alla debolezza della democrazia in guerra. E’ immensa, ma ha due difetti:
prevede che il nemico debba per forza attaccare di fronte, non di lato, non dalle spalle e quindi
non ha feritoie sul lato posteriore. Hitler, semplicemente, attacca di lato – dal Belgio sguarnito
– prende, senza colpo ferire, la linea Maginot da dietro. Una nuova onta per la Francia. Oggi,
con uno straordinario contrappasso, i bunker della Maginot ospitano immense coltivazioni
di champignons.
Quei nove mesi di drôle de guerre, riassumono – ben più dello "spirito di Monaco" – il punto
nodale di tutti gli errori, i dogmi, le false certezze, delle false strategie conseguenti, che le democrazie
pagano a se stesse quando entrano in guerra. Si rilegga l’atmosfera sfatta che emana dalle
pagine di "Le mur", di Jean-Paul Sartre, sulla vischiosa e indolente mobilitazione dei coscritti
della provincia francese per la guerra che pareva imminente nel ’38, poi rinviata a Monaco, nel
tripudio del "popolo della pace", e si avrà la sensazione quasi tattile dell’impaccio per un governo
democratico a convincere i propri cittadini a scannarsi in guerra. Un impaccio che produce
false idee, falsi miti, rocciose certezze sul nemico e sulle sue caratteristiche che tutte – per
un verso o per l’altro – conducono alla "drôle de guerre", agli errori strategici e tattici dei quartieri
generali, alla guerra proclamata, mobilitata, addirittura col popolo in armi alle frontiere…
ma non combattuta.
Questo stesso clima, questi stessi profondi, intricati nodi politici, segnano oggi la guerra al terrorismo.
Una guerra che vede la Francia (questa volta accompagnata dalla Germania), di nuovo
arroccata dietro una nuova, immaginaria linea Maginot costituita dalla roboante sua "politique
arabe", che subito si rivela altrettanto aggirabile quanto i bunker di allora. Uno scontro
in cui – di nuovo – gli inglesi sono generosamente impegnati a non far perdere la faccia all’Europa
libera, saldamente ancorati alla loro vocazione atlantica, in compagnia di pochi altri: l’Italia
di Silvio Berlusconi e i paesi appena liberati da un’altra guerra non combattuta dalla
Francia, la Guerra fredda, contro il totalitarismo sovietico.
Queste le baggianate che accompagnano la nuova drôle de guerre contro il terrorismo della
"vecchia Europa".
a pagina 1 dell'inserto l'articolo di Giulio Meotti "Viva viva il feroce Saladino!", che spiega perché "La deprecazione delle crociate è un messaggio in codice. Di resa"
"Morendo, Cristo lascia quattro chiodi,
Maometto sette spade " (Victor Hugo,
1857)

Nello Zanichelli è chiamato affettuosamente
"sovrano saggio d’Egitto".
Ma chi fosse veramente il Saladino, il
curdo conquistatore di Gerusalemme
che riunì un mondo islamico a lungo diviso
fra califfati rivali, lo si capisce dalle
parole del suo segretario, Imad Eddin,
che descrisse così la scena dei templari
trucidati ad Hattin: "Egli (Saladino)
ordinò che essi dovessero decapitarsi,
preferendo averli morti che in prigione.
Con lui c’era gran schiera di eruditi
e di sufi e un certo numero di uomini
devoti e asceti; ognuno di loro supplicò
che gli fosse permesso di ucciderne
uno e sguainare la sua spada. Saladino,
gioendo in viso, stava seduto sul
suo baldacchino; i miscredenti mostravano
nera disperazione".
Senior editor del Daily Telegraph e
columnist del New York Sun, Daniel
Johnson ha scritto per il nuovo numero
di Commentary un saggio su come
pensare le crociate alla luce della
guerra al terrorismo islamico. E’ uno
scritto discutibile ma non eludibile,
importante non soltanto per la rara forza
intellettuale che lo trascina e la tensione
storiografica che lo sorregge, ma
perché è stato pubblicato dalla rivista
dell’American Jewish Committe. E sappiamo
quale buco nero siano le crociate
nella memoria ebraica. La tesi di
Johnson è che la cultura occidentale
ha tradito e colpevolizzato il suo passato
tragico e glorioso, ha nutrito e pasciuto
la sua coscienza infelice attraverso
una vergognosa storiografia che
ha evirato la verità del secolare scontro
fra occidente e mondo islamico e
ha disinformato a vantaggio di questo’ultimo
rinunciando a un fondamentale
strumento nella comprensione del
jihad che c’è stato dichiarato. Per i crociati
non vale nemmeno il detto: "De
mortuis nihil nisi bonum".
"Agli occhi della maggior parte dei
cristiani i crociati sono stati un crimine
contro l’umanità. La condanna dei crociati
è basata sulla premessa che era
una guerra barbara, di sterminio e di
conquista, scagliata contro una civiltà
superiore e incomparabilmente più tollerante".
Oggi, spiega Johnson, "gli Stati
Uniti sono identificati dai suoi critici,
soprattutto in Europa, con il fanatismo
religioso e la rapacità militare dei crociati".
Lo scrittore premio Nobel Günter
Grass, subito dopo la detronizzazione di
Saddam Hussein, scrisse contro il "fondamentalismo
religioso", il "declino
morale" e la "follia organizzata" di Washington
e invitò Giovanni Paolo II, "che
conosce le devastazioni causate dalla
mentalità e dalle azioni dei cristiani
crociati", a fare apologia verso il mondo
islamico.
La prima crociata fu lanciata nel
1095 per ristabilire il controllo sul Santo
Sepolcro di Gerusalemme. I crociati
fondarono numerosi Stati "oltremare",
che sono durati per più di due secoli.
"La battaglia sanguinosa e incessante
per difendere questi insediamenti isolati
contro l’ascesa dell’aggressione musulmana
avrebbe cambiato il corso della
storia", scrive Thomas Asbridge in
"The first crusade" (2004). Nel 1204 la
quarta crociata saccheggiò Costantinopoli
e stabilì l’impero latino negli ex
territori bizantini. Sopravvisse fino al
1261, quando i greci riconquistarono la
capitale. Con la caduta di Acri nel 1291,
il regno di Gerusalemme si ritirò a Cipro,
difesa per stabilire dei "bastioni
della cristianità nel Mediterraneo". Per
gli ebrei la prima crociata fu un disastro,
con il massacro di tre comunità renane.
La memoria di quelle giornate è
conservata in tre narrazioni e nella recitazione
di una preghiera ebraica annuale.
La seconda crociata, plasmata
dal "grande genio religioso" di Bernardo
di Chiaravalle, finì per includere
una guerra all’eresia sul suolo europeo.
La riconquista cristiana della penisola
iberica, che nel 1257 ridusse il dominio
dei mori, rientrò nell’ideale della crociata.
La colonizzazione delle terre slave
condotta dai templari fu modellata
sull’esempio dei cavalieri dislocati in
Terra Santa.
La cronistoria di Johnson è ineccepibile:
dal grido di Simone di Monfort
("Bruciateli tutti, Dio riconoscerà i
suoi") in occasione del massacro degli
eretici albigesi, alla frattura sanguinosa con
i cristiani ortodossi, fino al crollo bizantino
che aprì la strada all’islamizzazione
dell’Europa. "Per il mondo islamico,
la perdita di Gerusalemme è stata
un trauma catartico. Sebbene altre
invasioni, come quella mongola del XIV
secolo, fossero state molto più distruttive
per la civiltà musulmana, non c’è
dubbio che i crociati sono collocati molto
più profondamente nella memoria
collettiva islamica, incorporati in una
narrativa che provvede alla crescente
disparità fra islam e occidente a partire
dal XVIII secolo".
Ma la domanda che interessa Johnson
e il lettore occidentale dopo i massacri
di New York, Madrid e Londra è
un’altra: cosa hanno da dire oggi gli storici
sulle crociate? "La narrativa dominante
è nata dalla critica illuministica e
dall’assalto alla religione, a quella cattolica
in particolare". Un solo esempio,
il magistrale Edward Gibbon. "Secondo
lo storico britannico l’unico merito dei
crociati è stato quello di aver indebolito
il dominio del feudalesimo europeo".
Per il resto "queste guerre sante", scrive
Gibbon, "hanno arrestato piuttosto
che accelerato la maturità dell’Europa.
Le vite e il lavoro di milioni di uomini
seppelliti a oriente sarebbero state più
utili nel progresso della loro nazione
d’origine". E Gibbon continua con un inno
al sincretismo pacifico, ai profumi
orientaleggianti e alla goffaggine europea
rispetto all’eleganza araba. Si racconta
che un barone, invitato a colazione
dal Saladino, puzzava a tal punto che
venne preso dai paggi del sultano per
farlo lavare. Iniziò a urlare perché aveva
paura che lo spellassero vivo.
Non è un caso che i tre volumi di Sir
Steven Runciman, la bibbia della storiografia
crociata adottata dalle università
di mezzo mondo, siano stati pubblicati
negli anni della decolonizzazione
del medio oriente. Il senso di colpa era
un ottimo combustibile. "La maggior
parte degli storici delle crociate le hanno
giudicate attraverso il prisma della
recente storia europea". Runciman ha
enfatizzato le sofisticazioni della civilizzazione
bizantina, biasimato i latini e
incarnato quanto di peggio si annidava
nel "pessimismo dell’upper class inglese".
Runciman ha trascorso la Seconda
guerra mondiale a Instanbul come professore
di arte bizantina, decise di scrivere
sulle crociate, "un soggetto che detestava",
solo per "rieducare gli inglesi".
"Quando dichiarò che il movimento
crociato era stato un fiasco, rifletteva lo
spirito della campagna di Suez".
Thomas F. Madden, curatore del libro
"The Crusades", (Oxford, 2002), ha
fatto notare che "la ‘Società per gli studi
dei crociati’ è un’organizzazione che
ha 480 membri in 30 nazioni. Molte centinaia
di studi sono pubblicati ogni anno.
Il risultato è che ora noi sappiamo
più sulle crociate e i crociati di quanto
si sia mai saputo prima. Gli studiosi moderni
hanno largamente rigettato la
condanna di Runciman delle crociate".
Tuttavia, faceva notare Geminello Alvi
sul Corriere della Sera nell’ottobre
scorso, "si ripete l’identico livore dei libri
dello storico Runciman. Tutti costernati per quant’erano civili gli arabi,
invece venali e selvaggi i nostri antenati.
Il politicamente corretto di sinistra
lo prescriverà pure nelle propagande
di una società multietnica. Prospera in
tv, sui giornali, nelle accademie un’intellettualità
sessantottina delle scoperte
in ritardo".
Non meno nefasta è stata l’influenza
di Carl Erdmann, il brillante storico tedesco
di "The origin of the idea of the
Crusade". Questo classico apparve nel
1935 e voleva essere un attacco alla Germania
nazista. Escluso dalle università
tedesche, Erdmann fu spedito al fronte
orientale, dove morì. Sostenne l’idea
che con la prima crociata Urbano II era
più interessato a "sguinzagliare una
guerra ecclesiastica contro gli infedeli",
in collaborazione con l’imperatore Enrico
IV, che non alla restaurazione dei
diritti cristiani e alla libertà di pellegrinaggi
al Santo Sepolcro. Per Erdmann
"l’empia alleanza del Papa e di
Cesare non solo significò un tradimento
dei vangeli, ma fu un presagio della
guerra di sterminio razziale di Hitler".
La letteratura ostile a tutta l’epopea
crociata, a partire da Gibbon e Runciman,
si radicò nell’immaginazione occidentale
trovando vasta eco nella cultura
popolare. Riccardo Cuordileone, Torquato
Tasso, i romanzi di Walter Scott e
i drammi di Paul Claudel sono stati ridotti
al rango di pizzi elisabettiani da
parte di una classe intellettuale impegnata,
secondo Johnson, a screditare
prima di tutto la guerra al terrorismo
islamista. Uno di questi è Ridley Scott,
regista di "Kingdom of Heaven", attraverso
il suo finto eroe francese, Baliano
II di Ibelin, arrivato in Terra Santa per
una serie di fortuite coincidenze. Quello
autentico, di origine italiana, era nato
a Gerusalemme. La Terra Santa di
Scott è una sorta di "Nuovo Mondo, una
fratellanza di pensatori liberal", mentre
Saladino viene ritratto in modo simpatizzante
nei panni illuminati dell’attore
siriano Ghassan Massoud.
"Per gli islamisti che sognano la vittoria
musulmana definitiva su ebrei e
cristiani, il Saladino è il vero modello
del guerriero, non il protoptipo di un segretario
generale delle Nazioni Unite.
Ma il film insiste nell’opporre l’immagine
idealizzata del Saladino ai crociati
sanguinosi, bevitori, venali e sopratto crito
fanatici. Guy di Lusignano e Raimondo
di Chatillon sono la caricatura di
George W. Bush e Donald Rumsfeld, le
sfortunate offerte di pace di Bill Clinton
e Colin Powell sono incarnate da Balduino
IV di Tiberiade". Lo sfondo del
film è l’assedio di Gerusalemme. Baliano
è un eroe molto democratico, "un cavaliere
di tutte le fedi e di nessuna",
combatte coraggiosamente affinché il
Saladino accetti di negoziare la resa cristiana.
Ai fedeli spiega che il Sepolcro
non conta niente, quello che vuole è salvare
vite umane. Il vescovo grida "blasfemia!",
ma viene subito silenziato. Baliano
chiede al Saladino: "Cos’è Gerusalemme?".
Il sultano replica "niente",
e dopo aggiunge un "tutto". La città si
arrende senza lottare e quando Riccardo
Cuordileone invita Baliano a prendere
parte alla riconquista lui lo snobba,
"fanatico".
Una nuova generazione di storici è
emersa negli ultimi anni, senza il gusto
dei compulsivi capi d’accusa verso la
cultura occidentale. Johnson fa i nomi
del già menzionato Thomas Asbridge e
di Jonathan Phillips, autore di un importante
studio sulla quarta crociata.
Bassi di tono, maggiormente attenti al
potente "movimento dello spirito occidentale"
che condusse alle crociate, entrambi
sono arrivati in libreria dopo
l’11 settembre. Sollecitano i musulmani
al chiarimento senza per questo condannare
o fare l’apologia dei crociati
cristiani. "Il materialismo, decisivo nella
letteratura dominante, era solo un
fattore secondario; la maggior parte dei
crociati si sacrificarono per qualcosa di
più di quanto ottennero", aggiunge
Johnson. Asbridge ha ricordato che ai
crociati il passaggio a Gerusalemme costava
cinque volte le loro entrate annuali.
"Quando conquistarono la città
di Antiochia e stabilirono un principato
sulla strada per Gerusalemme, credevano
semplicemente di riportare alla
cristianità il luogo della prima chiesa
di Pietro".
Secondo Johnson "i crociati non erano
nemmeno tanti da giustificare il concetto
di colonizzazione di massa". Mezzo
milione di europei parteciparono a
sette crociate in due secoli, anni in cui
la popolazione europea crebbe del cinquanta
per cento, dai 48 milioni del 1100
ai 69 milioni del 1250. "Il costo umano
delle campagne è stato insignificante rispetto
all’annichilimento di Baghdad da
parte dell’orda mongola di Hulagu nel
1258, che ne scacciò mezzo milione dalla
città e pose fine al califfato abbaside,
o paragonate al sacco di Gerusalemme
del 1244 da parte dei turcomanni". L’altra
affascinante tesi di Commentary è
che i crociati hanno dato il là alla grande
diffusione della cultura occidentale.
"L’Europa ha dato i natali alla legge e
allo Stato moderno, al libero mercato e
alla Magna Carta, alle cattedrali gotiche
e alla scolastica universitaria, a Dante e
Tommaso d’Aquino, a una nuova spiritualità
e a un primo rinascimento. Individualismo,
empirismo, misticismo: sono
tutti debitori della rivoluzione lanciata
dai crociati". In termini economici,
l’esistenza degli Stati d’oltremare in Terra Santa ha portato una prosperità
incredibile alla Palestina e alla Siria
come non si vedeva dai tempi dei romani.
"E non solo per i cristiani, ma per
ebrei e musulmani, come l’ultimo declino
di queste province sotto dominio turco
ha poi dimostrato".
Johnson sostiene che le crociate sono
state "una controffensiva di breve
durata contro un’altra, molto più lunga,
e molto più resistente guerra santa, il
jihad islamico contro la cristianità. E
mentre i crociati sono stati un fenomeno
temporaneo di appena due secoli, il
jihad è ed è stato un fenomeno permanente
della vita islamica. Il jihad si è
evoluto in una dottrina della giurisprudenza
islamica come un prodotto della
grande espansione araba dopo la morte
del profeta Maometto". Ibn Khaldun,
il più grande degli storici musulmani,
ha comparato la guerra santa islamica
a quella crociata: "Nella comunità musulmana,
la guerra santa è un dovere
religioso, a causa dell’universalismo
della missione islamica e l’obbligo di
convertire tutti all’islam con la forza o
la persuasione. Gli altri gruppi religiosi
non hanno missione e la guerra santa
non era un dovere religioso ma di difesa".
Lo stesso Kahldun capì che l’inarrestabile
decadenza del mondo islamico
sarebbe stata causata dalla sua inclinazione
dispotica, in termini sia culturali
sia economici. E nel XV secolo
scrisse, in un passo memorabile che potrebbe
essere scambiato per uno di
Adam Smith, che "vessare la proprietà
privata significa uccidere negli uomini
la volontà di guadagnare di più riducendoli
a temere che la spoliazione è la
conclusione dei loro sforzi. Una volta
privati della speranza di guadagnare,
essi non si prodigheranno più. Gli attentati
alla proprietà privata fanno crescere
il loro avvilimento. La civiltà, il
benessere e la prosperità pubblica dipendono
dalla produttività e dagli sforzi
che compiono gli uomini, in tutte le
direzioni, nel loro proprio interesse e
per il proprio profitto. Quando gli uomini
non lavorano più per guadagnarsi
la loro prosperità e cessa ogni attività
lucrativa, la civiltà materiale deperisce
e ogni cosa va di male in peggio". Una
chiave di lettura magistrale per spiegare
l’arretratezza del mondo arabo ricchissimo
di materie prime.
Secondo Johnson la maggior parte
degli intellettuali occidentali non ha
voluto né saputo cogliere quella distinzione
di Khaldun, preferendogli il copione
di un islam "tollerante e religiosamente
quasi indifferente". Addirittura
lo storico francese Fernand Braudel
ha definito la cristianità "brutale, violenta
e sotto il segno di un’assoluta
ignoranza". Arnold Toynbee, nel suo
"Racconto dell’uomo (1976) scrisse invece
che "rapina, guerra e massacro furono
alcuni dei sistemi con i quali Maometto
portò l’islam alla vittoria. Gli
stessi delitti erano stati compiuti anche
dai cristiani, e, in misura minore, perfino
dai buddisti, e analoghe imprese
vengono attribuite, nelle scritture
ebraiche, a Mosè e a Giosuè. Ma almeno
i fondatori del buddismo e del cristianesimo non avevano offerto ai loro
seguaci il cattivo esempio". E Denis Diderot
nel 1759 scrisse che "il Corano è
stato il solo libro della nazione araba
per molti secoli. Sono stati bruciati gli
altri, o perché erano superflui, se c’era
quel che si trovava nel Corano, o perché
erano perniciosi, se contenevano
qualcosa che non c’è. E’ stato dopo questo
ragionamento che per sei mesi i bagni
di Alessandria sono stati scaldati
con le opere dei tempi antichi".
Paragonate ai tre assalti islamici al
cuore della cristianità (arabo, tartaro e
turco), le sette spedizioni crociate secondo
Johnson sono state "una risposta
molto limitata", tesi confermata da Bernard
Lewis. "Le crociate erano la reazione
a specifiche umiliazioni, come la
distruzione parziale del Santo Sepolcro
da parte del califfo Hakim nel 1009". Il
sermone di Urbano II durante il concilio
di Clermont del 1095, che tanto elettrizzò
la cristianità, fu una risposta ai
massacri saraceni ai danni dei pellegrini.
"E fu forse puerile l’altro Papa,
Sisto IV, a indire una nuova crociata
quando i turchi presero Otranto, nel
1480, e decapitarono ottocento persone
che non volevano convertirsi?". E la seconda
crociata che discese al largo del
Portogallo e nel 1147 tolse Lisbona ai
musulmani, fu proprio un male per
quello che siamo oggi? "In breve i tanti
scopritori di libri in ritardo che avversano
le crociate – ha scritto Alvi – come
possono tacere il bene che fecero all’occidente?".
Raimondo conte di Tolosa
era un latifondista più ricco persino
del re di Francia, ma a cinquantacinque
anni lasciò le sue ricchezze per
concludere la sua vita al servizio di Gerusalemme.
Secondo Johnson erano i cristiani in
generale a sentirsi minacciati: i saraceni
saccheggiarono Roma nell’845 e la loro
base siciliana venne ripresa solo
quarant’anni dopo la prima crociata. "Il
sacco di Costantinopoli non può essere
giustificato, ma era stato provocato". E’
vero, aggiunge Johnson, che "Urbano II
disumanizzò culturalmente i musulmani
come ‘razza aliena a Dio’, ma più significativo
a lungo termine fu che i crociati,
stabilendo rotte verso le comunità
oltremare, costrinsero i francesi a familiarizzare
con la cultura islamica, come
i normanni fecero nella Sicilia saracena
e gli spagnoli e i portoghesi nell’Iberia
dei mori". Federico II coltivò l’architettura,
la scienza e la filosofia in un
milieu tutto arabo. "La coesistenza fra
arabi e crociati in medio oriente rimase
possibile fino a che la minaccia esterna
dei mongoli non radicalizzò l’islam".
L’ascesa dei turchi mammelucchi
sancì lo sterminio dei templari. "Da
quando al Qaida ha dichiarato guerra
all’occidente, i crociati sono stati espulsi
dalla nostra coscienza a favore dell’islam.
L’invocazione islamista ai crociati
ha oggi due scopi: compattare i musulmani
nella causa del jihad contro la civiltà
giudaico-cristiana e indebolire la
legittimità della resistenza al jihad. "I
cristiani europei tifano per i musulmani
anziché per Bush o Sharon. Così fanno
le élites europee, ma anche certi accademici
americani, intellettuali e portavoci
delle ‘chiese’ dominanti". Gli islamici
sanno perfettamente come sfruttare
il peccato post-cristiano e post-imperiale,
vero tallone d’achille dell’occidente".
Sono riusciti a trasformarsi in
una reazione all’aggressione occidentale.
Nella letteratura islamica lo Stato
d’Israele è la reincarnazione del regno
medievale di Gerusalemme e il sionismo
la moderna manifestazione dell’impulso
imperialista crociato.
Per questo, conclude Daniel Johnson,
"quando gli occidentali deprecano i
crociati mandano un messaggio in codice
sia a Israele sia al mondo islamico. Il
messaggio dice che semplicemente come
occidentali, in particolare come cristiani,
non sono pronti a difendere i loro
progenitori e lo Stato ebraico, così come
la liberazione dell’Iraq". Fino a che
i crociati saranno interpretati per il
consumo popolare, c’è un serio pericolo
che trionfi la storiografia della scuola di
al Qaida. Sono parte integrante della
storia occidentale, certamente "anche
un casus belli, e lo rimarranno fino a
che farà comodo agli islamici. Ma sul
fronte culturale della guerra al terrorismo
un pezzo della nostra storia se ne è
andata disastrosamente nella direzione
di un disarmo unilaterale".
Giulio Meotti ripropone anche in un breve articolo "La profezia di Lévi strauss sull'islam"

Ecco il testo:

Nell’ottobre del 2002, in un’intervista
al francese Nouvel Observateur,
Claude Lévi–Strauss disse che "siamo
contaminati dall’intolleranza islamica".
Ma il grande antropologo francese aveva
consegnato le sue intuizioni più acute
sull’islam a "Tristi tropici", il suo libro
più celebrato del lontano 1955. Si dice
che solo nel 1989 avesse preso atto
dell’attacco islamico all’occidente. Una
mezza verità, per credere leggere le ultime
pagine di questo libro lirico e
struggente e capire che Lévi-Strauss era
consapevole fin dall’inizio della frattura
insanabile. Contiene parole vereconde e
terribili, purtroppo dimenticate anche
come semplice segno ammonitore: "L’islam
ci ha islamizzati. Sul piano morale
ci si trova di fronte all’equivoco di una
tolleranza ostentata, a danno di un proselitismo
il cui carattere compulsivo è
chiaro. Il contatto dei non-musulmani li
mette in angoscia. Il loro genere di vita
provinciale si perpetua sotto la minaccia
di altri generi di vita, più liberi e più
facili del loro".
Questo gigante del pensiero occidentale
ha avuto il dono di capire lo spirito
islamico contemplando tombe ("le uniche
cose che hanno lasciato in India") e
mausolei, abolizione della sensualità e
abluzioni rituali, promiscuità maschile
nella vita spirituale e passagggio immediato
dell’arte islamica iconoclastica
"dal palazzo al bazar", ma soprattutto:
"Niente donne". "Il Profeta li ha condannati
a una situazione di crisi permanente,
che risulta dalla contraddizione
fra la portata universale della rivelazione
e l’ammissione della pluralità delle
fedi religiose (...) Tutto l’islam sembra
un metodo per produrre nello spirito dei
credenti conflitti insormontabili. Con
una mano li si spinge, con l’altra li si
trattiene sull’orlo dell’abisso. Vi preoccupate
per la virtù delle vostre spose o
delle vostre figlie mentre siete fuori
città? Niente di più semplice, velatele e
chiudetele in un chiostro". Così si arriva
al burkha moderno, "simile a un apparecchio
ortopedico". Se un corpo di
guardia potesse essere religioso, l’islam
sarebbe la sua religione ideale, ironizza
Lévi-Strauss. "Quegli ansiosi sono anche
degli uomini d’azione; presi fra sentimenti
incompatibili, compensano l’inferiorità
di cui risentono con delle forme
tradizionali di sublimazione associate
da sempre all’anima araba: gelosia,
fierezza, eroismo".
Di fronte alla benevolenza universale
del buddismo, al desiderio cristiano del
dialogo, l’intolleranza musulmana secondo
Lévi-Strauss fa sì che "il solo modo
per essi di mettersi al riparo dal dubbio
e dall’umiliazione consiste in un annientamento
di questo prossimo. L’islam
è rimasto cristallizzato nella contemplazione
di una società che era reale sette
secoli fa. L’islam ha tagliato in due un
mondo più civile. Vive in uno spostamento
millenario".
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