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La Stampa Rassegna Stampa
12.07.2005 Complotto internazionale dietro l'attentato a Londra, possibile il coinvolgimento di governi come quello siriano
l'analisi del'ex direttore della Cia Woolsey

Testata: La Stampa
Data: 12 luglio 2005
Pagina: 8
Autore: Paolo Mastrolilli
Titolo: «"Complotto internazionale con la mano dei siriani"»
LA STAMPA di martedì 12 luglio 2005 pubblica a pagina 8 un'intervista all'ex direttore della Cia James Woolsey di Paolo Mastrolilli.

La riportiamo:

L’EX direttore della Cia scandisce le parole: «Per cercare di salvarsi dagli attentati, l'Italia deve aumentare i controlli sulla sua comunità islamica. Non vogliamo fare la guerra ai musulmani, perché sono oltre un miliardo di persone e non ci conviene avere così tanti nemici. Però dobbiamo imparare a distinguare tra i Torquemada islamici e i miti frati francescani che sfamano i poveri».
James Woolsey è l'uomo a cui il presidente Bush aveva chiesto di indagare sui collegamenti tra Saddam Hussein e gli attentati dell'11 settembre, e quindi è stato sulla prima linea della lotta al terrorismo fin dal principio.
Chi ha colpito a Londra?
«Gli esperti si affannano a distinguere tra le cellule locali, la pista marocchina e quella siriana, Zarqawi o la vecchia al Qaeda, e commettono tutti un grave errore. Chi ha detto che questi elementi non possano lavorare insieme, magari aiutati da qualche Stato? Non mi sorprenderei se alla fine scoprissimo che gli attentati di Londra sono frutto di un complotto internazionale, al quale hanno contribuito anche governi come quello di Damasco».
Procediamo con ordine. E' vero che l'intelligence sospetta i terroristi «home-grown», cioè le cellule nate e cresciute in Gran Bretagna?
«Sul piano della manovalanza, è ovvio pensarlo. Ci sono centinaia di cittadini britannici musulmani o di origini arabe, che hanno collegamenti con gruppi terroristici, sono andati ad addestrarsi nei campi di al Qaeda in Afghanistan, o combattono in Iraq. Molti di loro sono persone del tutto insospettabili, senza precedenti penali, dall'apparenza assolutamente normale, che magari hanno studiato ingegneria all'università. Reclutarli nelle moschee o negli altri ambienti islamici è facile, e dal punto di vista operativo offrono tutti i vantaggi possibili. Per loro, ad esempio, costruire bombe come quelle esplose a Londra è un gioco da ragazzi».
La collaborazione di Zarqawi, capo di al Qaeda in Iraq, è possibile?
«Aveva collegamenti con la Gran Bretagna e possiede tutti i mezzi che potrebbe volere in Iraq. Non possiamo escluderlo».
Stesso discorso per la pista siriana di Mustafa Nasar e quella marocchina di al Guerbouzi?
«L'errore è pensare che non possano lavorare in maniera coordinata. Alcuni esperti, per ragioni ideologiche, si ostinano a negare l'ipotesi della collaborazione tra sunniti e sciiti, iraniani e iracheni, baathisti e al Qaeda, mentre nella pratica abbiamo visto esattamente il contrario. Questa potrebbe essere un'operazione in cui ognuno ha fatto la sua parte: Osama bin Laden ci ha messo l'ispirazione, Zarqawi e i baathisti l'esplosivo e i contatti londinesi, i gruppi europei la loro esperienza sul posto, i giovani estremisti londinesi la manodopera, e magari la Siria i passaporti o i mezzi di trasporto. Il totalitarismo arabo secolare è pronto a lavorare con gli estremisti sunniti e sciiti. Dagli anni Settanta in poi la setta wahabita dell'Arabia Saudita ha messo a disposizione dei terroristi circa 90 miliardi di dollari, con questa cifra si può organizzare qualunque guerra».
Alcuni analisti dicono che la scelta dei «bersagli morbidi» dimostra un indebolimento di al Qaeda, o comunque un cambio di strategia.
«Altro errore grave: pensare di giudicare la salute del terrorismo dall'ultima operazione. Dobbiamo metterci in testa che siamo in guerra, e questa guerra durerà diversi decenni. Per vincerla servono quattro cose: diffondere la democrazia in quella parte del mondo, perché non possiamo trattare gli arabi come i nostri benzinai e disinteressarci delle condizioni in cui vivono; ridurre la dipendenza dell'Occidente dal petrolio, perché i soldi investiti in questo settore spesso finiscono nelle tasche dei terroristi; rafforzare le nostre economie, le società e le infrastrutture, dalle centrali elettriche a quelle nucleari, affinché possano resistere e sopravvivere a qualunque attacco; individuare i "Torquemada" islamici che fomentano l'odio e neutralizzarli».
L'Italia teme di essere il prossimo obiettivo.
«I terroristi vogliono rompere il fronte compatto che li combatte dall'11 settembre, così si spiegano gli attacchi a Madrid e Londra. Il coraggio ha un prezzo e dobbiamo aspettarci di pagarlo ancora. L'elenco degli obiettivi è ovvio: Italia, Australia, Giappone, Danimarca, Polonia. Nessuno, però, può prevedere l'ordine in cui colpiranno, o se magari cercheranno prima di attaccare ancora negli Stati Uniti».
Che cosa dobbiamo fare per difenderci?
«Potete potenziare le misure di sicurezza, ma attentati come quello di Londra si prevengono soprattutto con l'intelligence. Bisogna infiltrare le comunità islamiche, in particolare quelle collegate alla setta wahabita, le moschee dove predicano gli imam estremisti, e gli altri punti di aggregazione, per raccogliere informazioni su che cosa si muove e cosa potrebbe succedere. Non vogliamo dichiarare guerra all'Islam, ma non possiamo lasciare il campo libero ai predicatori dell'odio».
I rapporti fra l'Italia e gli Stati Uniti hanno subito un colpo dal rapimento dell'imam di Milano Abu Omar e i magistrati hanno chiesto l'arresto di tredici agenti della Cia. E' possibile che il governo di Roma non sapesse dell'operazione?
«L'Italia deve essere elogiata per quanto ha fatto nella lotta al terrorismo, a cominciare dai vostri morti in Iraq. E' tutto quello che intendo dire su questa vicenda».
Secondo i critici dell'amministrazione Bush, gli attentati di Londra dimostrano che l'invasione dell'Iraq non ha indebolito al Qaeda, complicando la lotta al terrorismo invece di facilitarla. Lei cosa risponde?
«E' davvero miope pensare che si potessero risolvere i problemi del Medio Oriente senza prima chiudere la partita con Saddam Hussein, e credere che i terroristi operino senza contatti con i governi. Il primo punto per vincere questa guerra è diffondere la democrazia e lo stato di diritto in tutta la regione. L'Afghanistan e l'Iraq sono stati i primi passi di una lunga serie, che speriamo non richieda sempre l'intervento militare. Ma sarebbe stato impossibile pensare di diffondere la democrazia, senza rovesciare il dittatore iracheno».
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