La guerra al terrorismo per Scalfari la si combatte trattando con Hamas perché non con Al Qaeda ?
Testata: La Repubblica Data: 11 luglio 2005 Pagina: 1 Autore: Eugenio Scalfari Titolo: «Il partito della morte e l'orgoglio ferito»
LA REPUBBLICA di domenica 10 luglio 2005 pubblica in prima pagina un articolo di Eugenio Scalfari sugli attentati di Londra. Nell'ambito di una riproposizione del luogo comune del fallimento della strategia antiterroristica post-11 settembre Scalfari inserisce un'osservazione sui contatti tra il governo britannico e Hamas. Contatti che a suo giudizio sarebbero dovuti avvenire molto prima mentre l'indignazione del primo ministro israeliano Sharon sarebbe del tutto infondata. Una simile presa di posizione può significare solo due cose: o Scalfari sta suggerendo di avviare trattative con al Qaida, sull'esempio ddel "dialogo" con Hamas, come efficace strategia anti terrorismo, o sta suggerendo di trattare con tutti quei gruppi che (per ora) si limitano a uccidere solo israeliani. Entrambe le ipotesi sono irragionevoli, oltre che immorali. Ogni concessione politica a un gruppo terroristico infatti rafforza la determinazione di tutti i terroristi, che vedono confermata l'efficacia della loro strategia.
Ecco il testo: Una delle prime decisioni prese dall´Occidente subito dopo l´11 settembre fu di formare una coalizione mondiale di tutte le potenze contro il terrorismo e di creare una stretta integrazione tra le intelligence dei vari Paesi. Non soltanto tra gli alleati della Nato e tra i membri dell´Unione europea, ma anche con la rete spionistica russa, con il Mossad israeliano, con i servizi di sicurezza dei Paesi arabi e perfino con gli 007 cinesi e indiani. Spioni di tutto il mondo unitevi, alleatevi, collaborate perché ora siamo di fronte ad un nemico implacabile che opera nell´ombra e colpisce dovunque al di sopra dei confini. Colpisce gli innocenti, quelli che non c´entrano, non contano, non militano, e costituiscono nel loro insieme la società civile, praticano una vita normale da persone normali. Questo nemico nascosto e crudele bisogna stanarlo, prosciugare l´acqua in cui nuota, disboscare la foresta dentro la quale si nasconde, recidere le solidarietà vecchie e nuove di cui si avvale per nascondersi, riposarsi, reclutare nuovi adepti. Insomma bisogna isolarlo, scoprirlo, distruggerlo. Questo fu il primo obiettivo della strategia decisa a Washington (e a Londra) all´indomani dell´attentato che ridusse in briciole le Torri di Manhattan. Il secondo obiettivo fu l´abbattimento del regime taliban in Afghanistan. Il terzo fu la pace tra Israele e i palestinesi con la creazione del nuovo Stato in Cisgiordania e a Gaza. Il quarto un´azione decisa ed efficace contro la fame, le malattie e il degrado, concentrata soprattutto nell´Africa moribonda e scheletrita, immagine esemplare e terribile dell´egoismo planetario dei ricchi e dei forti contro la moltitudine dei miserabili. Sono rimasto stupefatto, e non credo d´esser stato il solo, nel constatare che la risposta subito dopo gli attentati di Londra del 7 luglio data dagli 8 Grandi riuniti in Scozia è stata quella di rafforzare la collaborazione tra le intelligence, isolare e snidare la rete terrorista, risolvere il problema dello Stato palestinese, portare avanti la normalizzazione in Iraq e in Afghanistan e affrontare con decisione la piaga africana ormai già andata in cancrena. Segno che nei quattro anni dal crollo delle Torri gemelle non si è fatto niente per realizzare gli obiettivi strategici decisi dopo l´11 settembre. Degli attentati londinesi del 7 luglio si può pensare ciò che si vuole, ma una constatazione campeggia, indiscutibile, su tutte le altre: è stata la più cocente sconfitta proprio di quell´intelligence che vanta una tradizione di successi e un´esperienza sul campo addirittura mitiche. Ebbene, questa antica organizzazione del controspionaggio britannico è stata ridicolizzata, battuta, accecata da un nucleo terroristico del quale, a settantadue ore dalle quattro esplosioni che hanno sconvolto Londra e il mondo intero, non si sa nulla: se si tratti di al Qaeda, d´una sua cellula londinese autonoma, della guerriglia nazionalistica irachena, della sub-rete marocchina che già si esercitò cupamente nella strage di Madrid. Buio completo e James Bond che si rivolta furibondo e frustrato nei cieli della sua leggenda. Nel frattempo Blair, circondato dagli altri 7 Grandi (ma il nostro Berlusconi, ahinoi, abbassa in tutti i sensi la media della grandezza) snocciola ancora una volta la consueta litania: integrare le intelligence, difendere i valori, non passeranno, porteremo a compimento il lavoro iniziato. L´Africa e il clima del pianeta sono passati in seconda e terza linea. Soltanto su un punto (anche se quasi nessuno se n´è accorto) il premier inglese ha realizzato un concreto e importante successo: lo stanziamento di tre miliardi di dollari nei prossimi tre anni in favore dell´economia palestinese e le parallele trattative che il governo britannico ha aperto con Hamas, provocando violente proteste da parte di Sharon. Blair tratta con Hamas, incredibile ma vero. Del resto Bush tenta di negoziare con l´ala baathista della guerriglia irachena. Ma non potevano farlo prima? Non avrebbero risparmiato una quantità di lutti e di rovine a sé e agli altri? Capisco che la Fallaci e Giuliano Ferrara non sarebbero stati contenti e con loro tutti i fautori dei valori "muscolari" dell´Occidente, religiosi e laici che siano. Ma questi sono i fatti e con i fatti non si può polemizzare.
**** Se l´intelligence inglese esce a pezzi da questa vicenda e così pure l´altrettanto mitica Scotland Yard che aveva addirittura abbassato il livello di allarme antiterroristico da 3 a 4, esce viceversa a pieni voti il dispositivo del pronto intervento del soccorso post-attentato. A Londra questo fondamentale dispositivo era stato predisposto con cura e già molte volte simulato con apposite esercitazioni. Ha funzionato benissimo. La popolazione sapeva come avrebbe dovuto comportarsi e così gli ospedali, i medici, i pompieri, la vigilanza urbana e tutte le varie organizzazioni di soccorso. Così pure la comunicazione: notizie sobrie, centellinate, il più possibile asettiche, sangue e rovine celate ai fotografi e ai cameramen delle televisioni, toni sommessi e sdrammatizzanti. Il ministro dell´Interno dovrà ora colmare questa lacuna al più presto possibile, visto che siamo anche noi come tutta Europa nella lista degli obiettivi terroristici; ma certo il ritardo nella nostra preparazione è grave quanto incomprensibile. Per quanto riguarda il fronte iracheno registriamo una dichiarazione di Berlusconi sul ritiro a settembre di trecento militari da Nassiriya: un decimo del corpo di spedizione. Ma la missione italiana proseguirà fino a lavoro compiuto, sostiene Berlusconi. Al di là di un possibile uso elettoralistico di questa dichiarazione, il suo significato resta oscuro. Forse tremila uomini erano troppi per i compiti che ci erano stati assegnati. Allora perché non deciderlo prima o addirittura fin dall´inizio? Oppure la situazione irachena è in via di normalizzazione? Non sembra, anzi sembra il contrario. Se quel ritiro fosse l´inizio d´un programma graduale di totale rimpatrio, un senso ci sarebbe, ma la dichiarazione del presidente del Consiglio lo esclude. Allora di che si tratta? Di un contentino per la pubblica opinione? Non si sa e non si capisce.
**** Un´altra delle affermazioni ricorrenti, ancor più ripetuta dopo gli attentati londinesi del 7 luglio, riguarda l´unità dell´Occidente da rafforzare per sconfiggere il terrorismo. L´unità dell´Europa. Il superamento dei contrasti inter- atlantici sulla guerra irachena che ormai dovrebbero essere archiviati. Superare il passato e guardare al futuro. Affermazioni accettabili, sensate, condivisibili. Ma assai poco operative. Per la semplice ragione che a tre anni di distanza la guerra in Iraq non è affatto finita. Dura ancora. Semina morte quotidiana. Scordare il passato è giusto e guardare al futuro ancor di più. Ma bisognerebbe almeno partire dal presente. Mediamente il terrorismo e la guerriglia uccidono una ventina di persone al giorno e ne feriscono il triplo. Mediamente, nelle province sunnite del centro-nord, ogni mese sono uccisi poliziotti, militari, civili iracheni in misura decupla dei morti del 7 luglio londinesi. Negli ultimi sei mesi questa misura è aumentata: non dieci ma venti volte più dei morti di Londra. I media occidentali non ne parlano quasi più, non fa più notizia, come non fa notizia (e invece dovrebbe farla) la schiera dei kamikaze. Una schiera che sembra inesauribile. Secondo una rozza contabilità che però fornisce un ordine di grandezza attendibilissimo, i kamikaze auto - sacrificatisi per spargere terrore e morte tra i nemici di Allah sarebbero già arrivati nei dintorni di quota mille. Mille giovani si sono già fatti esplodere per uccidere altri arabi, altri musulmani. In nome di Allah. Il rapporto medio è di uno a cinque, un kamikaze per cinque vittime. Ma spesso è più elevato. Diciamo che i morti ammazzati dai kamikaze sono più o meno ormai settemila persone. Alle quali vanno aggiunti quelli ammazzati dalla guerriglia. Quelli rapiti e poi trucidati. Quelli ammazzati dal "fuoco amico" americano. Quelli uccisi dalle forze Usa in combattimento. E naturalmente gli americani caduti. È una contabilità dell´orrore che ormai si svolge con pochissima eco mediatica. Ci siamo assuefatti. Chi volete che ne tenga il conto? Eppure bisognerebbe tenerlo, quel conto. Perché i kamikaze potenziali continuano a moltiplicarsi? E chi sono i capi che li mandano a morire per uccidere? Diciamo subito che non si tratta di affamati, di sradicati, di nomadi reclutati nella feccia del mondo. Si tratta di studenti, di artigiani, di figli cadetti che vogliono emulare le gesta o vendicare la morte d´un padre o d´un fratello maggiore. Nati nella fede. Convinti d´una missione salvifica. A loro modo martiri, ma martiri armati per martirizzare gli infedeli e i traditori. Chi li guida? I capi appartengono ad un ceto sociale decisamente più elevato. Un embrione di classe dirigente. Credenti nella fede ma anche animati da un progetto (utopistico) e da un sentimento (terribilmente reale). Il progetto è il califfato. A Kabul era solo un vagheggiamento, ma a Bagdad è diverso. Bagdad è stata per secoli la sede del califfato, una delle capitali storiche dell´islamismo. Centro della terra dei due fiumi. Punto di incrocio tra l´Islam sunnita e quello sciita, l´Islam moderato di Sistani e quello radicale e arcaico dei salafiti e dei wahabiti. Il sentimento e l´orgoglio ferito. L´orgoglio islamico schiacciato dall´Occidente, cristiano e dissoluto, ricco e cinico, tecnologicamente imbattibile, portatore di vizi e di sopraffazione, pedagogico di una democrazia ignota e anzi nemica, sfruttatore delle ricchezze nascoste nel ventre delle terre musulmane in Iraq, in Iran, nell´immensa Arabia, nei deserti magrebini, nelle terre musulmane tra il Caucaso e il Caspio. Questa è la natura e le ragioni dello scontro. Si può vincerlo? Come? Quando? Con quale modello di società da esportare in testa? Con quali valori da insegnare? Si dice: non vogliamo esportare la "nostra" democrazia, ma una democrazia a misura di quelle società. Non il "nostro" riformismo, ma quello ad essi gradito e da loro accettato. Parole vuote, parole prive di senso perché eludono la domanda-chiave: il potere nelle mani di chi? Le ricchezze delle terre dei musulmani nelle mani di chi? Questa è la domanda. Ad essa l´America di Bush e la Gran Bretagna di Blair hanno dato la loro risposta. Ma finora quella risposta non ha sgominato quel terrorismo, semmai l´ha rafforzato. L´ha esteso. L´ha moltiplicato per cento se non per mille. Può darsi che la risposta anglo-americana alla fine si dimostrerà vincente. Tra quanto tempo, quanti anni, quante deturpazioni e autodeturpazioni del tessuto democratico, è difficile dire. Oppure può darsi che la risposta sia sbagliata. Nel frattempo dovremo armarci di pazienza, abituarci a convivere. I paesi del Medio Oriente convivono da secoli con le guerre tribali e con le guerre occidentali. E con la povertà. E con la crudeltà dei loro signori della guerra. Noi dobbiamo abituarci a convivere con il terrore, combattendolo con mezzi efficaci. Da questo punto di vista il comportamento dei londinesi è un modello da imitare. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla direzione de La Repubblica. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.