Salvate il terrorista Jihad con la falsa notizia della pena di morte in Israele
Testata: La Repubblica Data: 07 luglio 2005 Pagina: 1 Autore: Giovanni Maria Bellu Titolo: «Può un giudice di Roma decidere sulla vita di Jihad?»
REPUBBLICA.IT il 6 luglio 2005 pubblica nella rubrica "Gli altri noi, strie di immigrazioni" un articolo di Giovanni Maria Bellu, intitolato "Può un giudice di Roma decidere sulla vita di Jihad?". Dall'articolo si evince che Jihad Mohammed Issa , definito, rigorosamente tra virgolette terrorista palestinese del gruppo di Abu Nidal, rischierebbe la vita se tornasse in Israele. Ma in Israele non esiste la pena di morte. E' forse nell'Anp che Jihad Mohammed Issa potrebbe rischiare la vita, forse per i contrasti interni tra i diversi gruppi che compongono la galassia del terrorismo palestinese?
Segnaliamo anche che il tono pietistico dell'articolo, che presenta l' ex membro di un gruppo responsabile di delitti efferati come un campione di "buona condotta e accertata non pericolosità sociale", sembra decisamente fuori luogo, per quanto si possa condividere il rifiuto espellere Jihad Mohammed Issa verso un paese dove rischia la pena di morte.
Che comunque, ribadiamo, non può essere Israele.
Ecco l'articolo:
Domani il giudice di sorveglianza di Roma deciderà la sorte di Jihad Mohammed Issa. Sarà, per il magistrato, un'esperienza nuova. E' raro che, nel nostro paese, un giudice debba prendere una decisione sulla vita, sull'esistenza in vita, di qualcuno. In questo caso è proprio così: se il giudice dirà che va espulso, Jihad, che ha 43 anni ed è palestinese, un "terrorista palestinese del gruppo di Abu Nidal", tornerà in Israele. E il fatto che abbia già scontato in Italia la condanna diventerà, se non irrilevante, molto marginale.
Jihad Mohammed Issa ha sempre sostenuto di non aver preso parte all'attentato - la vittima fu un diplomatico degli Emirati arabi uniti - che, nell'ottobre del 1984, subito dopo l'arrivo in Italia, lo portò in carcere. Ma oggi il problema non è l'innocenza o la colpevolezza. Jihad, di qualunque colpa si sia macchiato, ha pagato il suo debito: una condanna a ventidue anni di reclusione interamente scontata tra il carcere di Rebibbia, dove ha trascorso undici anni, e forme alternative di pena: il lavoro in una casa famiglia per portatori di handicap e in una cooperativa sociale.
Se non fosse uno straniero, Jihad oggi sarebbe un uomo libero. Negli anni la sua condotta è stata esaminata in molte occasioni, e l'esito è stato sempre positivo. Altrimenti, non avrebbe avuto la possibilità di lavorare fuori del carcere, né di iscriversi all'università, di frequentare un corso di italiano. Nemmeno di incontrare una compagna con la quale immaginare un futuro.
Un percorso che, quando riguarda un italiano, si conclude con la dichiarazione di "fine pena" e l'inizio di una nuova vita. Invece a Jihad, lo scorso 15 giugno, arrivò una convocazione in un commissariato di polizia e la comunicazione che, essendo un clandestino senza permesso di soggiorno, doveva trasferirsi nel Centro di permanenza temporanea di Ponte Galeria per poi essere espulso. Un automatismo della legge Bossi-Fini, uno dei tanti casi non previsti dal legislatore che producono l'effetto di far apparire i meccanismi della giustizia del tutto indipendenti dal semplice buon senso.
Ce n'è anche un altro. Per via della pena cui era stato condannato, Jihad è un presunto "socialmente pericoloso". Per un italiano, la conseguenza è la libertà vigilata, per uno straniero l'espulsione. L'udienza che si terrà domani era stata da tempo fissata per chiarire questo aspetto. Doveva essere un'udienza di routine: la semplice presa d'atto, da parte del magistrato di sorveglianza, del percorso compiuto da Jihad.
Poi è arrivato il provvedimento della questura. Quando è stato chiamato a valutarlo, il giudice di pace ha evitato la responsabilità della decisione. Ha semplicemente sospeso l'espulsione in attesa dell'udienza fissata per domani. E Jihad è rimasto nel Centro di Ponte Galeria.
Ha comunque ottime probabilità di cavarsela. Il magistrato ha un fascicolo che raccoglie i pareri dati negli anni dai suoi colleghi. Anche quello di un anno fa dove c'è scritto che Jihad, per la sua buona condotta e per l'accertata non pericolosità sociale, poteva scontare l'ultima parte della sua pena lavorando come programmatore e insegnante di informatica in una cooperativa.
Caso quasi risolto, dunque? Verrebbe da rispondere di sì se gli automatismi della legge non fossero ancora in agguato. Il provvedimento di espulsione amministrativa è in piedi e il giudice di pace non ha dato una risposta. Ci si augura che trasferisca immediatamente alla questura la decisione che sarà assunta domani (o più probabilmente in uno dei giorni successivi all'udienza). Ma quanto tempo dovrà stare ancora Jihad nel Cpt di Ponte Galeria? E' là dal 15 giugno e dunque, in base alla Bossi-Fini, potrebbe starci fino a Ferragosto. Un supplemento di condanna senza sentenza e senza reato. Ma questo, purtroppo, non riguarda solo Jihad. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla direzione de La Repubblica. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita