Tra Europa e Stati Uniti c'è di mezzo il Medio Oriente Emanuele Ottolenghi spiega perchè le divisioni transatlantiche diventeranno sempre più forti
Testata: Il Foglio Data: 06 luglio 2005 Pagina: 2 Autore: Emanuele Ottolenghi Titolo: «Atlantico sempre più largo»
A pagina 2 dell'inserto IL FOGLIO di mercoledì 6 luglio 2005 riporta dalla rivista Atlantide ampi stralci di un saggio di Emanuele Ottolenghi, "America, Europa e Medio Oriente. Quale futuro?"
Ecco il testo: I rapporti tra Europa e Stati Uniti sono entrati in crisi dopo l’11 settembre. Il medio oriente è la causa principale di questa crisi. Quanto profonde e durature sono le divergenze? E’ possible un’inversione di tendenza? Cosa può portare a una nuova convergenza transatlantica su quali politiche perseguire in medio oriente? Per Europa e Stati Uniti la regione ha un’enorme rilevanza geostrategica: per gli Stati Uniti a causa dell’importanza che la regione riveste globalmente come produttore di idrocarburi e fonte di radicalismo e terrorismo a matrice islamica, mentre per l’Europa sono la vicinanza geografica e la maggior dipendenza energetica a preoccupare. Diversi interessi strategici però da soli non bastano a spiegare la crisi in corso. Centrale nella crisi è il conflitto tra Israele e palestinesi. Gli Stati Uniti sono l’alleato principale d’Israele, che si appoggia agli americani nel suo confronto col mondo arabo, piuttosto che all’Europa, tradizionalmente più vicino alle posizioni arabe. L’Europa per contro offre copiosi aiuti economici e politici alla causa palestinese; finanza l’Autorità palestinese attraverso una miriade di programmi multilaterali e aiuti diretti. Inoltre, l’Unione è il principale partner commerciale d’Israele. L’Europa esige un ruolo maggiore nella risoluzione del conflitto, mal tollerando la centralità americana e la marcata differenza di vedute sulla questione. Sostegno alla causa palestinese e peso economico hanno aumentato l’influenza europea nel contesto israelo-palestinese come in quello regionale. L’abilità dell’Unione di coordinare le decisioni politiche dei suoi 25 membri – pur con le dovute eccezioni – ne fa un importante attore internazionale. Spiegare questa crisi serve a determinare se la distanza tra Europa e Stati Uniti possa esser ridotta a beneficio della regione o se tali differenze sono destinate a crescere a suo scapito. Invece che spiegare diversità di politiche come funzione di divergenze d’interessi, a loro volta determinati da eredità storica del passato, geografia, demografia, politiche energetiche e contatti commerciali, in quest’articolo verrà presentata una tesi diversa: la crisi nei rapporti tra Europa e Stati Uniti, successiva all’11 settembre, non è destinata a svanire, poiché causata da divisioni di natura normativa ed essenzialmente legate a identità e visione del mondo che separano Europa e Stati Uniti. Sono quindi più profonde, durevoli e potenzialmente più distruttive che mere divergenze di priorità, tattiche o interessi diversi. Questo articolo spiega le cause di questa spaccatura e del suo effetto sui rapporti transatlantici, capendo in primo luogo la visione europea del medio oriente. L’11 settembre ha fondamentalmente modificato la politica mediorientale americana. Di fronte alla minaccia terroristica di al Qaida, l’Amministrazione del presidente George W. Bush, ha abbandonato il ruolo tradizionale americano di nume tutelare dello status quo regionale per promuovere un’agenda politica di cambiamento radicale. L’Europa rimane invece dedita allo status quo regionale, ponendo la soluzione del conflitto israelo-palestinese come sua principale priorità. Non che l’armonia regnasse in passato. Negli anni 50 l’alleanza strategica tra Israele e Stati Uniti era lungi dall’essersi formata e prima del 1967 fu la Francia, non l’America, il principale alleato d’Israele. Solo dopo il 1967 l’alleanza tra Israele e America si rafforzò mentre l’Europa si allineò alle posizioni arabe, specie sul tema palestinese. La crisi petrolifera del 1973 accentuò questa tendenza, che rimase in luce anche dopo la Dichiarazione di Venezia (1980), la prima Intifada palestinese (1987-1993) e anche la Prima guerra del Golfo (1990-91). Tuttavia, prima dell’11 settembre esistevano più simiglianze che differenze. Durante la Guerra fredda, il medio oriente era un teatro di scontro tra superpotenze dove le divergenze tra Europa e Stati Uniti erano offuscate dalla necessità di contenere l’espansionismo sovietico nella regione. Quando il crollo del Muro di Berlino avrebbe potuto mettere a nudo potenziali differenze politiche tra Stati Uniti ed Europa, l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq e successivamente il processo di Oslo impedirono a tali differenze di causare una crisi. Nonostante occasionali divergenze d’opinione non si sono mai verificate tensioni tali da mettere a nudo le profonde divisioni poi emerse dopo l’11 settembre. Se non fosse stato per l’11 settembre, Europa e Stati Uniti avrebbero continuato ad avere delle significative ma facilmente gestibili differenze d’opinione sulla natura del conflitto arabo-israeliano e su come risolverlo, differenze che hanno tenuto occupata l’Alleanza atlantica – ma soprattutto l’Amministrazione Clinton – per tutti gli anni 90. Ora che il medio oriente è al centro dell’attenzione globale e priorità e lettura dei problemi regionali divergono qualitativamente, le divisioni transatlantiche diventeranno sempre più critiche e il loro impatto sarà sempre più significativo. La prima crepa visibile è avvenuta nell’autunno del 2000. Nel dibattito sulle cause del fallimento di Oslo, i dissidi riguardavano le cause del conflitto in corso, le condizioni accettabili per la sua risoluzione, e i mezzi per riportare le parti in causa al tavolo negoziale. Su tutti questi elementi l’Europa ha preso le parti dei palestinesi, sottolineando l’urgenza del problema e sostenendo che tocca a Israele fare ulteriori concessioni perché ci possa essere una svolta in quello che in Europa, a dispetto di cinque anni di conflitto, ci si ostina a chiamare processo di pace. In questa presa di posizione si trova l’essenza del disaccordo tra Europa e Stati Uniti. Tale disaccordo si può riassumere in due categorie: la questione palestinese è o no il nodo centrale da risolvere nella regione? E chi ha maggior responsabilità e quindi deve far maggiori concessioni per risolvere quel conflitto? L’Europa considera il conflitto israelo-palestinese come il nodo centrale del medio oriente e l’ostacolo alla risoluzione dei suoi problemi. Anche la terminologia usata indica come in Europa il medio oriente sia sinonimo di conflitto arabo-israeliano. Per gli Stati Uniti invece il conflitto israelo-palestinese è una delle tante crisi regionali, ma, dopo l’11 settembre, non necessariamente il problema più urgente. L’Europa ritiene che la stabilità regionale – l’equivalente della tutela dello status quo – e la risoluzione del conflitto israelo-palestinese abbiano la precedenza e crede che la pace tra Israele e palestinesi possa aiutare ad affrontare le altre sfide regionali, la cui soluzione è in qualche modo ostacolata dal perdurare del conflitto. Gli Stati Uniti hanno invece stabilito come loro priorità la democratizzazione, il progresso della libertà e il cambio di regimi nell’intera regione, ritenendo che la correlazione causale tra conflitto arabo-israeliano e le altre sfide regionali sia molto più debole e spuria di quanto comunemente creduto. Semmai, è il progresso delle riforme democratiche nella regione che può facilitare la causa della pace, non il contrario. Insomma, per l’Europa la pace a Gerusalemme e a Ramallah riverbererà in maniera benefica in tutta la regione. Per gli Stati Uniti invece, nella misura in cui la libertà riverbererà nella regione, la pace avrà finalmente la possibilità di affermarsi a Gerusalemme e Ramallah. Si tratta quindi di due visioni normative profondamente differenti, non solo di disaccordo su priorità, tattiche o interessi nazionali. Il che spiega il motivo di crescente frustrazione europea verso gli Stati Uniti. Per l’Europa, la presa di distanze degli Stati Uniti nei confronti di Arafat e il relegare la questione palestinese in secondo piano scaturisce da una lettura della mappa mediorientale distorta e pericolosa. Ma solo gli Stati Uniti dispongono dell’influenza per riavviare il processo diplomatico. Dal che discende un risentimento europeo per l’America, la cui politica viene vista come ostaggio di gruppi di pressione filo-israeliani, se non addirittura, nelle estrapolazioni più sinistre, come formulata direttamente a Gerusalemme. Diversa, come ovvio, la visione americana. Gli europei non capiscono che dopo otto anni di diplomazia intensa ma fallimentare e dopo quasi cinque di violenza largamente contenuta è difficile riportare i due contendenti a un negoziato, non essendovi alcuna garanzia che quanto non fu possibile raggiungere nell’autunno 2000 sia ora, come per magia, a portata di mano. Poiché considera il medio oriente la sua principale priorità in politica estera e vede il conflitto israelo-palestinese come la questione più critica da affrontare, l’Europa ha la tendenza a interpretare la regione e le sue sfide attraverso il prisma del conflitto. Si veda ad esempio la posizione europea sul programma nucleare iraniano, sul quale Europa e America condividono gli stessi obbiettivi. Nonostante la preoccupazione per le ambizioni nucleari iraniane, la questione in Europa viene discussa principalmente in relazione a Israele. Gli europei temono che Israele attacchi i siti nucleari iraniani, come fece nel caso dell’Iraq nel 1981. Si chiedono se in fondo non sia comprensibile che Teheran si doti di un ombrello nucleare difensivo come deterrente contro Israele. Sostengono che, se si chiede all’Iran di abbandonare le proprie ambizioni nucleari, si dovrebbero mettere simili pressioni su Israele, come se bastasse indebolire Israele per dissuadere gli iraniani. E utilizzando Israele come chiave di lettura delle ambizioni nucleari iraniane, qualcosa di importante va perduto: le ambizioni egemoniche dell’Iran e la preoccupazione che il suo progetto nucleare genera nelle capitali arabe del Golfo, al Cairo e in altre parti della regione vengono raramente citate, così come il rischio di una corsa agli armamenti nucleari in risposta al successo iraniano. Quel che si trova in questa spiegazione è invece un’ossessione per Israele che accomuna leader europei di destra e sinistra. E’ come se tutto quel che succede in medio oriente fosse in qualche modo correlato a Israele e il suo conflitto coi palestinesi e passibile di soluzione se il conflitto venisse a sua volta risolto attraverso concessioni che Israele avrebbe già da tempo dovuto fare, rifiuta di fare, ma farà eventualmente per il suo bene quando verrà finalmente convinto o costretto. Nonostante tutto, quanto veramente ha messo in crisi la relazione transatlantica è che oltre al dissidio sul conflitto arabo-israeliano, gli Stati Uniti ora hanno deciso che lo status quo regionale è insostenibile. Due principi univano Europa e Stati Uniti prima dell’11 settembre: l’impegno a tutelare lo status quo arabo e quindi a collaborare coi regimi al potere nella regione per risolvere il conflitto arabo-israeliano sulla base del principio di un compromesso territoriale fondato sullo status quo precedente la Guerra dei Sei giorni del giugno 1967, seppur con possibili aggiustamenti territoriali minori. Le differenze dunque, prima dell’11 settembre, potevano essere ignorate in quanto di natura tattica, non strategica e normativa. Le differenze di diagnosi dei problemi – che nel caso di Israele e palestinesi erano chiaramente evidenti – non influivano sul consenso di fondo: un medio oriente stabile richiedeva una soluzione del conflitto sulla base delle risoluzioni Onu 242 e 338. L’attenzione si concentrava quindi sul conflitto, ma non su quanto, sotto la coltre visibile dell’ordine arabo regionale, stava invece emergendo come sfida ai regimi e agli interessi occidentali. La fine dell’Amministrazione Clinton ha aperto le porte a un nuovo scenario, dove un presidente repubblicano con un’agenda di politica estera meno interventista nell’arena israelo palestinese si è lentamente allineato ad Ariel Sharon, un premier israeliano di destra particolarmente inviso agli europei. Se inizialmente gli europei non avevano preso bene le misure del neo-eletto presidente americano e di quale direzione avrebbe preso, l’Europa conosceva bene Sharon e non se ne fidava affatto. Sharon è tuttora oggetto privilegiato di disprezzo in Europa. E se la sua elezione non fosse bastata, l’Europa si è trovata ulteriormente delusa dalla nuova Amministrazione Bush, che ci si aspettava prendesse una direzione simile a quella del padre dieci anni prima quando Bush senior aveva fatto enormi pressioni sul premier israeliano Yitzhak Shamir. Gli europei speravano in più concessioni israeliane e più pressione americana su Israele per ottenerle. Bush invece evitò deliberatamente di assumere lo stesso attivismo di Clinton che tanto prestigio era costato all’America senza produrre alcun risultato. Gli europei pensavano ci fosse spazio per ulteriori negoziati anche dopo il collasso di Oslo, l’avvio della seconda Intifada e il fallimento dei negoziati di Taba e che l’unico vero ostacolo fosse stata l’elezione di Sharon e le politiche da lui perseguite. Gli americani erano invece convinti del contrario: la "finestra d’opportunità" creata dalla Prima guerra del Golfo si era ora chiusa e Sharon stava conducendo una guerra a difesa della sicurezza dei suoi cittadini. Per gli europei erano gli israeliani i principali responsabili dello stallo, ed era la loro relazione privilegiata con Washington a impedire agli americani di riconoscere la necessità di fare pressione su Gerusalemme. Maggior responsabilità su Israele significava quindi anche un atteggiamento più critico verso Israele nella sua risposta all’Intifada. Washington vede le cose diversamente: il fallimento del processo di pace è principalmente imputabile ai palestinesi; il radicalismo che alimenta l’Intifada è espressione di un fenomeno più ampio nella regione contro il quale occorre correre ai ripari. L’onere delle concessioni e dei cambiamenti di rotta e quindi principalmente dei palestinesi. Il settembre 2001 si è aperto con i peggiori auspici: alla conferenza dell’Onu sul razzismo a Durban, in Sud Africa, il festival d’odio antisemita scatenato a bella posta dalle delegazioni palestinesi, arabe e dalle Ong a loro vicine provocò rapidamente l’abbandono della conferenza da parte di Israele e Stati Uniti, ma non degli europei, sottolineando ancora una volta le crescenti divergenze tra Europa e Stati Uniti sul come leggere, e quindi gestire la crisi regionale in corso. All’indomani dell’11 settembre alcuni commentatori europei sostennero come alle sue origini vi fosse il fallimento di Oslo – quasi a dire che l’America l’11 settembre se l’era cercato con il suo sostegno a Israele e la sua mancanza di un approccio "equidistante" nei confronti della causa palestinese. Implicita in questa critica era l’argomentazione che invece l’Europa avesse un atteggiamento più equilibrato e quindi più credibile e che fosse ora che gli Stati Uniti si adeguassero alla linea politica caldeggiata dagli europei. Il terrorismo era insomma, per certi europei promotori di una sua spiegazione socio-economica, la risposta estrema a ingiustizie ignorate dall’America. Ma ora che l’America era stata colpita era semplicemente folle aspettarsi che il suo presidente si piegasse a un ricatto terroristico, cioé che cambiasse politica sotto minaccia di ulteriori attacchi. Eppure molte voci si sono levate in Europa in quel senso: l’America sarebbe stata colpita da un male di cui lei stessa era causa e soltanto cambiando le sue politiche avrebbe evitato futuri ricorsi. L’11 settembre ha quindi cambiato l’intera equazione regionale, ma non nel senso auspicato da chi in Europa ha correlato l’assalto di al Qaida alla questione palestinese. Non ci sarebbero più state la microgestione del processo di pace e la diplomazia intensiva di stile clintoniano, ma piuttosto un radicale cambio di direzione della politica americana in medio oriente, guidato da due principi: primo, il conflitto israelo-palestinese non è né centrale né urgente ai problemi della regione. L’attacco di al Qaida prescinde dalla questione palestinese e dal ruolo americano nel cercare di risolverla. Le condizioni per risolvere quel conflitto non esistevano, specialmente se si considerano le cause del fallimento di Oslo, che gli americani hanno compreso correttamente. Mentre gli europei si ostinano invece ad accusare Israele d’intransigenza, per gli americani l’ostacolo è l’abisso incolmabile tra le due parti causato dall’incapacità palestinese di mostrare pragmatismo e realismo sulle questioni più spinose da risolvere, Gerusalemme e i profughi palestinesi. Il problema più urgente della regione è invece l’assenza di democrazia, questa la causa dell’onda di radicalismo che la attraversa e che crea un serio ostacolo alla pace e alla stabilità. Il secondo principio guida della politica americana dopo l’11 settembre quindi afferma la necessità di sconfiggere il radicalismo islamico affrontando i problemi che lo generano e su cui si alimenta – non la guerra tra Israele e palestinesi, bensì la mancanza di democrazia e i suoi effetti collaterali. Per l’America del dopo 11 settembre la Palestina è un simbolo, sfruttato da regimi e loro oppositori per promuovere agende politiche locali che poco o nulla hanno a che fare con il conflitto arabo-israeliano – e che poco trarrebbero dalla sua risoluzione. Ma è anche una scusa, che non può, dopo l’11 settembre, tenere ostaggio il necessario cambiamento che la regione deve attraversare. Si capisce dunque che il rifiuto dell’Amministrazione Bush di trattare il conflitto israelo-palestinese come una urgente priorità da un lato e di promuovere il cambiamento nella regione dall’altro, lasci gli europei costernati. Le differenze non si limitano più a quanto Israele deve concedere, a quali condizioni e con chi negoziarle. I due principali perni della politica estera mediorientale europea sono ora diametralmente opposti a quelli statunitensi. Il che spiega l’opinione, condivisa in Europa, secondo cui la presidenza Bush fosse un’aberrazione, che presto, molti hanno auspicato, sarebbe stata rimediata dalle elezioni del novembre 2004. La solida vittoria di Bush mostra come le aspettative europee fossero pie illusioni. Vista in Europa come una momentanea follia, la dottrina Bush guiderà la politica estera statunitense fino almeno al gennaio 2009. Ma difficilmente l’Europa vi si adeguerà. Ne consegue che, a corto di un’improvvisa schiarita tra Israele e i palestinesi, il dissidio transatlantico è destinato a crescere. La crisi irachena ne è stata lo specchio più limpido. L’opposizione alla guerra si diffuse velocemente in tutta l’Europa, con le opinioni pubbliche persino di quei paesi, come Spagna, Italia e Gran Bretagna i cui governi si erano schierati con il presidente Bush, fortemente ostili al conflitto. Il motivo è chiaro. Per l’opinione pubblica europea il terrorismo era causato dagli irrisolti motivi di rimostranza araba nei confronti dell’occidente, prima di tutto la questione palestinese. Per l’Amministrazione Bush invece il terrorismo deriva da un cocktail esplosivo di crescita demografica incontrollata, ingiustizia politica, ineguaglianza e mancanza di mobilità sociale, e il loro sfruttamento da parte di un’ideologia assassina che si pone come alternativa all’attuale ordine costituito. Nessuno di questi fattori ha a che fare con la questione palestinese. La maggior parte degli europei non vedono nessun collegamento tra la lotta contro il terrorismo e la guerra in Iraq e hanno a più riprese deriso il teorema del "cambio di regime". Alcuni si sono spinti a sostenere che la guerra fosse un’avventura imperialista motivata dal petrolio o un sinistro complotto di falchi consiglieri filoisraeliani. La questione palestinese, non l’Iraq doveva essere al centro dell’attenzione americana dopo la campagna in Afghanistan. E maggiori pressioni americane su Israele, non sostegno per Israele, era quanto l’Europa si aspettava – anzi, suggeriva – per vincere la guerra al terrorismo. Convinti com’erano gli europei che la questione palestinese fosse il nodo centrale della regione e che essa più di ogni altra cosa fosse la causa principale del terrorismo islamico, non potevano non rispondere con ostilità e rabbiosa impotenza a un presidente americano intento a chiedere a gran voce la democratizzazione del medio oriente, il cambio di regime in Iraq e altrove come mezzo di lotta contro il terrorismo, ma poco dedito – almeno secondo gli europei – a risolvere la questione palestinese e fermare Sharon e la sua risposta militare all’Intifada. Ancor più dirompente della questione irachena e delle differenze di priorità tra Europa e Stati Uniti sul tema palestinese, è l’attribuzione di responsabilità del fallimento del processo di pace. Europei e americani divergono non solo in termini di priorità; il loro dissidio è sulla sostanza della soluzione ormai, e non a cagione di interessi diversi o di una diversa immagine del conflitto. Entrambe le sponde dell’Atlantico ricevono le stesse notizie, vedono le stesse immagini e leggono le stesse analisi. Ma divergono nelle conclusioni che traggono da tale materiale. Europa e Stati Uniti si stanno rapidamente allontanando e la crescente centralità del medio oriente a livello globale, il suo impatto in Europa e in tutto l’occidente, le implicazioni che la regione ha per la sicurezza e la stabilità globali, tutto questo rende le differenze d’opinione tra Europa e America molto più marcate. La guerra al terrorismo ha reso il dissidio transatlantico ancor più profondo. Le elezioni spagnole del marzo 2004, condizionate come furono dagli attacchi terroristici a Madrid tre giorni prima del voto, hanno prodotto un risultato che secondo alcuni sarebbe il contrario di quanto avrebbe fatto l’elettorato americano in simili circostanze. Le reazioni europee alla politica israeliana delle uccisioni mirate di leader di Hamas sono diametralmente opposte alle reazioni americane. Persino il linguaggio utilizzato per descrivere lo stesso evento indica come esso sia più il prodotto di differenze di fondo che di dissidi causati da diversi interessi nazionali. Tutto questo nasconde una verità difficile da digerire in Europa: il fallimento di Oslo (avvenuto prima che repubblicani e Likud andassero al potere in America e Israele) è dovuto a irreconciliabili dissidi di fondo. Camp David e i successivi negoziati hanno rivelato che l’abisso che ancora divide le parti riguarda questioni troppo centrali alla loro identità e potenti simboli che la esprimono, perché i mediatori possano ignorarle. Camp David ha messo a nudo una verità indigesta per l’Europa. Non esisteva una soluzione per porre fine una volta per tutte al conflitto, soltanto misure parziali per gestirlo e contenerlo. I ripetuti fallimenti della diplomazia avrebbero dovuto dettare una riduzione drastica delle ambizioni sul fronte diplomatico e una ricerca per soluzioni meno grandiose ma più realistiche. Invece, l’Europa ha continuamente fatto pressioni per un ritorno al negoziato nella speranza di maggiori concessioni israeliane, sostenendo la necessità di ricominciare laddove israeliani e palestinesi avevano apparentemente interrotto il dialogo, cioè da quelle concessioni fatte da Barak, premier ormai dimissionario e di lì a poco sconfitto elettoralmente in maniera umiliante, che per il pubblico israeliano erano comunque già eccessive ma che per i palestinesi non erano ancora sufficienti. La versione convenzionale dei fatti in Europa è che a Camp David Israele non fece un’offerta che Arafat non poteva rifiutare. In parte, questa interpretazione deriva dalla propensione europea a credere alla narrativa palestinese, che va oltre il litigio semantico sul significato della "generosità" israeliana sbandierata da Barak dopo Camp David. In parte, essa deriva dall’incapacità di capire appieno le dinamiche del summit. Le offerte israeliane potrebbero anche non esser state generose – almeno dal punto di vista palestinese – ma erano certamente serie e non hanno ottenuto un riscontro serio da parte palestinese: né una controproposta né la volontà di negoziare in buona fede. Ma in parte, la posizione europea deriva dall’incapacità di contemplare la possibilità che un problema ritenuto così centrale alla stabilità della regione possa in qualche modo risultare irrisolvibile. Più facile quindi sostenere che Israele non aveva offerto abbastanza, causando quindi la "comprensibile" violenza palestinese. Questa lettura degli eventi significa non solo che tocca a Israele concedere ancora per rimediare al danno causato a Oslo, ma anche che la soluzione rimane a portata di mano. Con l’intensificarsi dell’offensiva terroristica e della risposta militare israeliana, le critiche e le condanne europee aumentarono, chiarendo come in Europa il colpevole della storia fosse Israele: Israele doveva cedere di più, pretender di meno, e lamentarsi poco o punto delle circostanze. La guerra non era una soluzione. E piuttosto che incolpare i palestinesi per il fallimento di Oslo e per il loro rifiuto di prendersi la loro parte di responsabilità; piuttosto che sottolineare come la rinuncia alla violenza fosse un passo bilaterale e non unidirezionale; piuttosto che metter pressioni su Arafat perché adottasse le misure necessarie per sedare la violenza; piuttosto che riconoscere la vera natura del terrorismo come tattica scelta deliberatamente, l’Europa preferì aggirare la questione terrorismo come se fosse una querelle semantica, sminuendolo come conseguenza di "ingiustizia", "disperazione", e "umiliazione" ma continuando a condannare le tattiche israeliane come eccessive, intollerabili e ingiustificabili. La diplomazia e le concessioni (israeliane) erano l’unica strada da seguire, non la forza. Mentre l’Europa dava più responsabilità a Israele e gli americani prendevano la posizione opposta, uno poteva aspettarsi che il terrorismo avrebbe sollecitato una reazione più solidale da parte degli europei, data la loro esperienza col terrorismo. Ma anche in tema di terrorismo le condanne europee sono state più che altro di circostanza. L’impazienza europea con Israele, già latente nell’autunno del 2000 ed emersa con l’11 settembre, è divenuta più marcata quando Israele decise di reagire all’ondata di attacchi terroristici del marzo 2002 – 17 attentati riusciti in meno di un mese con centinaia di israeliani morti e feriti – lanciando l’operazione Muro Difensivo. A quel punto gli Stati Uniti avevano l’11 settembre alle spalle e Arafat era screditato alla Casa Bianca: era ovvio che nessun accordo potesse esser negoziato e firmato nelle circostanze create dal terrorismo palestinese. La condizione minima richiesta da Israele, la fine del terrorismo, apparve quindi ragionevole in America, insidiosa in Europa. Seguendo standard completamente contraddittori rispetto a quelli adottati nei confronti del terrorismo europeo, l’Europa dichiarò che non si poteva lasciare il processo di pace ostaggio degli estremisti: la Gran Bretagna aveva fatto del disarmo dell’Ira la precondizione per la continuazione del processo di pace in Irlanda del Nord, ma ora Israele doveva negoziare sotto il fuoco. Gli Stati Uniti per contro accettarono che Israele non negoziasse finché il terrorismo non fosse stato sconfitto e che non potesse fare concessioni di alcun tipo, fintantoché perdurasse il ricatto terrorista. In questo caso, la similitudine di esperienze sollecitò maggior comprensione. Nel caso dell’Europa invece, l’incapacità di apprezzare l’impatto del terrorismo sulla possibilità di ritornare al tavolo negoziale portò a interpretare le azioni militari israeliane e il loro sostegno americano come una tattica diversiva e dilazionaria nel miglior dei casi, e come un avventurismo folle e sanguinario nel peggiore. Di conseguenza, le reazioni americane alle azioni militari israeliane sono state spesso limitate e prudenti, e hanno sempre riconosciuto la difficile situazione israeliana, condannato duramente il terrorismo palestinese e raramente negato a Israele la pazienza e la simpatia americana. L’Europa invece, come nel caso di Jenin o l’assedio israeliano della Chiesa della Natività a Betlemme nell’aprile 2002, ha reagito in maniera isterica, chiarendo come l’Europa condanni il terrorismo ma non sia disposta ad accettare i mezzi necessari per combatterlo. Per l’Europa, ci si trovava di fronte all’intransigenza israeliana pura e semplice, espressione di un nazionalismo ebraico che l’Europa osteggiava. In più, il sostegno americano di Israele insieme alle politiche americane nei confronti dell’Iraq e del resto della regione sembravano offrire ulteriori scuse a Sharon per non fare delle concessioni che l’Europa considerava ragionevoli e indispensabili per la pace. […] Eventi recenti, come la morte di Arafat, le elezioni in Iraq e nei territori palestinesi, una convergenza di vedute sul Libano tra Francia e Usa, il ritiro siriano dal Libano e una comunanza di interessi sulle ambizioni nucleari iraniane hanno momentaneamente creato l’impressione che tra Europa e Stati Uniti sia tornato il sereno. Ma alla prima avvisaglia di perturbazioni, i dissidi torneranno a galla. Il medio oriente riflette un disaccordo profondo di natura normativa ed esistenziale tra Stati Uniti ed Europa. Sono il conflitto israelo- palestinese e la lotta contro il terrorismo dopo l’11 settembre – e non più la Guerra fredda – i due prismi attraverso i quali Europa e America leggono la regione oggi. I due prismi offrono immagini molto diverse, diagnosi molto differenti, e cure molto distanti a Europa e Stati Uniti. Il medio oriente continuerà a essere al centro dell’attenzione politica globale nel prossimo decennio e con esso l’abisso che separa Europa e Stati Uniti continuerà a crescere. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.