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La Repubblica Rassegna Stampa
26.06.2005 Un titolo fuorviante, che colpevolizza invece di spiegare
non si smentisce il quotidiano dell'ing.de Benedetti

Testata: La Repubblica
Data: 26 giugno 2005
Pagina: 32
Autore: Alberto Stabile
Titolo: «Nella fortezza dei coloni che non si arrendono»
La REPUBBLICA di oggi 26-06-2005, nel supplemento domenicale, pubblica un servizio di Alberto Stabile da Gush Katif nell'insieme accettabile. Usiamo "accettabile" sapendo di è di Alberto Stabile, abituati come siamo a leggerlo con i tasti del PC sempre puntati su Israele. L'articolo consiste in una serie di interviste con gli abitanti del luogo che spiegano le ragioni per le quali si oppongono al ritiro deciso dal governo Sharon.
Certo, le interviste sono a senso unico, le domande prevedibilmente orientate, ma non ci troviamo di fronte al peggior Stabile. Anche l'intervista a David Grossman, inserita nella stessa pagina, riporta correttamente le opinioni dello scrittore.
Quello che proprio è scorretto è il titolo, "Nella fortezza dei coloni che non si arrendono". Non esiste nessuna fortezza, che evoca Masada nella mente dei lettori, quindi omicidi-suicidi. Esistono dei cittadini israeliani che non sono d'accordo con la decisione del loro governo e che,finora, pacificamente dimostrano il loro dissenso. Fuori luogo l'uso del verbo "arrendersi", perchè non c'è nessun assedio, ma solo un esercito democratico che farà valere le ragioni di un governo altrettanto democratico. Potranno esserci disordini, nessuno è in grado oggi di prevederlo. Nemmeno REPUBBLICA. Ma un titolo così scorretto ha un solo obiettivo, presentare i "coloni" come un gruppo pronto alla guerra. Mentre i palestinesi di Gaza, nell'articolo di Stabile, vengono descritti come pacifici cittadini che vengono aggrediti dai "coloni" armati.
Così il lettore di REPUBBLICA, ancora una volta, viene disinformato.

Di seguito pubblichiamo l'articolo di Alberto Stabile e l'intervista a David Grossman.

Nella fortezza dei coloni
che non si arrendono

GUSH KATIF (Gaza)
La piscina è una pozza d´acqua marcia su cui galleggia ogni sorta di rifiuti. L´intonaco bianco s´è scrostato per l´umidità. La grande scritta nera, "Palm Beach Hotel", scolorisce sulla facciata. Ma che importa? Per tutti, questo è ormai "Mahoz Yam", la Fortezza del mare, che non crollerà sotto l´urto dei bulldozer, l´ultima trincea di chi si oppone al ritiro, la Masada dei nuovi zeloti che non indietreggeranno davanti a niente. Anche se, dall´altra parte, non si ritroveranno l´esercito invasore dell´imperatore Tito, ma i soldati fratelli mandati al generale Sharon.
Di tutti i luoghi simbolo del Gush Katif, il blocco di insediamenti di Gaza che dovranno essere evacuati a partire dal 15 agosto, il vecchio albergo abbandonato sulla spiaggia è quello preferito dai media. La ragione sta nel fatto che, ad un certo punto, con una scelta che farebbe inorridire qualsiasi teorico della lotta politica clandestina, alcune fra le teste più calde dell´estrema destra israeliana hanno deciso di stabilirsi nelle stanze semi diroccate e ripetutamente saccheggiate dell´hotel e quivi organizzare la resistenza contro l´evacuazione.
Difficilmente, i vari Baruch Marzel, uno dei capi del movimento kahanista, Noam Livnat, noto forse più per essere il fratello del ministro dell´Educazione Limor Livnat che per altro, Itamar Ben Dvir, kahanista anche lui, o il drappello di supporto accorso dagli avamposti stabiliti in Cisgiordania dai "Giovani della Colline", difficilmente, dicevamo, vedranno arrivare il giorno del "disimpegno" nelle stanze della loro disperata retrovia.
Sarebbero già stati sloggiati e fermati "per interrogatorio", giovedì scorso, se una talpa ben piazzata negli apparati di sicurezza non li avesse messi per tempo sull´avviso. La retata, però, è stata soltanto rinviata. Sta di fatto che, quando attraversiamo lo sbarramento all´ingresso dobbiamo sottostare a una sorta di diktat. niente macchine fotografiche e niente appunti.
In teoria dovrebbero esserci soltanto una trentina di famiglie e qualche single, ma il cortile è invaso da decine di adolescenti in età pre militare venuti da Kiriath Arba, il grande insediamento alle porte di Herbron per una settimana di «studio, preghiera e discussione». Kiriat Arba è famosa, fra l´altro, per aver avuto fra i suoi residenti quel Baruch Gioldestein che nel febbraio del ‘94 sparò nella Moschea-Tempio dei Patriarchi, facendo una strage di fedeli musulmani e per questo viene considerato un eroe. A Kiriat Arba si recava sistematicamente, nei fine settimana, Yigal Amir, l´assassino di Rabin. Per appuntamenti di studio, preghiera e riflessione tra gente che la pensa allo stesso modo, la stagione presente, consiglia, evidentemente, il Palm Beach.Il padiglione Kach si distingue per la scritta: «Un ebreo non caccia un altro ebreo». E quello di Ytzhar, l´insediamento da settimane all´avanguardia nella lotta contro l´evacuazione dei quattro piccoli insediamenti in Cisgiordania, per la striscione dal tono biblico: «A te ho dato questa terra». Nessuno dello Stato Maggiore della protesta intende palesarsi. C´è la polizia che indaga sulla bravata di un gruppo di giovanotti partiti da qua per andare a pestare alcuni palestinesi del clan al-Hawasi, un´enclave di gente pacifica nel cuore degli insediamenti, che passeggiavano sulla spiaggia. Uno degli aggrediti è stato anche ferito da un colpo di pistola.
Yakov Drori, programmatore informatico di Gerusalemme passeggia tenendo la piccola Sara semi addormentata nel marsupio. Come tanta gente del Gush Katif, Yakov non crede che verrà mai il giorno del ritiro, tanto meno che la polizia sarà costretta ad usare il pugno di ferro: «Ci sarà un miracolo - assicura - , i miracoli succedono talvolta». Ma se invece dovesse esserci il ritiro? «Be´, l´indomani, il sole sorgerebbe lo stesso, ma Israele non sarebbe più lo stesso paese». E più non dice.
I luoghi del Gush Katif hanno nomi poetici derivati da immagini bibliche. Shirat Hayam, la cantica del mare, ricorda il passaggio del Mar Rosso, quando gli ebrei finalmente liberi dal giogo egiziano innalzarono una cantica a Dio. Qui siamo sulla riva del Mediterraneo e l´Egitto c´entra in quanto le catapecchie diroccate e appena occupate dal popolo degli insediamenti, venuto a dar man forte alla gente del Gush Katif, non erano altro che un campo ricreativo per ufficiali egiziani, fino al 1967, Guerra dei Sei giorni. Queste catapecchie di una casa vera e propria non hanno nulla, né il tetto, ne la toilette, né, in certe stanze, persino il pavimento, ormai completamente saltato e sostituito da uno strato di sabbia.
Hava Ben Shoshan è una donna di 39 anni, molto bella, con grandi occhi ingenui, la veste lunga fino ai piedi scalzi e i capelli biondi fermati da una fascia verde, come la Ragazza dall´Orecchino di Perle di Vermeer. Si muove con la lentezza imposta da un´irrimediabile stanchezza e l´eleganza che nasce dalle buone maniere apprese per tempo. È arrivata il mese scorso dall´insediamento di Bet Hel, vicino a Ramallah, con i suoi sei bambini. Il marito, un influente ideologo della comunità, è rimasto a Bet Hel.
Un´occhiata in giro basta a capire che la sfida è, innanzitutto, vivere al limite delle possibilità fisiche. Non ci sono vetri alle finestre. Il soffitto mostra le tegole nude. La canalina degli scarichi non è stata ancora chiusa. Il cattivo odore inonda la casa.
«Perché sono venuta? Per aggiungere un altro po´ di forza a quella dei tanti che non vogliono il ritiro».
Pensa di aver raggiunto lo scopo?
«La gente è contenta della nostra presenza, si sente confortata e rafforzata».
Che farà il giorno in cui si presenterà la polizia per sloggiarla?
«Mi stenderò per terra e dirò che io da qui non mi muovo».
Lei è una cittadina israeliana?
«Sì».
Riconosce lo Stato d´Israele?
«Si»
Ma se lo Stato, in nome dell´interesse generale, stabilisce che è bene andarsene da qui, perché non se ne va?
«Perché io penso che lo Stato non agisce nell´interesse di tutti, ma contro i suoi stessi interessi, non per il bene della maggioranza ma per il disastro della maggioranza».
Perché sarebbe il disastro?
«Perché gli arabi non si accontenteranno mai e, prima ancora, perché non abbiamo il permesso di farlo»:
Permesso da chi?
«Da Dio».
Perché questa è la Terra d´Israele?
«No, perché Dio ha detto: questa è la mia Terra ed io la do a voi».
A un centinaio di metri da Hava, vive una figura carismatica della lotta contro l´evacuazione: Nadia Matar, 39 anni, sei figli anche lei, Origini belghe, una famiglia non religiosa alle spalle, lei stessa è invece religiosa, anche se alle lunghe vesti colorate preferisce pantaloni e felpa da combattimento.
Nadia non è una semplice militante, piuttosto uno degli strateghi della protesta, grazie ad una esperienza di lotta maturata sin dai tempi degli accordi di Oslo, da lei e dal marito, David Matar, pediatra, contestati al punto da finire, per la prima volta agli arresti.
Di Nadia colpisce la lucidità del ragionamento, la veemenza e il numero di telefonate che può ricevere nell´arco di qualche minuto. È a lei che si sono rivolti prima di lasciarci entrare i guardiani del Palm Beach Hotel.
«È stato fortunato, come giornalista - mi dice sulla veranda che guarda le onde verdi - ha avuto il suo scoop. Quel bulldozer che ha visto prima sta spianando il terreno per la tendopoli che vogliamo impiantare per le decine e decine di migliaia che verranno nel Gush Katif a fermare la capitolazione unilaterale di Sharon».
E racconta che stavolta non si ripeterà quel che successe con l´insediamento di Yamit, nel Sinai, smantellato nell´‘82, in seguito agli accordi di Camp David. «Allora, il rabbino Nerya, autorevole ed ascoltata guida religiosa, si lamentò che, se avesse avuto 50 mila persone in più, il ritiro non ci sarebbe stato. Noi faremo in modo di portarne qui ben più di 50 mila».
Qui non è in gioco il destino di uno o dieci o venti insediamenti. «La capitolazione di Sharon deve essere combattuta perché mette in pericolo non solo il Gush Katif, ma l´esitenza dello Stato d´Israele e la stessa civiltà occidentale. Naturalmente, come religiosa penso che questa Terra ci è stata data, ma anche la sua casa è in pericolo in Italia. Dopo che Sharon avrà dato via gli insediamenti, Al Qaeda scatenerà la Jihad contro la cultura giudaico-cristiana dell´occidente. Combattendo per Guish Katif noi combattiamo anche per la civiltà Occidentale».
Nel giorno fatidico, in quello che chiama il "D-day", Nadia non sembra il tipo di stendersi per terra. «Farò quello che farebbe anche lei se scoprisse che il suo governo è impazzito. Difesa attiva. Se loro spingono, io spingerò. Vedrà che ogni casa sarà una fortezza, una piccola Masada, piena di parenti arrivati da tutt´Israele. Voglio proprio vederli i soldati fare qualcosa».
In realtà gli attivisti del rifiuto sottovalutano quella parte della popolazioni di Gush Katif che ha deciso di ingaggiare con il governo una battaglia su una giusta ricompensa ma non intende opporsi all´evacuazione. Assaf Assis, classe 1950, una gamba sacrificata in Sinai, durante la guerra d´attrito del 1970, vive nel Gush Katif dal 1983. È stato uno dei primi abitanti dell´insediamento ed uno dei primi ad aprire una fiorente attività agricola. Oggi, possiede con il figlio cinque ettari di serre specializzate nella coltivazione dei gerani che esporta in Francia, Olanda e Italia.
Asaf, che parla un buon italiano, ricordo dei tre anni trascorsi nel nostro paese come rappresentante di un´organizzazione giovanile ebraica, vive nell´insediamento di Gnei Tal (I giardini di rugiada) che del Gush katif rappresenta la zona più ricca, belle ville spaziose, con prati all´inglese, garage, verande coperte.
Anche se è convinto che «se ci fosse una vera pace coi palestinesi noi dovremmo avere il diritto di restare qui come loro hanno il diritto di vivere in Israele», Assaf non aspetta il "D-day" col coltello tra i denti. «io sono un cittadino che ha sempre dato allo Stato. Se vogliono la mia seconda gamba, la darò. La battaglia legale la farò fino in fondo per ottenere un giusto risarcimento, ma non faccio guerre contro il mio governo o contro l´esercito del mio paese».
Assaf racconta che da un anno discute con i rappresentati del governo incaricati di favorire l´evacuazione offrendo le ricompense stabilite dalla Knesset. Si dice che già 700 famiglie abbiano preso contatto con i funzionari di Zela, l´ente preposto al ritiro, guidato da Jonathan Bassi, d´origine italiana. Ma la burocrazia frappone ostacoli.
«Non soltanto di chiudere non se ne parla - spiega Assaf - ma nel frattempo dovrò anticipare tute le spese per trasferire l´azienda ad Ashkelon».
Prima di salutarci gli chiediamo del destino della casa sotto al cui pergolato abbiamo parlato: cosa pensa della decisione di distruggere tutte le case di Gush Katif? «Non c´è bisogno che venga nessuno a distruggerla, piuttosto le darò fuoco io, con una tanica di benzina».

Ecco l'intervista a David Grossman:

"Andarsene è doloroso ma inevitabile"

Lei conosce bene il suo paese e sicuramente ha visitato qualche volta il Gush Katif. Che impressione le ha fatto e che impressione le fa adesso?
«Per me, Gush Katif rappresenta la combinazione di due caratteristiche molto israeliane: da un lato, l´iniziativa, il pionierismo, il dissodamento del deserto: è un giardino fiorito in mezzo alla sabbia. Dall´altro, si tratta di un ghetto circondato da muraglie, soldati e carri armati. Negli ultimi anni, inoltre, l´estremismo degli abitanti è aumentato per due ragioni: la prima è che sono bersaglio di lanci quasi continui di missili Kassam; la seconda è la loro sensazione che il loro destino sia stato deciso, che saranno sradicati dal luogo che per loro è la casa e il sogno».
Quanto è importante, secondo lei, il ritiro da Gaza, nel quadro del conflitto fra israeliani e palestinesi?
«È molto importante, perché comporta l´ammissione da parte della destra israeliana che l´idea del "grande Israele" e il pensiero che Israele possa dominare con la forza il popolo palestinese hanno fatto bancarotta».
Guardando alla società israeliana, pensa che il ritiro possa provocare una frattura tra chi accetta l´autorità dello Stato e chi la respinge? E quali potrebbero essere le conseguenze?
«Siamo molto vicini a questa spaccatura, che diventerà sempre più profonda nei cinquanta giorni che ci separano dall´evacuazione, nella misura in cui i coloni continueranno a spargere il caos all´interno. La frattura principale, tuttavia, è data dalla sensazione che ci sia un gruppo non tanto piccolo e molto militante, che rifiuta l´autorità dello Stato e della legge. Poiché temo molto che il disimpegno sarà accompagnato da spargimento di sangue e dall´uccisione reciproca di israeliani, ritengo che ci stiamo avvicinando al momento drammatico, in cui sarà messa alla prova la disponibilità dello Stato ad imporre la legge ad ogni costo, anche ad una minoranza ribelle. La combinazione fra il fanatismo dei coloni, il fervore religioso e a volte messianico di parte di loro e il fatto che siano armati fino ai denti, con la loro disperazione e la sensazione che il loro sogno si sia frantumato, crea un miscuglio estremamente esplosivo. Ritengo anche che parte dei coloni abbia interesse che si verifichi un scontro, che il ritiro si incida nella coscienza collettiva israeliana come un trauma, affinché nessun primo ministro osi evacuare altri insediamenti dalla Cisgiordania in un prossimo futuro».
Quali sono i suoi sentimenti verso una famiglia di coloni che è stato prima incoraggiato ad insediarsi nel Gush Katif e adesso viene invitata ad andarsene?
«È un miscuglio di sensazioni. Sul piano personale, mi identifico con il loro dolore, con la tragedia di persone che si sono costruite un posto che amano e che rappresenta la concretizzazione del loro ideale religioso: là sono nati i figli e là sono sepolti i loro cari. D´altra parte, non posso non pensare a quello che coloni hanno fatto a noi israeliani, quando, 38 anni fa, sono riusciti a impadronirsi del timone del paese, dettando l´ordine del giorno della nazione in tutti questi anni. Sono riusciti a mettere al loro servizio somme enormi, che sono stati sottratte ad altri obiettivi ben più degni. Hanno violato sia le leggi internazionali che quelle israeliane, hanno giocato d´azzardo con il futuro di noi tutti e hanno commesso un crimine, avere trasformato l´occupazione in una realtà quasi irreversibile».
Uno degli ospiti dell´albergo di Hof Dekalim ci che detto che "il giorno dopo", qualunque cosa accada, Israele non sarà più lo stesso. È d´accordo? Le come s´immagina "il giorno dopo"?
«Penso che abbia ragione. Si tratta di una grave crisi, non solo per i coloni, ma anche per molti dei loro sostenitori che non lo sono e che avranno la sensazione di essere diventati degli "esiliati" nel loro stesso paese. Temo che vi saranno fenomeni di violenza interna, mentre ci attende una cosa ancora più complessa, la lotta per l´evacuazione di tutte le colonie, anche nella Cisgiordania. Qui la cosa sarà molto più dolorosa, sia perché il numero dei coloni è molto superiore, sia per il legame emotivo, storico e religioso che molti israeliani provano per i luoghi biblici della Cisgiordania». (a.s.)
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