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Il Foglio Rassegna Stampa
24.06.2005 In Iran il khomeinismo è ancora forte
l'analisi di Carlo Panella

Testata: Il Foglio
Data: 24 giugno 2005
Pagina: 3
Autore: Carlo Panella
Titolo: «Per Panella tra i due litiganti iraniani per adesso continua a vincere Khomeini»
IL FOGLIO di venerdì 24 giugno 2005 pubblica un articolo di Carlo Panella sulle elezioni iraniane.

Ecco il testo:

Roma. In Iran non è in corso uno scontro tra l’ayatollah Khamenei e l’hojatoleslam Rafsanjani. Non è all’orizzonte un braccio di ferro con i militari golpisti. Non c’è un confronto tra un’anima riformista e una conservatrice. E non c’è alcuna crisi di regime. Questa è soltanto l’apparenza, la forma con cui la crisi s’articola. La sostanza è qualcosa di di più grave, che si esprime in un confronto elettorale, in realtà riguardante
il corpo sociale della Repubblica islamica, che esploderà qualsiasi sia l’esito delle presidenziali. La proiezione istituzionale della Rivoluzione, che ha retto 26 anni e che Rafsanjani ha incarnato, si è semplicemente e drammaticamente incrinata. Le tensioni sociali interne e quelle internazionali, non più ingabbiate nella cornice costituzionale imposta dall’ayatollah Khomeini, si sommano e si confrontano. Finita ormai l’epoca del riformismo di facciata di Khatami, si è tornati alle origini: il confronto tra rivoluzionari, come all’indomani della presa del potere. Nella dialettica tra Rafsanjani e il sindaco di Teheran, Mahmoud Ahmadinejadun, si gioca la partita tra chi si limita ad amministrare il potere con cinismo e realpolitik e chi vuole la "rivoluzione islamica permanente". L’Iran, stretto tra Iraq e Afghanistan
controllati dalla "coalition of willing" capeggiata dagli Stati Uniti, in cui ha sempre più forza "l’Islam dal volto umano" di Kharzai e al Sistani (terribile concorrente sciita di Khomeini e dei suoi eredi) , privato della sponda di una Mosca sovietica, fiancheggiato da una Turchia sempre più forte e democratica, deve oggi scegliere. La Repubblica islamica deve decidere se prendere la strada della sopravvivenza – opzione Rafsanjani – o rilanciare l’iniziativa rivoluzionaria interna ed estera, che è nel suo Dna e che ha già tentato con Moqtada Sadr (il hojatoleslam era un suo sponsor), fallendo però miseramente a Najaf. Ahmadinejadun, col suo inaspettato successo elettorale, fiancheggiato da enormi forze nel corpo della società iraniana, vuole spiegare che l’opzione rivoluzionaria sta tentando di condurre il gioco e che se non ci riuscirà domani, ritenterà dopodomani anche a costo di una resa dei conti e di un bagno di sangue. E’ drammaticamente riemerso Hezbollah. Non il partito libanese, ma quel "partito di Dio" seguito da milioni di iraniani, guidato dall’ayatollah Khomeini e che vinse la rivoluzione del 1979. Nelle mosse convulse di queste ore, nel triste spettacolo degli studenti riformisti iraniani che applaudono impauriti quella sorta di incrocio tra Ribbentrop e al Capone, o meglio Rafsanjani, e costretti a pensare – ahimé – che egli sia l’argine al disastro, si legge la reazione di terrore di chi sa che "il partito di Dio" si è risvegliato. Hezbollah irrompe nuovamente sulla scena politica iraniana. L’unico grande blocco sociale rivoluzionario, che abbia mai operato in una società del novecento. I partito artefice dell’unica rivoluzione al mondo che mai è stata giacobina o leninista, ma sempre di massa e maggioritaria. Oggi, dopo 26 anni, quel partito enorme dei mostafazin, dei diseredati è sicuramente minoritario, ma è pur sempre composto da decine di milioni di iraniani – ripetiamo, decine di milioni di iraniani – che sostengono la candidatura dello sconosciuto Ahmadinejad, perché sentono la propria
posizione minacciata e in pericolo. Oggi, dopo 26 anni, Hezbollah si muove in sintonia con tutti quei quadri rivoluzionari – anche fra i generali, soprattutto pasdaran – che magari si sono laureati a Oxford o Harvard, ma che hanno trovato soltanto nel ritorno alla sharia brutale di Khomeini la loro identità nazionale. Lo scialbo Ahmadinejadun è minaccioso, perché Hezbollah vede
in lui il suo campione, il grande elargitore di "welfare islamico" e populista. Teheran, l’enorme città di 14 milioni di abitanti, come sempre, spiega questo fenomeno: qui il corrotto e corruttore realpolitiker Rafsanjani ha perso, qui il populista rivoluzionario Ahmadinejadun ha vinto. Il risultato è stato sconcertante: un risicato 20 per cento strappato da Rafsanjani. Se è vero che non si è trattato di elezioni democratiche, si può stare certi che i brogli hanno colpito soltanto gli altri, i "riformisti", e che il testa a testa tra i due uomini di regime è invece reale. All’interno del blocco di potere, la democrazia è un obbligo, per la semplice ragione che ambedue i candidati maneggiano leve potenti. Si sente pertanto incombere una svolta violenta. Non un golpe dei militari, perché in Iran non hanno potere, ma una presa di diretta
di quei mille Ahmadinejadun, quei quadri diffusi di Hezbollah, che sono anche militari, o pasdaran o bassiji. Ci sono molte ragioni dietro questo riemergere
di Hezbollah e dietro la crisi di Rafsanjani. La più importante, ma anche la più difficile da afferrare, è lo "spirito rivoluzionario", che ancora vive in quel paese. Se comprendere l’islam di oggi è facile e immediato, anche quello sunnita, col suo fondamentalismo, col suo protagonismo, col suo terrorismo, si deve tutto alla vittoria impossibile di Khomeini. La sua ideologia quindi ha ancora presa nel paese. E’ invece più difficile comprendere che quell’islam
rivoluzionario ha anche costruito una società che a molti iraniani, purtroppo, piace. L’occidente, abituato a leggere le più sacrosante e vere denunce della vita penosa in Iran, fatica a capire come il "welfare islamico" sia riuscito a tenere ancorato al regime il consenso di una buona parte del paese. Khomeini e la sua rivoluzione hanno avuto successo, non solo perché hanno saputo usare a piene mani il "terrore", ma anche e soprattutto perché hanno dato concretezza,
forza sociale, pane e anche possibilità di consumi non disprezzabili a "larghe masse" di rivoluzionari attraverso un formidabile apparato di welfare creativo,
basato su una miriade di "fondazioni" e su migliaia di moschee, in grado di trasformare, in poco tempo, in reddito diffuso materialmente percepito in tasca, l’introito petrolifero. Una massa immensa di petrodollari, che non viene investita per costruire sviluppo e che viene invece rapidamente riversata per nutrire e confortare il "blocco sociale" della rivoluzione islamica (e il petrolio a 60 dollari al barile aiuta). Oggi non è dunque troppo difficile spiegare agli iraniani, a certi iraniani, che se vincono le forze che si stanno imponendo in Iraq e Afghanistan (già solidissime in Turchia), la "rivoluzione islamica" e il suo generoso welfare si spengono. Non è difficile convincerli che non basta saper trattare con furbizia, come sa fare il corrotto Rafsanjani, ma è indispensabile uscire dall’angolo in cui gli Stati Uniti e gli "altri musulmani" stanno chiudendo l’Iran, riprendendo l’iniziativa rivoluzionaria. Anche con la forza. Ahmadinejadun, purtroppo, ci sta riuscendo.
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