"Riconciliazione" con molte accuse e pochi fatti sul quotidiano cattolico
Testata: Avvenire Data: 24 giugno 2005 Pagina: 1 Autore: Giorgio Bernardelli Titolo: «La riconciliazione oltre il muro»
AVVENIRE di venerdì 24 giugno 2005 pubblica a pagina 26 l'articolo di Giorgio Bernardelli "La riconciliazione oltre il muro", che riportiamo: Tra i processi svoltisi in questi ultimi tempi a Gerusalemme, ce n'è uno assolutamente singolare. Sul banco degli imputati è finito infatti un rabbino, per la più inconsueta tra le accuse oggi rivolte a un uomo con la kippah: insieme a un altro israeliano, Arik Ascherman, ha dovuto rispondere del fatto di aver cercato, nella primavera 2003, di fermare con il proprio corpo due demolizioni di case palestinesi abusive a Issawiya e Beit Hanina, due quartieri di Gerusalemme Est. Una vicenda giudiziaria che non è passata inosservata. Perché quello che il tribunale presieduto dal giudice Rebecca Freedman-Feldman ha dovuto giudicare è stato un atto organizzato di disobbedienza civile. Ascherman, infatti, è il direttore esecutivo di Rabbis for Human Rights, una battagliera associazione cui aderiscono una novantina di rabbini israeliani che, con questa azione simbolica, ha voluto portare alla ribalta il problema delle discriminazioni urbanistiche sistematicamente attuate dal 1967 a oggi contro la popolazione araba di Gerusalemme Est. Bernardelli non tenta neppure di provare la veridicità della sua affermazione circa presunte "discriminazioni urbanistiche sistematicamente attuate dal 1967 a oggi contro la popolazione araba di Gerusalemme Est". Non cita fatti concreti, formula soltanto accuse perentorie.
La campagna contro la demolizione delle case è il fronte più avanzato di un impegno a trecentosessanta gradi per la tutela dei diritti dei palestinesi. Una battaglia combattuta da rabbini prima ancora che da cittadini israeliani. Perché - spiegano - è la Torah a chiedere questo tipo di atteggiamento. Anche se oggi in Israele la maggior parte dei gruppi religiosi sostiene il contrario. Come la maggior parte di questi rabbini, Arik Ascherman non è un sabra, un ebreo nato in Israele: viene da Erie in Pennsylvania, ha studiato ad Harvard, ed è stato ordinato rabbino a New York nel 1989. Ma il gesto compiuto il 7 aprile 2003 non è stato affatto un colpo di testa improvviso. Rabbi Ascherman è infatti una delle persone che in Israele hanno studiato più a fondo il problema dell'abusivismo edilizio a Gerusalemme Est. Un tema legato a filo doppio al tentativo di buttare fuori dalla "capitale eterna e indivisibile di Israele " il maggior numero possibile di palestinesi. Il rabbino ha condiviso le storie e le lacrime di decine di famiglie che, vista l'impossibilità effettiva di ottenere una licenza, hanno osservato impotenti i bulldozer abbattere la propria casa. E in nome della Torah ha gridato all'ingiustizia di questa situazione. Di fronte, però, all'escalation di demolizioni seguita allo scoppio dell'intifada (ma forse sarebbe meglio dire all'ipotesi di spartizione di Gerusalemme ventilata a Camp David e soprattutto a Taba), Ipotesi, come l'intero accordo, per due volte respinta dai palestinesi. Ascherman ha deciso che le parole non bastavano più. E ha scelto la resistenza passiva come strada per difendere le case di due delle famiglie più ingiustamente colpite dall'ordinanza di demolizione. Quel giorno non è bastato a salvare loro un tetto: i bulldozer hanno fatto comunque il loro lavoro. Il 7 aprile 2003 il rabbino ha scritto: «In quei momenti ho perso la mia kippah. Non sono rimaste molte cose tra le macerie di quelle case: le famiglie erano riuscite a portare via molto di ciò che possedevano. Non è stata, dunque, una di quelle demolizioni dove poi si trovano tra le macerie giochi di bambini, vestiti e libri di scuola. Tuttavia c'è rimasta sotto una kippah e penso che questo significhi qualcosa. Forse è un simbolo che i valori ebraici in cui ho sempre creduto sono stati calpestati e sepolti. Ma forse significa anche l'opposto. Forse è un simbolo del fatto che là c'erano degli ebrei che si sono schierati contro l'ingiustizia nel nome della Torah». La storia non è comunque finita quel giorno: la denuncia subita da Ascherman ha fatto il suo corso e si è arrivati al processo. E il 21 settembre 2004, attraverso la sua deposizione davanti alla Corte, il rabbino ha trasformato il dibattimento in un duro atto di accusa nei confronti della municipalità di Gerusalemme. Tutto questo non è bastato a evitare ad Ascherman una condanna: il 22 marzo 2005 il giudice lo ha dichiarato colpevole di resistenza a pubblico ufficiale, no n accettando dunque di entrare nel merito delle questioni sollevate dalla difesa sulla politica urbanistica seguita dalla municipalità di Gerusalemme. Allo stesso tempo, però, accogliendo una richiesta avanzata dalla stessa accusa, la Corte ha evitato di comminare una pena detentiva vera e propria (sulla carta avrebbe potuto decretare fino a tre anni di carcere). Non volendo creare un "caso", ha proposto ad Ascherman di concordare una serie di servizi sociali da svolgere come misura alternativa. Ipotesi che il rabbino ha accettato, a condizione che questo non pregiudichi la possibilità di ricorrere in Appello. Perché la sua battaglia non è affatto finita. E proprio per sottolinearlo, appena la notizia della sentenza è stata resa nota, lui è andato a Issawiya a porre pubblicamente la prima pietra della casa (anche questa volta illegale) che quest'estate ricostruirà per Ahmad Musa Da'ari. Il processo è stato l'evento che ha portato Rabbis for Human Rights al centro della ribalta. Ma l'associazione è impegnata su tanti altri fronti. Da alcuni anni, per esempio, fa una cosa molto semplice: durante il periodo della raccolta delle olive va a scortare i contadini palestinesi nei loro campi più "esposti" rispetto agli insediamenti israeliani nei Territori. Può sembrare una cosa da nulla, invece anche prima dello scoppio della seconda intifada ci sono stati dei morti in tali occasioni. Quando, in quali circostanze? La vaghezza di questo riferimento è assoluta. Vale infatti la pena di ricordare che i comportamenti illegali e aggressivi dei coloni non nascono come reazione al piano Sharon: ben prima che l'opinione pubblica mondiale se ne accorgesse, tanti contadini palestinesi avevano constatato a proprie spese lo strapotere dei coloni osservandoli razziare impunemente i campi altrui o spostare in avanti la propria recinzione senza che l'esercito israeliano osasse muovere un dito. Anche in questo caso non vengono forniti dati precisi, mentre la responsabilità delle presunte razzie e prepotenze viene adossata indistintamente a tutti i coloni. È per questo motivo che dal novembre 2000 i volontari di Rabbis for Human Rights ogni autunno aiutano i palestinesi nella raccolta delle olive. Vigilano sugli abusi. Svolgono personalmente la mietitura nelle aree che, nonostante restino di proprietà dei contadini arabi, sono loro vietate "per ragioni di sicurezza", essendo giudicate troppo vicine a qualche insediamento. Con la costruzione del muro la situazione si sta ulteriormente complicando: sono centinaia, infatti, i campi coltivati a ulivo divenuti inaccessibili ai loro proprietari a causa della barriera. E, come testimoniato in un dettagliatissimo rapporto steso al termine della mietitura 2003, i passaggi che dovrebbero essere garantiti per i lavoratori agricoli troppo spesso restano sulla carta. Ma va detto anche che, proprio grazie alla presenza di questi volontari israeliani, in alcuni posti la situazione è molto migliorata: nello stesso rapporto l'associazione dà atto all'esercito di aver mostrato un atteggiamento di maggiore collaborazione nello sforzo di garantire il rispetto dei diritti dei contadini palestinesi. Un altro filone importante di attività è quello dei rapporti interreligiosi con cristiani e musulmani: fortunatamente questa non è l'unica associazione che a Gerusalemme scommette su incontri comuni per costruire dal basso un clima più favorevole alla pace. Se ne potrebbero citare tante altre. Però Rabbis for Human Rights ha osato compiere un gesto più forte di altri: ha portato il dialogo in mezzo a chi ha fatto personalmente le spese di un odio ammantato di motivazioni religiose. Un rabbino dell'associazione è andato insieme a un imam e a un sacerdote arabo del Patriarcato latino all'ospedale di Hadassah, il più grande di Gerusalemme, per fare visita ai feriti di uno degli attentati più gravi. Un modo quanto mai compromettente per dire a chi ne porta sulla propria carne le ferite che quello degli shahid non è il vero volto dell'islam. E, qualche settimana dopo, lo stesso rabbino, lo stesso prete e lo stesso imam si sono recati a Ramallah a visitare i feriti civili di un'incursione dell'esercito israeliano. Perché in questa guerra non si può chiedere di compromettersi sempre e solo a una parte. La visita ai feriti di un incursione dell'esercito israeliano è un'ottima cosa. Non lo è invece che se ne faccia un uso propagandistico, sostenendo un'impossibile equivalenza tra l'aggressione terroristica palestinese, che ha per obiettivo i civili, e la difesa israeliana, che ha per obiettivo i terroristi stessi. Che poi "in questa guerra" si chieda di "compromettersi sempre e solo a una parte sola", vale a dire a quella palestinese è una circostanza conosciuta solo da Bernardelli. A noi sembra che le condanne e le richieste di condanna del governo israeliano non siano certo mancate, tra gli osservatori, più o meno parziali, del conflitto arabo-israeliano. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione di Avvenire. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.