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Il Manifesto Rassegna Stampa
17.06.2005 La pena di morte è solo per gli israeliani innocenti
un articolo di Ali Rashid, "primo segretario della Delegazione palestinese in Italia"

Testata: Il Manifesto
Data: 17 giugno 2005
Pagina: 11
Autore: Ali Rashid
Titolo: «Una firma sbagliata»
Sul MANIFESTO di venerdì 17 giugno 2005 Ali Rashid, "primo segretario della Delegazione palestinese in Italia" pubblica un articolo intitolato "Una firma sbagliata", nel quale condanna le quattro esecuzioni capitali decise da Abu Mazen.
Segnaliamo un passaggio, dal quale emerge la natura integralmente politica e nient'affatto umanitaria dell'"indignazione" di Rashid, il quale in realtà, coglie solo l'occasione di attaccare la leadership troppo moderata di Abu Mazen : "abbiamo persino ripudiato l'uso della violenza
contro il nostro carnefice: e ora introduciamo la violenza e la vendetta nel
codice penale che dovrebbe governare la vita interna della nostra società?".
Traduzione: abbiamo persino smesso (quasi) di ammazzare israeliani innocenti, e ora uccidiamo palestinesi accusati di omicidio?

Ecco l'articolo:

Da un po' di tempo non sentivo questo senso di vergogna e di imbarazzo, sentimenti che ho riscontrato in molti palestinesi, a causa dell'esecuzione
della pena capitale di quattro detenuti palestinesi. Non avrei mai immaginato
che il presidente Abu Mazen firmasse quelle condanne, anzi mi aspettavo che la pena di morte sarebbe stata cancellata, e per sempre, dalle leggi in vigore ereditate da epoche precedenti in attesa della scrittura di un codice finalmente palestinese, all'altezza delle aspettative e delle molteplici sfide future che dovremo affrontare. In me, quella firma ha causato profonda delusione, smarrimento e un senso di straniamento, speravo di non essere interpellato al riguardo, ma non è andata così. Io sono consapevole dell'enormità dei problemi che l'Anp deve affrontare e risolvere, dovuti a sessant'anni di guerra e occupazioni feroci, imposte da Israele. E sono consapevole insieme a tutti i palestinesi del degrado sociale, culturale e politico che questa situazione ha causato e la cui soluzione richiede un rigoroso rispetto delle leggi e delle norme che regolano una convivenza civile e aiutano un intero popolo a risollevarsi dal degrado. Tutto questo non può prescindere dalla qualità delle leggi, il cui obiettivo deve essere rafforzare solidarietà e risanamento - e non punizione e vendetta che le istituzioni democratiche non possono e non devono perseguire. I palestinesi da sessant'anni sono vittime delle politiche di punizioni, rappresaglie e vendette, vere responsabili del degrado e che non possono in alcun caso rappresentare una soluzione. Temo che qualcuno abbia scambiato il rigore con il pugno di ferro e
l'autorevolezza di un governo con la crudeltà, e questo non depone a suo favore e alla lunga trasforma il popolo palestinese in vittime due volte: la volta a opera del suo carnefice, la seconda di quello che avrebbe dovuto lavorare per il suo affrancamento. Hamas chiede l'esecuzione di altri imputati, accusati di avere fornito informazioni che avrebbero aiutato Israele ad assassinare alcuni dei suoi dirigenti, altrimenti si farà giustizia da sé. Credo che l'autorevolezza di un governo stia soprattutto nella sua coerenza. Il presidente Abu Mazen fu eletto sulla base di un programma che promette democrazia, trasparenza e civiltà giuridica. Quella firma contraddice queste promesse. Addirittura, abbiamo stabilito che la non violenza e la democrazia, il rispetto, e per tutti, del diritto internazionale avrebbero rappresentato la nuova via per la liberazione nazionale e la fine dell'occupazione israeliana. Con questo, abbiamo persino ripudiato l'uso della violenza contro il nostro carnefice: e ora introduciamo la violenza e la vendetta nel codice penale che dovrebbe governare la vita interna della nostra società? Molti palestinesi, convinti sostenitori del presidente Abu Mazen, non si riconoscono in quella firma, la ritengono sbagliata. Queste esecuzioni non sono soltanto un errore politico grave da non ripetere ma un segnale culturalmente angosciante, di fronte al quale il silenzio diventa complicità.
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