Terrorismo e disordini etnici in Iran, elezioni iin Libano analisi sul Medio Oriente
Testata: Il Foglio Data: 14 giugno 2005 Pagina: 3 Autore: un giornalista Titolo: «L'Iran accusa gli Stati Uniti di aiutare i sabotatori del voto - Nell'ingorgo democratico libanese Aoun si trova a fare il vigile»
IL FOGLIO di martedì 14 giugno 2005 pubblica a pagina 3 l'articolo "L'Iran accusa gli Stati Uniti di aiutare i sabotatori del voto", che riportiamo: Roma. L’Iran, dopo le bombe che hanno insanguinato il Khuzestan e riportato il terrore nel cuore della sua capitale a cinque giorni dal voto, s’interroga sui mandanti. Messi da parte i toni morbidi di una campagna elettorale protesa al dialogo con l’occidente, la Repubblica islamica è tornata ad accusare Washington. Secondo la ricostruzione del Consiglio di sicurezza nazionale, i responsabili dell’attentato, animati dalla volontà di sabotare il voto, non possono che essere penetrati in Iran dall’Iraq meridionale con il beneplacito degli americani e degli inglesi. Se le autorità indicano quest’ultima come una connivenza acclarata, sull’identità degli esecutori degli attacchi prevale l’incertezza. Le principali categorie di indiziati sono due: l’organizzazione terroristica islamo-marxista dei Mujaheddin-e-Khalq (Mek) e la variegata galassia di separatisti panarabi del Khuzestan. Nel primo caso, si tratta di nemici di lungo corso, ex rivoluzionari sconfessati dall’ayatollah Khomeini, finiti poi sul libro paga di Saddam Hussein e già protagonisti di sanguinosi attentati. "Questi terroristi sono stati addestrati dagli americani in Iraq", ha detto il dirigente del Consiglio di sicurezza nazionale, Ali Agha Mohammedi. L’accusa rimanda ai Mek, buona parte dei quali è rimasta in Iraq dopo la caduta di Saddam, in un regime ibrido tra cattività e semi libertà. Nonostante il dipartimento di Stato americano abbia inserito l’organizzazione nella sua lista di gruppi terroristici, i Mek hanno insinuato il dubbio di poter rappresentare la punta di diamante dell’opposizione al regime (seppur non godendo di alcun credito presso la popolazione iraniana) e certuni ambienti del Congresso americano hanno sposato la loro causa. Il rischio di una nuova offesiva dei Mek, coadiuvata dalle forze anglo-americane, era già stato denunciato dalle autorità iraniane nei mesi scorsi. Nella capitale del Khuzestan, provincia ricca di petrolio al confine con l’Iraq, prevale l’ipotesi "araba". Il governatore della regione, Ali Hadad, spalleggiato da molti quotidiani, ne sembra essere convinto. Secondo il giornale Sharq, gli attentatori sarebbero "baathisti", Fajr, invece, attribuisce la carneficina al "Battaglione rivoluzionario per i martiri di Ahvaz". In un messaggio, riportato dall’agenzia iraniana Irna, l’organizzazione separatista ha chiesto agli arabi del Khuzestan di disertare le urne in segno di sfida agli "occupanti iraniani". Un invito che ne ricorda un altro, distribuito dal Fronte democratico popolare degli arabi di Ahvaz durante i disordini del 15-18 aprile scorso. La violenza si è scatenata dopo la diffusione di una lettera attribuita al vicepresidente iraniano, Mohammad Ali Abtahi, in cui si invocava l’espulsione dalla regione della popolazione di orgine araba e la successiva ricolonizzazione persiana dell’area. Il documento, denunciato come un falso dallo stesso Abtahi, è stato il catalizzatore di una protesta che ribolle da tempo sotto le ceneri. Ad aprile, le autorità iraniane hanno incolpato i controrivoluzionari, ammettendo che il Khuzestan non è riuscito a gettarsi dietro le spalle la devastazione della guerra contro l’Iraq. Alle ipotesi ufficiose si contrappongono le tesi della comunità dei blog. Alcuni insinuano che dietro gli attentati ci sia la mano dei servizi iraniani. Secondo Windsteed, gli Ossulgarayan (i conservatori fondamentalisti) hanno architettato una strategia per sabotare la corsa del favorito alle presidenziali, Hashemi Rafsanjani, seminando il caos per convincere gli elettori del bisogno di avere un militare, come capo di Stato. Se non ci riusciranno, potrebbero continuare nel loro piano anche dopo l’eventuale vittoria di Rafsanjani, per costringerlo alle dimissioni. Prevedono – asserisce Windsteed – che i disordini si estenderanno e che la Guida suprema, Ali Khamenei, invocherà nuove elezioni (in base all’articolo 131 della Costituzione), favorendo l’ascesa di un candidato gradito. Le bombe di domenica hanno avuto l’effetto di un terremoto sulla vigilia elettorale. Le conseguenze nell’urna e l’entità del temuto astensionismo si prestano a contraddittorie chiavi di lettura. Sempre a pagina 3 un articolo sulla situazione libanese: "Nell'ingorgo democratico libanese Aoun si trova a fare il vigile". Ecco il testo: Beirut. Domenica il Libano ha veramente votato. Più di un milione di persone si sono mobilitate per andare alle urne: l’affluenza è stata superiore al 50 per cento. Le zone interessate dallo scrutinio sono state la regione centrale del Monte Libano, feudo cristiano e, a est, la valle della Bekaa. Domenica mattina, a Beirut, nel quartiere di Furn el Shubbak – una delle circoscrizioni chiamate alle urne – c’è già un movimento insolito per un giorno festivo. Gruppi di giovani in automobile fanno avanti e indietro sulla via centrale clacsonando e sventolando bandiere di diversi colori. Davanti ai seggi, i militanti dei vari gruppi distribuiscono volantini. Alle 10 e 30, soltanto poche ore dopo l’apertura dei seggi, in una scuola hanno già votato quasi cento persone. Da Furn el Shubbak parte la strada conosciuta come via di Damasco, che sale candiverso la valle della Bekaa, passando per villaggi della zona di Baabda-Aley, la circoscrizione dove la battaglia elettorale è stata più intensa. Domenica mattina alle 11, la via di Damasco è bloccata: sia in salita sia in discesa il traffico procede a passo d’uomo. I giornali libanesi hanno parlato della prima vera prova di democrazia per il paese. I due appuntamenti elettorali delle scorse settimane, nella capitale, dove ha vinto Saad Hariri, figlio dell’ex premier assassinato, e nel sud, dove il blocco sciita Hezbollah-Amal ha ottenuto un successo, sono stati plebiscitari. Domenica, invece, lungo la via di Damasco, la battaglia elettorale è stata intensa. Nelle automobili che salgono verso la Bekaa o scendono verso villaggi sulle colline che circondano Beirut, ci sono intere famiglie o gruppi d’amici. La meta è per tutti la cabina elettorale. Ogni veicolo mostra con fierezza l’immagine di un candidato, i colori di un partito o la bandiera di un gruppo. Su ogni parabrezza è incollata una fotografia: l’immagine dell’ex premier assassinato, Rafiq Hariri, quella del leader druso Walid Jumblatt o di suo padre Kamal, il viso del generale maronita Michel Aoun, tornato da poco da 15 anni d’esilio, gli adesivi di Samir Geagea, leader delle Forze libanesi, in prigione, disegni del segretario generale degli Hezbollah, Hassan Nasrallah. Ci sono tutte le bandiere e tutti i colori: l’arancione di Aoun, il bianco di Geagea, il rosso del partito socialista del druso Jumblatt, il giallo del gruppo sciita. I militanti, decorati con i vari gadget dei gruppi di appartenenza, accolgono con acclamazioni tutte le auto impacchettate con i loro colori e fischiano agli altri avversari. Gli altoparlanti suonano le canzoni dei diversi movimenti. I più giovani distribuiscono immagini dei candidati, mentre i viandanti comprano panini in banchetti improvvisati sulle piazze. Domenica, l’arancione di Aoun ha riportato un grande successo in alcune circoscrizioni. Il generale antisiriano, dal suo ritorno, non è riuscito a trovare un’intesa con l’opposizione e si è alleato con alcune figure vicine a Damasco. Nonostante ciò, molti cristiani hanno votato per lui e il generale guiderà sicuramente un largo gruppo d’opposizione in Parlamento. Intervistato da una tv locale, il leader druso Jumblatt, che farà invece parte della nuova maggioranza, ha avuto parole preoccupate; ha parlato addirittura di guerra civile e di un nuovo intervento siriano: teme le divisioni fra cristiani, sparpagliati tra il blocco dell’attuale opposizione e la lista di Aoun. Il quotidiano Nahar ieri titolava: "Il Libano davanti a due scelte, la riconciliazione o il radicalismo". 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