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La Stampa Rassegna Stampa
13.06.2005 L'opinione di Avraham B. Yehoshua sul disimpegno da Gaza
che per lo scrittore è una fuga.

Testata: La Stampa
Data: 13 giugno 2005
Pagina: 1
Autore: Avraham B. Yeoshua
Titolo: «Il ritiro da Gaza è una fuga»
Non ci convincono le opinioni di A.B.Yehoshua, riportate su LA STAMPA di lunedì 13 giugno 2005 nell'articolo "Il ritiro da Gaza è una fuga".
Ne lasciamo il giudizio ai lettori.

Ecco il pezzo:

Il capo di stato maggiore uscente dell’esercito israeliano, Moshe Yaalon, in un’intervista al quotidiano Ha’aretz ha pessimisticamente previsto una ripresa dell’Intifada in Giudea e Samaria dopo il ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza. Dalle sue parole era difficile capire se a scatenare la nuova ondata di violenza sarà il ritiro da una sola zona, come affermano i sostenitori della pace, oppure il fatto stesso di ritirarsi, come assicurano i nazionalisti religiosi. Tra queste due posizioni c’è una grande differenza. Infatti, benché da ogni parte si levino previsioni di una possibile ripresa dell'Intifada, i rappresentanti della sinistra sono convinti che l'unico modo per evitarla sarebbe un prosieguo del processo di pace (con un nuovo ritiro unilaterale o una riapertura del negoziato per la creazione di uno Stato palestinese in base alla Road Map). La destra religiosa, invece, sostiene che sarà la debolezza che gli israeliani dimostrano ritirandosi unilateralmente (o meglio, fuggendo da Gaza, secondo il loro punto di vista) a rinfocolare lo spirito combattivo dei palestinesi e a incoraggiarli a proseguire lungo la strada della violenza. Anche l’uscente capo di stato maggiore dell'esercito ha sottolineato la grande importanza del modo in cui i palestinesi interpreteranno il ritiro unilaterale israeliano: come una libera scelta per definire meglio i confini e ridurre l’attrito tra le parti o come una fuga dovuta all'incapacità di fronteggiare i problemi che pone il controllo su quella regione?
Innanzi tutto voglio premettere che la mia esperienza di vita mi ha insegnato a dubitare delle analisi dei militari.
Il fatto che questi ultimi possiedano fonti di informazione nascoste e interne ai loro avversari non li rende sempre affidabili e obiettivi. Ricordo che i generali americani terrorizzarono il loro popolo con previsioni apocalittiche nel caso il loro Paese si fosse ritirato dal Vietnam. La famosa teoria del domino che prevedeva la caduta di tutto il Sud-Est asiatico nelle mani dei comunisti non solo non si è avverata ma è avvenuto esattamente il contrario: gli Stati Uniti sono usciti rafforzati da quell'episodio mentre il comunismo si è indebolito in tutto il mondo. Gli stessi generali israeliani come Yaalon, Mofaz e altri, pronosticarono drammatiche conseguenze al disimpegno israeliano dal Sud del Libano ma ecco che, a distanza di cinque anni, non vi è nulla da segnalare. Nel periodo in cui Israele occupava la fascia di sicurezza libanese la media annuale di nostri soldati caduti arrivava a una trentina. Dal giorno del disimpegno, viceversa, sono rimasti uccisi solo sei soldati e nella zona regna la calma.
Dall’inizio del conflitto tra ebrei e palestinesi, risalente a più di centovent’anni fa, questi ultimi hanno sempre vissuto con la sensazione di trovarsi in uno stato di continua sconfitta e fallimento. Da un insediamento di soli cinquantamila ebrei alla fine della Prima Guerra mondiale si è giunti a uno Stato che conta quasi sei milioni di cittadini ebrei agli inizi del ventunesimo secolo, dotato di un potente esercito e di armi nucleari, con una fiorente economia di stampo occidentale e ragguardevoli risultati in campo scientifico. Gli arabi invece, e soprattutto i palestinesi, non hanno fatto altro che perdere territori e sono l'unico popolo al mondo ancora senza un governo indipendente nella propria madrepatria. Ogni vittoria quindi - militare o politica che sia - persino la più piccola, che possa restituire territori sottratti, non solo non risveglierebbe gli istinti violenti dei palestinesi ma, al contrario, li blandirebbe e infonderebbe in loro la speranza di un accordo o di una riappacificazione con Israele. Così avvenne in Libano e così fu in seguito alla guerra dell'ottobre 1973, quando l’esercito egiziano riuscì a sorprendere lo Stato ebraico, ad attraversare il Canale di Suez e a mantenere il controllo su una stretta striscia di territorio lungo la sponda orientale del Canale sino alla fine della guerra. Malgrado Israele avesse alla fine ribaltato le sorti del conflitto e il suo esercito, dopo aver superato a sua volta il Canale di Suez, fosse arrivato a cento chilometri dal Cairo, gli egiziani si ritennero vittoriosi in quella guerra grazie alla summenzionata piccola conquista. E fu la sensazione di soddisfazione per quella vittoria a portarli negli Anni Settanta a riconoscere l’esistenza di Israele e a firmare con esso un accordo di pace nel 1979.
Quindi, se Israele insiste a definire il ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza una libera scelta e non una fuga, non solo commette obiettivamente un errore ma compie anche una mossa dannosa a lungo termine. Sì, il ritiro da Gaza è indubbiamente una fuga, come sostengono i coloni, soprattutto per il primo ministro Sharon che ha sempre dichiarato che il blocco di insediamenti ebraici nella striscia, denominato Gush Katif, sarebbe rimasto per sempre sotto la sovranità israeliana. Tale fuga quindi (o ritiro unilaterale, o riparazione all'errore storico, assurdo e immorale di insediare venticinque anni fa dei coloni accanto a dei campi profughi palestinesi) può essere facilmente considerata una piccola vittoria dei palestinesi, della loro lotta caparbia e della loro resistenza a quegli insediamenti, e servirà non solo ad accrescere la loro autostima ma, a mio avviso, sarà utile anche a Israele. Se infatti i palestinesi avranno la sensazione di essere riusciti con le loro sole forze a costringere lo Stato ebraico a ritirarsi da zone conquistate, si sentiranno degni di sedere al tavolo dei negoziati come interlocutori alla pari. O almeno di godersi il frutto del loro piccolo successo risanando l'economia della striscia di Gaza e rendendo quella zona un luogo sicuro e tranquillo.
Forse mi illudo, ma ho la chiara sensazione che i palestinesi della striscia di Gaza non lanceranno più proiettili di mortaio e missili Kassam sulle cittadine israeliane dopo lo smantellamento delle colonie ebraiche e il disimpegno dell'esercito. Non solo perché la soddisfazione della vittoria li renderà appagati e tranquilli, o perché, dato che la presenza delle colonie era come una ferita aperta nella loro carne, ora proveranno un senso di sollievo e di calma e rinunceranno alla pretesa di far tornare i profughi in Israele, o per lo meno la sposteranno da un piano concreto a uno simbolico. I palestinesi metteranno fine ai loro attacchi per un altro motivo, più importante e pratico, che spero detterà d’ora in poi il comportamento di Israele. Dopo il ritiro unilaterale, infatti, i palestinesi non si troveranno più davanti a soldati conquistatori e oppressori, impegnati in rastrellamenti di casa in casa alla ricerca di terroristi o di responsabili di lanci di missili e proiettili di mortaio sulla popolazione civile israeliana. Avranno piuttosto a che fare con un esercito combattente, contrapposto a un'entità che sarà responsabile di tutti gli elementi che la compongono. La reazione israeliana a un eventuale lancio di missili comporterà un'offensiva diretta contro la popolazione civile nemica e contro chi ne è responsabile e ne appoggia i comportamenti aggressivi. Che tale responsabile sia l'Autorità palestinese o Hamas per Israele non fa differenza. Il suo esercito si trasformerà da conquistatore e oppressore in belligerante e opererà secondo le regole di guerra in atto tra Stati sovrani.
Proprio perché la reazione israeliana a un eventuale lancio di missili verso obiettivi civili sarà ferma e intransigente dopo il ritiro unilaterale, sono certo che la calma regnerà nella striscia di Gaza. E se, grazie a quella calma, si inizierà un rapido sviluppo economico della regione, questa servirà da esempio per un analogo smantellamento delle colonie della Giudea e della Samaria che potrebbe sfociare in modo naturale in colloqui per una tregua e per eventuali accordi di pace.
Si può dunque affermare con sicurezza che un riconoscimento da parte di israeliani e palestinesi del ritiro - o della fuga o della sconfitta israeliana a Gaza - potrebbe rappresentare un incentivo per la pace. L'onore ritrovato dei palestinesi di Gaza avrà lo stesso effetto che ebbe per gli egiziani l'episodio del Canale di Suez durante la guerra dell'ottobre 1973. Gli israeliani hanno ottenuto abbastanza vittorie nelle loro guerre, non hanno bisogno di altri onori né che venga riconosciuta la loro forza. Ciò di cui hanno bisogno è di essere accettati come presenza legittima e stabile in Medio Oriente.
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