Europa timida, America decisa Il pericolo Iran in convegno di Magna Carta a Lucca
Testata: La Stampa Data: 05 giugno 2005 Pagina: 11 Autore: Maurizio Molinari Titolo: «Europa e USA, voci dissonanti sull'Iran»
Seminario sulle relazioni transatlantiche a Lucca organizzato dalla Fondazione Magna Carta. Venerdì era intervenuta con una approfondita relazione sul Medio oriente Fiamma Nirenstein. Sabato si è discusso di Iran. Ecco il pezzo dell'inviato della STAMPA Maurizio Molinari. Stati Uniti ed Europa non sono in sintonia sull'ipotesi di un cambiamento di regime in Iran mentre condividono le preoccupazioni sulla stabilità della Russia di Vladimir Putin. Questo è emerso da due giorni di lavori a porte chiuse del seminario sulle «Nuove relazioni transatlantiche» organizzato dalla fondazione «Magna Carta» riunendo una trentina di analisti e politici dei due lati dell'Atlantico per affrontare l'agenda euroamericana passati oramai i primi cento giorni dall'inizio del secondo mandato di Bush. La questione iraniana è stata sollevata da alcuni degli americani presenti, come Danielle Pletka, vicepresidente dell'«American Enterprise Institute», e Meyrav Wurmster, dell'«Hudson Institute», secondo cui l'agenda della guerra al terrorismo iniziata all'indomani dell'11 settembre 2001 porta ad avere la necessità di un cambio di regime a Teheran per tre ragioni convergenti. Primo: la determinazione iraniana a dotarsi dell'arma atomica. Secondo: il coinvolgimento di Teheran con organizzazioni terroristiche come gli Hezbollah. Terzo: la violazione dei diritti umani da parte di un regime dalle caratteristiche totalitarie. Parere diffuso fra gli analisti americani è che il secondo mandato di Bush sia iniziato con una svolta: la scelta della Casa Bianca di porre l'accento sul terzo motivo, ovvero il diritto del popolo iraniano ad essere governato da leader democraticamente eletti. Da qui lo scenario di un possibile «cambio di regime» che potrebbe avvenire dall'interno se gli iraniani trovassero la forza, ed avessero il sostegno esterno necessario, per sfidare un regime che trae la sua legittimità dalla rivoluzione khomeinista del 1979. Ma questo approccio ha trovato molto scettici gli italiani seduti attorno al tavolo, come l'ex ministro degli Esteri Lamberto Dini e Stefano Silvestri, presidente dell'Istituto di affari internazionali, secondo i quali non è assolutamente detto che un cambio di regime a Teheran possa aiutare a prevenire la proliferazione nucleare in Medio Oriente mentre invece aperture e trattive negoziali con l'Iran - come quelle intavolate dall'Unione Europea con il sostegno di Washington - potrebbero riuscire a neutralizzare i rischi strategici legati all'entrata degli ayatollah nel club delle potenze nucleari. Sull'approccio alla Russia di Putin invece americani ed europei hanno registrato forti convergenze. Un serrato confronto fra quattro cremlinologi - Arie Cohen della «Heritage Foundation», Radek Sikorski della «New Atlantic Initiative», Victor Zaslavsky dell'Università Luiss e Eugene Rumer della «National Defence University» - ha fatto emerge il rischio che l'incapacità di affrontare i problemi economici e politici interni possano trasformare la Russia in uno «Stato fallito» obbligando l'Europa come gli Stati Uniti ad un maggiore impegno per garantire la stabilità dell'area ex sovietica. I timori legati alle politiche di Putin comprendono anche casi-limite come il rischio che l'oligarga Mikhail Khodorkovsky possa morire durante i novi anni di detenzione a cui è stato condannato. Comune anche la preoccupazione per quanto sta avvenendo in Siberia, dove gruppi cinesi sempre più numerosi si insediano oltre il confine russo senza tuttavia che Mosca ne favorisca l'integrazione, innescando così una spirale di tensione dagli esiti imprevedibili. Il seminario è stato caratterizzato anche da un vivace scambio di battute fra Larry Korb, del «Center for American Congress» di area democratica nonché guidato da John Podesta, e Paul Berman, giornalista del settimanale neo-liberal «New Republic» ed autore del libro «Terrore e liberalismo». Confermando di rappresentare i diversi approcci del mondo democratico alla guerra al terrorismo Berman e Korb si sono scontrati sulla risposta da dare alla sfida dell'11 settembre: il primo ha difeso l'idealismo basato sulla convinzione che le elezioni in Iraq abbiano segnato una «svolta moderna» e democratica per l'intero mondo arabo, mentre il secondo ha difeso l'attualità di una politica estera «pragmatica e realista» capace di dialogare con regimi e governi arabi al fine di promuovere le riforme. «E' errato considerare il realismo una parolaccia» ha concluso Korb citando Henry Kissinger. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.