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Il Manifesto Rassegna Stampa
01.06.2005 Il complotto americano per impantanarsi in Iraq in eterno
svelato da Stefano Chiarini, il virtuoso della dietrologia

Testata: Il Manifesto
Data: 01 giugno 2005
Pagina: 3
Autore: Stefano Chiarini
Titolo: «Addio «exit strategy», gli Usa per la guerra civile»
La migliore della giornata: allo scopo di restare indefinitamente in Iraq gli Stati Uniti vogliono provocare la guerra civile in Iraq.

A sostenerlo è Stefano Chiarini del MANIFESTO di mercoledì 1 giugno 2005. A tale scopo hanno tra l'altro: sciolto l'esercito iracheno "in quanto istituzione multietnica e multiconfessionale" (non perchè espressione del regime totalitario baathista, responsabile di crimini contro i curdi), "affidato il monopolio della vita politico-istituzionale ai partiti sciiti e curdi arrivati a bordo dei loro carri armati" (non è vero, partiti sciiti e curdi in Iraq c'erano, clandestinamente o in zone che avevano strappato l'autonomia, da prima della guerra) escluso i sunniti, formato un governo provvisorio "su basi etnico - confessionali" ( il governo non è stato affatto imposto dall'America)...

Scegliere la migliore tra queste e tra le altre perle dell'articolo è difficile. Chiarini è una vera miniera di distorsioni antiamericane. Del terrorismo di al Qaeda, la cui volontà di creare una guerra religiosa tra sunniti e sciiti è apertamente dichiarata. ovviamente nessun cenno.

Ecco il testo:

Il vicepresidente Usa Dick Cheney, intervistato ieri sera da Larry King sulla «Cnn», ha sostenuto che la guerra in Iraq non dovrebbe finire prima del 2009, prima della fine del secondo mandato di Bush. Altri commentatori sono meno ottimisti e parlano di almeno dieci-quindici anni per piegare la resistenza irachena. L'amministrazione Usa parla di «vittoria imminente» ma mai di una vera «exit strategy» dal momento che tutto il dopoguerra in Iraq è stato calibrato al fine di giustificare a posteriori una permanente presenza in Iraq e, soprattutto, il saccheggio delle sue risorse a cominciare dal petrolio. La realtà è che gli Usa non hanno alcuna intenzione di lasciare l'Iraq e gli iracheni nessuna intenzione di essere governati dagli Usa o dai loro agenti locali. Gli iracheni continueranno a morire e con loro un numero sempre crescente di soldati Usa e dei loro alleati, anche italiani. Dall'inizio della guerra sono 1848 i soldati della coalizione morti in Iraq, 1663 dei quali americani, 89 britannici e 96 degli altri paesi. Una scia di sangue senza fine destinata ad allungarsi con il passare delle settimane anche grazie alla strategia scelta dall'amministrazione Bush che, consapevole dell'impossibilità di controllare l'Iraq punta apertamente ad una sua distruzione come entità statale unitaria e alla creazione di fatto, anche se non ufficialmente, di tante entità etnico confessionali in guerra le une con le altre. Gli Usa puntano a promuovere una guerra civile strisciante al fine di impedire il rafforzarsi di una resistenza «nazionale» al dominio americano sull'Iraq. Questa strategia ha segnato ogni decisione presa dagli Usa in Iraq e l'intero loro progetto istituzionale sin dalla formazione del primo governo provvisorio «locale». Da allora gli Usa hanno affidato il monopolio della vita politico-istituzionale ai partiti sciiti e curdi arrivati a bordo dei loro carri armati escludendo da essa la comunità sunnita identificata con il nazionalismo arabo e iracheno e con lo stesso esercito iracheno, non a caso sciolto dal proconsole Bremer in quanto istituzione multietnica e multiconfessionale in grado di costituire un centro unificante per il paese e di rivendicare un suo «ruolo nazionale». Tale strategia ha permeato di se l'imposizione all'Iraq di una costituzione provvisoria scritta a Washington, la formazione su basi etnico confessionali del governo provvisorio dopo il «passaggio dei poteri» del giugno del 2004, le elezioni del trenta gennaio, e infine la formazione del nuovo esecutivo curdo-sciita di Ibrahim Jafaari. Passaggio determinante di questo processo è stato il riuscito tentativo di escludere dal processo elettorale del tenta gennaio l'intera comunità sunnita e tutti coloro che erano contrari all'occupazione, sia attaccando e rendendo impossibile il voto nelle città sunnite, sia facendo fallire i tentativi di mediazione dei settori sunniti più moderati. In tal modo, con la complicità dell'Iran, dalle elezioni (boicottate in realtà dalla maggioranza degli iracheni) è uscito un esecutivo controllato da una parte dai movimenti separatisti curdi filo-Usa e dall'altra dai partiti sciiti filo-Usa e soprattutto filo-iraniani che hanno escluso ancor più i sunniti rappresentantivi della loro comunità da ogni posto di potere e soprattutto dalle forze di sicurezza messe in piedi dalla Cia e dai consiglieri americani. Le elezioni, con l'esclusione dei sunniti e di coloro che contestavano l'occupazione, ben lungi dall'aver avuto la più pallida coloritura democratica - come purtroppo hanno finito per sostenere anche alcuni settori dell'Ulivo e dei Ds, ma non solo - hanno costituito in realtà un altro passo verso quella «guerra civile» che gli americani stanno perseguendo dal loro arrivo in Iraq. Ovviamente l'esclusione di un'intera comunità, che ha sempre costituito l'ossatura delle istituzioni del paese dai tempi della dominazione ottomana, non poteva che portare ad un allargarsi della resistenza e ad un aggravarsi della guerra. Le elezioni del 30 gennio sono state quindi non un passo verso una «exit strategy» ma verso l'ulteriore discesa nelle sabbie mobili dell'Iraq. Basta vedere quel che sta avvenendo in queste settimane nel paese per rendersene conto: il cinico uso di miliziani sciiti, addestrati dalle «guardie della rivoluzione» iraniane, e curdi arruolati nelle nuove forze di polizia per reprimere le città e i quartieri sunniti di Baghdad, da abu Ghraib ad Ameriya, ha avuto ovviamente l'unico risultato di esasperare ancor più gli animi. Eventuali, ulteriori dubbi sulla volontà Usa di soffiare sul fuoco del confessionalismo dovrebbero essere stati fugati l'altra notte con il blitz a casa del leader sunnita moderato e capo dell'Iraqi Islamic Party, Muhsin Abel Hamid, da parte dei marines americani. Con il suo arresto - anche se solo per una notte - gli occupanti hanno volontariamente perso l'ultimo sunnita con il quale avevano la possibilità di negoziare. Niente male come «exit strategy».
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