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Il Manifesto Rassegna Stampa
31.05.2005 Poichè il terrorismo non esiste, la barriera difensiva è un soppruso
partendo da premesse false, qualsiasi conclusione è lecita

Testata: Il Manifesto
Data: 31 maggio 2005
Pagina: 0
Autore: Michele Giorgio
Titolo: «Aboud, dove il muro di Sharon si è preso tutto»
IL MANIFESTO di martedì 31 maggio 2005 pubblica a pagina 9 un articolo di Michele Giorgio sul villaggio palestinese di Aboud sui danni che vi procurerà la barriera di sicurezza israeliana.

Nulla viene detto sul terrorismo che ha reso necessaria la barriera. La distruzione della locale chiesa di Santa Barbara, del resto, è dovuta a "presunti «motivi di sicurezza»". Secondo gli israeliani nel sito e nelle grotte vicine si nascondevano terroristi, che però diventano, per Giorgio " giovani attivisti dell'intifada": così Israele avrebbe distrutto una chiesa per dare la caccia a giovani dei quali non condivideva le idee politiche...

Se il terrorismo lo si può tranquillamente dimenticare, la "presenza sempre più ingombrante dei coloni" va invece sempre tenuta a mente. L'insediamento di Halamish, in particolare "con le sue nuove villette dai tetti rossi costruite un anno fa ma rimaste vuote sino ad oggi, è la dimostrazione della continua espansione delle colonie negata dal governo Sharon". Le villette "costruite un anno fa" e "rimaste vuote sino ad oggi" "provano" "la continua espansione delle colonie". Vi sembra che ci sia un salto logico? Quando si tratta dia accusare Israele di qualcosa il quotidiano comunista non si perde certo in inutili sottigliezze.

Ecco l'articolo:

Dicono che Aboud sia il villaggio dei Territori occupati con più alberi d'olivo. Leggenda o verità, questo piacevole centro abitato a pochi chilometri da Ramallah e vicino alla «Linea verde», dove per secoli palestinesi cristiani e musulmani hanno sudato assieme lavorando la terra e le donne più anziane delle due fedi indossano gli abiti tradizionali, presto perderà questo primato. Nelle scorse settimane, l'esercito israeliano ha comunicato alla popolazione che il muro in costruzione in Cisgiordania passerà davanti alle loro case, strappando ad Aboud circa 800 ettari di terra, il wadi dei limoni, una delle sorgenti d'acqua potabile e persino le rovine della chiesa ortodossa di Santa Barbara (IV secolo), fatta saltare esattamente tre anni fa dall'esercito di occupazione per presunti «motivi di sicurezza». «Ci hanno detto che nel sito e nelle grotte vicine si nascondevano gli shebab (giovani attivisti dell'Intifada) e che pertanto dovevano ridurre tutto in macerie», racconta Amir Fawadle, un cattolico, mentre aspetta l'arrivo di padre Firas Arida alla chiesetta latina di Maria Dolorosa. Quella di Fawadle è una delle hammule (clan) di Aboud che assieme ai Sharie perderà tutto o quasi a causa del muro. «Siamo un'ottantina di famiglie, quasi tutte cristiane, che per secoli hanno vissuto grazie alla terra che ora ci vogliono portare via. Come faremo in futuro?», domanda l'uomo fissando sulla collina le rovine di Santa Barbara. Aboud, secondo la tradizione, avrebbe adottato la fede cristiana fin da tempi antichissimi, anche se oggi la maggioranza della popolazione è musulmana. Qui le due religioni hanno sempre vissuto in armonia, spesso festeggiando assieme le ricorrenze delle due comunità. Il 17 dicembre, ad esempio, musulmani e cristiani si recano a venerare la patrona Santa Barbara, una ragazza del posto, si racconta, che ai tempi dell'imperatore Diocleziano, si innamorò di un giovane cristiano, si fece battezzare e poi cadde martire delle persecuzioni.

Ai piedi della collina si trova la grotta sepolcrale di Santa Barbara dove i contadini accendono le loro candele durante le preghiere e chiedono alla santa di garantire al paese un buon raccolto. Le grotte dove, secondo l'esercito, avrebbero trovato riparo in più d'una occasione, i militanti dell'Intifada prima di entrare in territorio israeliano. «Ci hanno spiegato tanto cose - dice padre Firas - quello che sappiamo è che siamo gente pacifica che non ama la violenza». A mettere sull'avviso gli abitanti a proposito del tracciato nel muro, erano stati i volontari di «Operazione colomba», che nel villaggio mantengono una presenza costante a protezione della popolazione civile. «Abbiamo consegnato alle autorità locali le mappe geografiche israeliane, messe a disposizione dai centri per i diritti umani, mostrando come il muro toglierà ad Aboud centinaia di ettari di terra», riferisce Adriano, di Bergamo, «abbiamo detto che bisognava agire subito percorrendo le vie legali, locali e internazionali, per fermare il piano israeliano. Gli abitanti hanno reagito con ritardo, forse non riuscivano a credere che tutto questo sarebbe accaduto al loro villaggio». Aboud, paese degli ulivi e oasi di pace e convivenza, da quasi cinque anni vive sotto assedio. Non tanto dei militari israeliani ma per il blocco delle strade di collegamento con gli altri centri abitati.

Talvolta per compiere solo pochi chilometri di tragitto, gli automobilisti sono costretti a percorrere vie di campagna non asfaltate, per aggirare i posti di blocco dei soldati. Senza dimenticare la presenza, sempre più ingombrante, degli insediamenti colonici di Bet Aryeh, Ofarim e Halamish. Quest'ultimo con le sue nuove villette dai tetti rossi costruite un anno fa ma rimaste vuote sino ad oggi, è la dimostrazione della continua espansione delle colonie negata dal governo Sharon. «Nelle ultime settimane la situazione si è fatta più tranquilla ma la gente di Aboud continua ad avere paura, i soldati arrivano all'improvviso ma è molto peggio quando i coloni israeliani si spingono fino al paese per ribadire chi comanda in questa zona», spiega Adriano. «Spesso le famiglie si ritrovano, nel cuore della notte, i militari sulla porta di casa. Non possono far altro che sperare che vadano via in fretta, ma molte volte non va così bene. I soldati spesso passano ore e ore nelle abitazioni, facendo le stesse domande più d'una volta», aggiunge il volontario di «Operazione colomba». Amir Fawadle ha sogno. «Vorrei svegliarmi domani e ricevere la notizia che il muro non verrà più costruito e che potremo lavorare nei campi e nei frutteti, come abbiamo fatto sempre».
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