Il Libano è la Siria del sud l'ultimo panarabista ce lo assicura sul quotidiano comunista
Testata: Il Manifesto Data: 27 maggio 2005 Pagina: 11 Autore: Stefano Chiarini Titolo: «L'impossibile divorzio tra Beirut e Damasco»
L'indipendenza libanese non è una buona idea, dato che Siria e Libano, come recita il sommario dell'articolo di Stefano Chiarini pubblicato dal MANIFESTO di venerdì 27 maggio 2005, "sono uniti dalla storia e divisi dal colonialismo".
Chiarini sembra fare una considerazione di buon senso quando auspica che i rapporti economici tra Libano e Siria non si interrompano, perché la cosa danneggerebbe entrambi i paesi, ma è ovvio che questo non ha nulla a che vedere con l'occupazione militare sconfitta dalla "rivoluzione dei cedri". Rivoluzione che l'articolo vuole condannare. Giustamente condanna i pestaggi degli immigrati siriani in Libano, anche se chiamarli "pogrom" è improprio: i pogrom erano massacri. Peccato non abbia mai dimostrato altrettanto senso di giustizia nel condannare le violenze (queste sì, spesso mortali) dei palestinesi contro i coloni israeliani in Cisgiordania e Gaza. Le responsabilità dei siriani nel massacro antipalestinese di Tal el Zatar sono taciute da Chiarini, che non perde mai occasione incolpare falsamente Israele per Sabra e Chatila. Segnaliamo infine questo significativo passaggio "chiuso il confine con la Palestina occupata nel 1948... "
Per Chiarini Israele è "la Palestina occupata nel 1948".
Ecco l'articolo: Agli angoli di Hamra, cuore commerciale della parte occidentale della capitale e sede dei principali giornali e delle migliori librerie - addobbata di grandi striscioni per le elezioni di domenica - non si vedono più gli ambulanti siriani che vendevano fichi e mandorle, frutta e verdura a metà prezzo. Molti cantieri della ricostruzione, nel centro della città - così come molti alberghi, piccole fabbriche e serre- sono alla disperata ricerca di personale che possa sostituire i 400.000 operai fuggiti in Siria dopo i pogrom della «rivoluzione dei cedri» nei quali sarebbero stati uccisi almeno trenta immigrati. Vuote anche le pensioni che nelle parti più degradate della Beirut cristiana, vicino all'ex linea verde che ha diviso la città dal `75 al `90 - a est le milizie cristiano-maronite, a Ovest musulmani, progressisti d'ogni fede e palestinesi - ospitavano i lavoratori siriani per un dollaro o due il giorno, spesso in camere a tre, quattro letti. Gli altri si accontentavano di un giaciglio nei cantieri o negli scantinati degli edifici in costruzione o si erano sistemati alla meglio nei campi profughi palestinesi di Beirut, da sempre affollati anche da lavoratori immigrati e libanesi poveri: da Tal al Zaatar, il campo di Beirut est vittima della pulizia etnica falangista dove nel 1976 vennero uccisi oltre 4.000 abitanti, a Sabra e Chatila dove non pochi degli uccisi nel massacro del 1982 erano in realtà immigrati.
Pogrom anti-immigrati
Le tensioni seguite all'uccisione dell'ex premier Rafiq Hariri, lo scorso 14 febbraio, hanno portato al completamento del ritiro dell'esercito siriano presente nel paese sin dal 1976, ma hanno coinvolto anche gli immigrati siriani accusati di «togliere i posti di lavoro ai libanesi» e stanno rischiando di far saltare un'economia informale che ha sempre legato Siria e Libano, anche dopo la separazione dei due paesi fatta dai francesi con un colpo di penna nel 1920, al fine di avere uno stato a maggioranza cristiana ma con un minimo di territorio da poter sopravvivere. Difficile, se non impossibile, sostituire dall'oggi al domani dei lavoratori esperti, che parlano la stessa lingua, disposti a lavorare per 7-10 dollari il giorno, rispetto ai 15-19 chiesti da chi deve far fronte al costo della vita a Beirut, generalmente due volte e mezzo più elevato che a Damasco dove i prezzi sono calmierati dallo stato. Un dislivello che ha spinto ad esempio molti tassisti che lavorano sulla linea Beirut-Damasco, e non solo loro, a trasferirsi con le loro famiglie nella capitale siriana: «A Beirut pagavo un affitto di 300 dollari al mese e non arrivavo mai a coprire le spese - ci dice Mohammed, tassista della valle della Beqaa che, stanchissimo, fa due tre viaggi al giorno per la capitale siriana - ora invece ho trovato un appartamento in periferia e pago solo 100 dollari e con gli altri 200 mantengo senza problemi la mia famiglia. Senza contare che tutti i servizi sono in pratica gratuiti, mentre in Libano tutto è a pagamento». La Siria non ha mai riconosciuto la separazione del Libano imposta dalla Francia e così non ha mai aperto un'ambasciata a Beirut e considera tutti gli abitanti di quella che era la Siria precoloniale, a cominciare dai libanesi e dai palestinesi come suoi cittadini e quindi aventi diritto ad accedere al «welfare system» nazionale.
Riemergono i palestinesi
Gli imprenditori libanesi hanno cercato di correre ai ripari rivolgendosi di nuovo agli operai palestinesi, ignorati ed emarginati dalle discriminatorie leggi sul lavoro e sulla proprietà privata: «Ora, hanno scoperto di nuovo la nostra esistenza - ci dice Omar, meccanico del campo di Chatila - e hanno cominciato a chiamarci offrendoci paghe inferiori ai libanesi ma un po' superiori a quelle dei siriani. Tra tante disgrazie, questo ha portato nei campi un po' di lavoro e di soldi». Il numero limitato di edili e lavoratori palestinesi non consente però di coprire i vuoti lasciati dai siriani, così come non è stato sufficiente andare a reclutare forza lavoro nelle zone più depresse del nord, verso Tripoli. Serio il problema della mancanza di manodopera anche nel settore agricolo dove, se da una parte i contadini libanesi sembrano contenti di essersi liberati dalla concorrenza degli ortaggi siriani che arrivavano direttamente sui mercati a prezzi inferiori (le massaie libanesi non sono per nulla d'accordo con loro), dall'altra molti coltivatori, soprattutto nella valle della Beqaa, lamentano la scomparsa di quasi tutta la loro forza lavoro fuggita oltre confine. Una conferma delle difficoltà del Libano è venuta ieri dall'annuncio del ministero delle finanze, secondo il quale il gettito dell'Iva nel primo quadrimestre del 2005 sarebbe calato rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente di circa il 6%, a causa dei rimborsi parziali previsti per parte della merce invenduta.
Se i lavoratori siriani hanno ancora paura di tornare in Libano, anche i libanesi non osano per il momento varcare il confine per andare a fare la spesa in Siria - come ogni fine settimana facevano in centinaia di migliaia, tanto che alcuni suk di Damasco restavano aperti per loro anche la domenica - per non incorrere in eventuali vendette da parte dei parenti degli immigrati uccisi. L'autostrada Beirut-Damasco, poco più di una strada provinciale a due corsie, piena di tornanti, che dalla capitale si inerpica su per la montagna verso est - la stessa da cui scesero acclamati dai cristiano maroniti di Hazmiyeh le truppe siriane nel 1976 e nel 1982 quelle israeliane - fino a poche settimane fa affollata di autobus, minibus, macchine private dai capaci portabagagli, e camion carichi di merci, si percorre ora senza alcun problema. Deserto anche il posto di frontiera tra i due paesi. I negozi dal lato siriano del confine con il Libano che vendevano ai libanesi prodotti tessili, generi alimentari, elettrodomestici e materiali elettrici di produzione cinese o iraniana, sono desolatamente vuoti e così il grande edificio della dogana dove passavano le merci libanesi «di qualità» dirette in Siria. Chiusa anche la «strada militare» al di fuori di ogni controllo di frontiera, utilizzata dai militari siriani, dai notabili dei due paesi ma anche dai profughi palestinesi senza documenti. In tal modo entrambe le economie - si calcola che le rimesse dei lavoratori in Libano fruttassero alla Siria oltre un miliardo di dollari l'anno - hanno subito un grave danno ma a breve termine quella che sembra rischiare di più è proprio quella libanese, in particolare i settori più poveri della società.
Paura delle banche
Chiuso il confine con la Palestina occupata nel 1948, e fermo ora quello con la Siria, ai libanesi poveri non resta altro che emigrare dall'unico confine rimasto libero, quello del mare. Una situazione impossibile da sostenere. E se questa tendenza, favorita in parte dell'estrema destra libanese e da alcuni circoli ultrà di emigrati residenti negli Usa, decisi a «de-arabizzare» il Libano e a farne un'altra Israele che vive grazie al rapporto con gli Usa, staccata dal suo ambito regionale, dovesse estendersi al settore bancario e finanziario, le conseguenze potrebbero essere ancora più gravi per entrambi. La Siria, infatti, usa le banche libanesi per molte delle sue operazioni finanziarie con l'estero, soprattutto dopo le sanzioni introdotte dagli Usa, e queste a loro volta giocano un ruolo centrale nel processo di privatizzazione e di apertura all'estero del sistema bancario e finanziario siriano voluto dal presidente Bashar Assad. La prima tra le banche private che hanno ricevuto nel 2003 l'autorizzazione del governo di Damasco per aprire i loro sportelli nel 2004 è stata la «Bank of Syria and Overseas», il 39% della quale appartiene al potente istituto di credito libanese «Banque du Liban et d'Outre Mer», (Blom), da anni in affari con la Siria. La seconda banca privata che ha fatto la sua comparsa a Damasco è stata la «Banque Bemo Saudi Fransi», una joint venture tra investitori locali, la banca libanese «Banque Europeene pour le Moyen-Orient» (22%) e la saudita Banque Saudi Fransi (27%). Autorizzata a creare una sua consociata siriana anche la libanese Banque Audi.
Tentativi di dialogo
Nei giorni scorsi la stessa sorella di Rafik Hariri, Bahia, ha lanciato un appello ad abbassare i toni della polemica con Damasco, l'opposizione musulmana - forte anche di una diversificazione degli obiettivi tra Usa e Francia - ha rimandato l'eventuale richiesta di dimissioni del presidente Emile Lahoud, alleato della Siria, e ha chiesto che la consultazione di domenica si tenga utilizzando la legge del 2000 favorevole allo status quo uscito dagli accordi di Taif che hanno posto fine alla guerra civile. Molti, del resto, sostengono che proprio la scelta come premier di Najib Mikati è stato un segnale d'apertura da parte delle principali forze politiche libanesi nei confronti di Damasco. Najib Mikati, tycoon delle comunicazioni in Libano, ha fortissimi interessi nel campo della telefonia mobile in Siria dove vanta un'amicizia personale di lunga data con il presidente Bashar Assad. Il premier libanese è volato nei giorni scorsi a Damasco per discutere dei rapporti tra i due paesi, seguito a ruota dal ministro dell'agricoltura e del lavoro, Tarrad Hammada che, dopo aver ricordato il contributo dei lavoratori siriani alla ricostruzione del Libano, ha discusso con il primo ministro siriano Mohammad Naji Otri modi e tempi per un loro urgente ritorno nel paese dei cedri. Un auspicio condiviso dalla stragrande maggioranza dei libanesi e dei siriani: «Il ritiro delle truppe siriane dal Libano va bene ma non ha senso che per le pressioni americane si chiuda un rapporto secolare, culturale e umano con migliaia e migliaia di famiglie miste - sostiene Radwan, un insegnante libanese che incontriamo in un bar vicino al confine - proprio mentre in Europa e in tutto il mondo si parla di mercato comune, di scambi, di abolizione delle frontiere. Noi arabi abbiamo una stessa lingua, le stesse religioni, la stessa cultura. Quindi siamo ancor più legati tra noi di quanto non fosse una volta la vecchia Europa. Perché mai non dovremmo unirci come avete fatto voi?» «Io sono comunque ottimista. La forza dei legami umani, sociali, economici, storici, tra Libano e Siria - continua Radwan - è tale che il nostro è un divorzio impossibile. Noi in fondo siamo come l'Arak, buona uva libanese ma abbiamo bisogno di quel tocco, decisivo, di anice siriano, senza il quale saremmo un liquore come tanti altri». Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione del Manifesto. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.