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Il Manifesto Rassegna Stampa
25.05.2005 Siria e Iran: il fascismo arabo e la teocrazia khomeinista visti dal quotidiano comunista
con occhio benevolo

Testata: Il Manifesto
Data: 25 maggio 2005
Pagina: 10
Autore: Stefano Chiarini - Marina Forti - la redazione
Titolo: «Riforme contro l'assedio Usa - Iran, riformisti tornano in lizza - Il patriarca Ireneos sempre più solo»
IL MANIFESTO pubblica a pagina 10 un'intervista di Stefano Chiarini al ministro siriano Mehdi Dakhlallah.

Esilarante il passo sulle riforme "pluraliste" del regime: "già in seguito alle ultime elezioni" dichiara Daklallah a Chiarini, che nulla ha da obiettare, "accanto ad un 51% di seggi al parlamento per il partito Baath ve ne è un altro 14% dei deputati appartenenti agli altri sette partiti del Fronte progressista e un 35% di eletti dei vari gruppi di interessi economici e sociali tra i quali molti tecnocrati indipendenti" Un grande progresso verso la democrazia: oltre a un maggioranza assoluta di seggi garantiti al partito Baath in Siria il 14% per cento dei seggi è garantito ai partiti di "opposizione" graditi al regime e il 35% a "vari gruppi di interessi economici e sociali tra i quali molti tecnocrati indipendenti".

Quando Daklallah parla di Israele avanza la stravagante pretesa che questa accetti come base di partenza per il negoziato le proposte sul Golan avanzate da Rabin e rifiutate da Assad padre. Altrimenti nessuna trattativa.
Chiarini sintetizza così il discorso del ministro siriano: "Mehdi Daklallah esprime tutta la disponibilità di Damasco ad una ripresa immediata delle trattative".

Ecco il testo:

La Siria non vuole uno scontro con gli Usa ma un dialogo costruttivo, come abbiamo avuto in alcuni momenti. Purtroppo le continue richieste e accuse che vengono da Washington non sono altro che un modo per far salire la tensione e una copertura per portare avanti l'agenda dei «neocon» che hanno messo il nostro paese nel mirino per la sua posizione contro ogni guerra di aggressione, per aver chiesto la fine di tutte le occupazioni in Medioriente e una vera lotta contro il terrorismo, da qualunque parte venga». Con queste parole il ministro siriano dell'informazione, Mehdi Dakhlallah, ci riceve nel suo studio all'ottavo piano di un alto palazzo in stile sovietico che si affaccia sull'autostrada urbana di Mezze - dove sorgono gran parte dei ministeri e delle strutture del partito Baath - affrontando subito il tema scottante dei rapporti con Washington. Rapporti sempre più tesi dopo che le pressioni e le accuse Usa, come ha dichiarato ieri al «New York Times» l'ambasciatore siriano a Washington, Imad Moustapha, hanno portato in questi giorni ad una sospensione della cooperazione militare e di intelligence con gli Stati uniti lungo il confine con l'Iraq che si era tradotta nella costruzione di barriere e sbarramenti, in scambi di informazioni, nell'arresto di oltre 1200 combattenti di varie nazionalità diretti in Iraq e al loro rimpatrio. La Siria in realtà sta cercando da tempo, inutilmente, di arrivare ad un'intesa con Washington collaborando con i servizi americani contro al Qaida dopo l'11/9, «consigliando» ai movimenti della resistenza palestinese a Damasco di accettare una tregua di fatto con Israele e chiudendo alcuni loro uffici, accelerando il completamento del ritiro dal Libano. Tutto ciò però non sembra sia stato preso affatto in considerazione dall'amministrazione Bush che anzi è andata progressivamente indurendo i toni delle sue accuse alla Siria generando a Damasco, e non soltanto nella capitale siriana, la convinzione che in realtà puntino ad un rovesciamento del regime damasceno per poter «balcanizzare», dopo l'Iraq, anche la Siria. «E' dagli anni ottanta - ci dice il ministro dell'informazione siriano, noto giornalista e sostenitore delle riforme portate avanti dal presidente Bashar - che la Siria, vittima del terrorismo prima di altri paesi, ha proposto un accordo internazionale contro questo fenomeno, contro l'uso della guerra nei rapporti internazionali, e per la fine delle occupazioni. Perché si ponesse fine in Medioriente all'usuale politica dei "due pesi e due misure". Tutto è collegato. Non si può pensare di risolvere il problema del terrorismo e di poter arrivare alla stabilità regionale e alla pace senza che venga posto fine alle occupazioni in Palestina e nel Golan siriano e all'uso della guerra».

Sul delicato tema del processo di pace con Israele, Mehdi Daklallah esprime tutta la disponibilità di Damasco ad una ripresa immediata delle trattative: «Noi siamo per un processo di pace basato sulle risoluzioni dell'Onu ma Israele si rifiuta di riprendere il negoziato dal punto al quale eravamo arrivati nel corso dei precedenti colloqui. E' Sharon che non vuole trattare, che non vuole alcun ritiro dal Golan, e così respinge persino le proposte elaborate dallo stesso Rabin».

Per quanto riguarda il fronte interno Mehdi Dakhlallah conferma poi l'arrivo con il prossimo congresso del partito «Baath», che si terrà ai primi di giugno e da più parti definito già «storico», di ulteriori passi sulla via delle riforme sia a livello economico che politico: «Oramai la scelta delle riforme è un asse strategico della politica siriana e in molti campi come quello economico - aggiunge il ministro dell'informazione dopo aver firmato alcune carte e averci offerto dell'ottimo té- siamo già molto avanti: i privati hanno ormai un ruolo importante nell'economia sia per quanto riguarda l'agricoltura che la stessa industria e i servizi e la privatizzazione è arrivata anche, in parte, nel settore bancario». Per quanto riguarda le voci di nuove aperture a livello politico, con l'introduzione di una sorta di limitato multipartitismo, il ministro siriano dell'informazione ricorda che in questo campo ci saranno presto ulteriori passi avanti anche se «già in seguito alle ultime elezioni accanto ad un 51% di seggi al parlamento per il partito Baath ve ne è un altro 14% dei deputati appartenenti agli altri sette partiti del Fronte progressista e un 35% di eletti dei vari gruppi di interessi economici e sociali tra i quali molti tecnocrati indipendenti». Tra questi ultimi c'è senza dubbio lo «zar delle privatizzazioni» l'economista Abdullah Dardari, presidente della potente commissione per la pianificazione economica, che ha promesso la trasformazione della Siria in un'economia di mercato entro il 2010. Per quanto riguarda i media il ministro ammette che «il sistema informativo è piuttosto indietro anche se nel paese oramai è possibile ricevere ogni Tv via satellite e comunicare attraverso internet mentre cominciano a diffondersi settimanali e radio private». Da questo punto di vista il prossimo congresso del partito, aggiunge Dakhlallah, «al quale per la prima volta i delegati sono stati eletti e non designati», «ribadirà sia il carattere laico del Baath sia il rispetto di quei diritti sanciti nella nostra carta fondamentale come la libertà di opinione, di parola, di stampa e di espressione del dissenso, tenendo sempre conto dei limiti imposti dall'essere un paese assediato con parte del proprio territorio ancora occupato». «In altri termini - conclude poi il ministro Dakhlallah prima di congedarci - ritengo che il Baath debba tornare alle sue origini socialdemocratiche e che si realizzi la direttiva per una separazione del partito dallo stato».
Marina Forti, sempre a pagina 10 dedica all'Iran un articolo decisamente di miglior livello rispeto a quello di Chiarini, alfiere al MANIFESTO delle ragioni di tutti i totalitarismi mediorientali.
Dall'articolo della Forti manca però una considerazione essenziale: è impensabile che la decisione dei giuristi islamici di escludere i candidati riformisti dalle elezioni presidenziali sia stata presa senza il consenso della guida suprema Khamenei che ha poi chiesto la loro riammissione.
Tutto si configura dunque, come ha scritto Vanna Vannucini su REPUBBLICA (vedi "Preferite un fanatico puro o uno "pragmatico"?, Informazione Corretta 24-05-05)come un abile messa in scena di un "copione", per altro già rappresentato in occasione delle elezioni amministrative di un anno fa.

Ecco l'articolo:

La campagna elettorale comincia formalmente tra qualche giorno, ma la battaglia per la presidenza della repubblica iraniana è già rovente. Protagonista è il Consiglio dei Guardiani, l'organismo di giuristi islamici che ha potere di veto sui candidati a cariche pubbliche (e sulle leggi approvate dal parlamento). Ieri i Guardiani hanno riammesso due candidati riformisti, esclusi il giorno prima. Sono Mostafa Moin, già ministro dell'istruzione e ricerca scientifica, candidato dal Mosharekat (Partito della partecipazione, il principale partito riformista), e Mohsen Mehr-Alizadeh, uno dei vice del presidente uscente Mohammad Khatami. Così sono otto i candidati ufficialmente in corsa per le elezioni presidenziali, il 17 giugno. La decisione di escludere tra gli altri i due riformisti aveva suscitato proteste sonore, a Tehran. Non che fosse una sorpresa: l'anno scorso i Guardiani avevano bocciato oltre duemila candidati, tra cui quasi tutti quelli riformisti. Questa volta aveva ammesso 6 pretendenti alla carica di presidente della repubblica (su un migliaio), e tra loro solo uno - l'ex presidente del parlamento Mehdi Karroubi - è un moderato riformista, alleato di Khatami; gli altri sono oscillano tra i conservatori dalle coloriture più o meno intransigenti e un «pragmatico» come l'ex presidente Ali Akhbar Hashemi Rafsanjani, attuale capo del Consiglio dei discernimento (il potente organismo di arbitraggio tra poteri dello stato).

Il Partito della partecipazione, presieduto da Mohammad Reza Khatami (fratello del presidente uscente), già si preparava a boicottare le elezioni. Mostafa Tajzadeh, ex deputato e dirigente del Mosharekat, lunedì aveva parlato di «colpo di stato». Anche gli studenti dell'Università di Tehran si sono fatti sentire: lunedì sera qualche centinaio di ragazze e ragazzi ha improvvisato una marcia dal dormitorio universitario, con slogan come «abbasso i dittatori». La polizia ha bloccato il piccolo corteo, ma in modo pacifico.

Paradossalmente, la decisione di riammettere i due candidati riformisti crea un grave imbarazzo per Mostafa Moin e il suo partito. Infatti il «ripescaggio» è il risultato dell'intervento della Guida suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, massima autorità della repubblica islamica, che lunedì aveva chiesto al Consiglio dei Guardiani di riconsiderare il proprio verdetto: diceva che un «più ampio arco di candidati» è essenziale per incoraggiare gli elettori a votare e mandare un messaggio di forza ai nemici dell'Iran. E i Guardiani hanno risposto alla Guida suprema: «Poiché lei considera desiderabile che persone rappresentanti diversi interessi nel paese abbiano tutti la possibilità di partecipare ... le competenze dei signori Moin e Mehr-Alizadeh sono riconsiderate».

Una concessione avvelenata: i due candidati sono riammessi grazie al potere di Khamenei di passar sopra agli altri poteri dello stato. Ed è questo potere supremo che sta al cuore della lotta politica in Iran, dove istituzioni elette (parlamento, presidente) sono sottoposte al veto di organismi (come i Guardiani) cooptati per l'appunto dalla Guida suprema. La sostanza del tentativo (fallito) di «riforme democratiche» della presidenza Khatami era proprio ridare poteri certi alle istituzioni elettive.

In una lettera a Moin, la maggiore organizzazione di studenti filo-riforme chiede di non accettare di candidarsi, in queste condizioni: «Accettare ... significa confermare la validità di tutte le decisioni emesse nel passato in violazione dei diritti civili», scrive l'Ufficio per il Consolidamnento dell'Unità - che ha già annunciato l'intenzione di boicottare il voto.
Infine, "Il patriarca Irineos sempre più solo" si compiace il quotidiano comunista. Nell'articolo il reprobo risulta colpevole di aver venduto ad a"genti immobiliari israeliani" proprietà della Chiesa situate a Gerusalemme est.
Sono scomparse, fortunatemente, le "mani ebraiche" in cui secondo un precedente articolo dedicato alla vicenda Ireneos avrebbe fatto "cadere" gli edifici.

Ecco il testo:

I leader di dodici chiese (tra cui quella russa, greca e bulgara) hanno dato vita ieri a Istanbul a un raro sinodo panortodosso al termine del quale hanno deciso di non riconoscere più come patriarca di Gerusalemme Irineos I, colpevole di aver venduto tre edifici della parte araba della Città vecchia ad agenti immobiliari israeliani. Il consesso di ieri - il primo sinodo di questo genere da un decennio - non ha l'autorità per licenziare Irineos, una decisione che spetterebbe solo al sinodo di Gerusalemme, che però lo stesso patriarca sfiduciato si rifiuta di convocare. Cornelius, il metropolita di Petra, ha però dichiarato al termine della riunione che il voto di ieri rafforza gli sforzi per silurare Irineos. «Può ancora farsi chiamare patriarca, ma di fatto non lo è», ha detto Cornelius.
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