Il colpevole è il maggiordomo? No, Israele! il quotidiano comunista saprebbe chi incriminare per i "delitti d'onore" nei territori
Testata: Il Manifesto Data: 19 maggio 2005 Pagina: 2 Autore: Michele Giorgio Titolo: «Palestina, i delitti d'onore e i silenzi di Abu Mazen»
IL MANIFESTO, da quando ad Arafat è succeduto Abu Mazen, è oscillante. A volte attacca Israele perchè, sostiene, non appoggia abbastanza Abu Mazen, mettendo così a repentaglio le possibilità di successo del negoziato di pace. Altre volte attacca Abu Mazen perchè, a suo dire, troppo gradito e appoggiato da Israele.
Nell'articolo di Michele Giorgio sui "delitti d'onore" nei Territori, pubblicato giovedì 19 maggio 2005, si introduce un'altra variante: attaccare Israele perchè sostiene troppo Abu Mazen, che non fa nulla contro i delitti d'"onore" (che invece, come noto, Arafat aveva debellato...). Giorgio è d'accordo con Sharansky, prima di trattare con l'Anp Israele deve promuovervi riforme democratiche? Difficile. Più probabilmente ha solo trovato un altro modo di accusare Israele, questa volta di colpe dell'Anp. Infischiandosene e della coerenza con quanto ha scritto in altre occasioni.
E' interessante notare come gli antisionisti del MANIFESTO condividano questa libertà nei confronti della logica con gli antisemiti di tutti i tempi, che hanno sempre accusato gli ebrei di qualsiasi cosa e del suo contrario.
Ecco l'articolo: Qualche giorno fa sono scese in strada a centinaia, palestinesi e straniere, a Ramallah per affermare che l'assassinio della giovane cristiana Faten Habash, uccisa dal padre perché intenzionata a sposare un musulmano, non verrà dimenticato. «La sua tragica fine deve segnare l'inizio di una battaglia contro i delitti d'onore e a sfondo religioso che insanguinano la nostra terra e, soprattutto, per l'adozione di provvedimenti immediati da parte dell'Anp a protezione delle donne e dei loro diritti», ha proclamato in quell'occasione Amal Khreisheh, una delle attiviste più note della Palestina. Il ministro per le donne, Zahira Kamal, da parte sua si accinge a chiedere, a governo e parlamento, l'introduzione nella nuova costituzione palestinese di articoli a protezione dei diritti delle donne e l'approvazione di sanzioni molto dure contro i responsabili dei delitti di onore. «La strada è ancora lunga - avverte Elena Zambelli, dell'associazione italiana Orlando, da anni impegnata in attività di cooperazione con i movimenti femminili palestinesi - la buona volontà delle organizzazioni progressiste non manca ma l'Autorità nazionale continua a mostrare scarso interesse per il problema dei delitti di onore». Il presidente «riformista» Abu Mazen, tanto gradito a Stati uniti, Israele e Europa, non ha mosso un dito sino ad oggi per porre termine a questo tipo di omicidi. Eppure il problema richiede misure urgenti.
Il quotidiano Al-Quds ha riferito la scorsa settimana che nel 2004 in Cisgiordania e Gaza sono state uccise 20 ragazze e donne per ragioni «d'onore». Altre 15 sono state vittime di tentato omicidio. Il giornale ha precisato che lo scorso anno 50 donne hanno commesso suicidio per ragioni legate, in apparenza, all'onore familiare. Cifre che, probabilmente, peccano per difetto. Gli ultimi quattro delitti d'onore risalgono alle settimane passate. Oltre a Faten Habbash, sono state assassinate due sorelle di Jabel Mukaber (Gerusalemme) e un ragazza di Balaa (Tulkarem) stuprata dal padre e strangolata dal fratello per aver reso pubblico l'accaduto.
«L'onore è tutto nella vita e bisogna difenderlo sempre, in tutti i modi». Con queste parole Ahmed, un giovane palestinese, nel 1996 spiegò ai giudici la sua decisione di uccidere la sorella, sospettata di avere avuto una relazione con un uomo sposato. Nel corso degli anni decine di suoi coetanei hanno seguito quel terribile «esempio». L'ex procuratore generale palestinese, Khaled Qidwa, in una intervista alla rivista Sawt Al-Nisaa (La voce delle donne), ha affermato che il 70% degli omicidi commessi annualmente nei Territori occupati sono motivati da questioni d'onore. Non sono peraltro mancati casi di palestinesi condannati per l'assassinio di madri o sorelle che all'uscita dalla prigione sono stati accolti con canti e balli da parenti ad amici. Chi si macchia di crimini tanto gravi sa che riceverà una condanna particolarmente mite - grazie agli articoli 340 e 98 del codice penale giordano, ancora in vigore in Cisgiordania - che, contrariamente a quanto si crede in Occidente, non è in linea neanche con la sharia.
L'Islam infatti se da un lato prevede la lapidazione per le adultere e cento frustate per le donne non sposate che compiono atti sessuali, dall'altro stabilisce anche che ci vogliono quattro testimoni oculari che abbiano visto la coppia in flagrante. Ciò rende difficile, spesso impossibile, provare la «colpevolezza» della donna. Così i membri maschi delle famiglie diventano spietati esecutori di sentenze di morte extra giudiziarie, spesso sulla base solo di pettegolezzi e sospetti. All'origine c'è un rigido meccanismo tribale che schiaccia anche gli uomini. «Secondo la società e la tribù se una donna non è moralmente irreprensibile o se viene stuprata è colpa di chi non l'ha protetta, il disonore perciò è degli uomini - spiega la ricercatrice Annalena Di Giovanni, esperta di delitti d'onore in Palestina - cancellare il motivo del disonore quindi è il primo obiettivo dei componenti maschi della famiglia che eliminano con l'omicidio il sospetto e, allo stesso tempo, la dimostrazione della loro incapacità di sorvegliare le donne». Il delitto d'onore, aggiunge Di Giovanni, è un potentissimo mezzo di controllo della sessualità femminile. «Della sessualità e di ogni spazio di movimento delle donne. Ogni ragazza non ha bisogno di essere minacciata di morte dalla famiglia per sapere a cosa deve obbedire e cosa non deve fare e sapere anche di non avere altra scelta che l'adesione a tale sistema di cose. Sono paradigmi inconsci. Se si arriva a rompere le regole, non si ha via d'uscita. Perché dalla famiglia non si esce visto che serve il consenso di un parente maschio per quasi tutto, dal matrimonio al nulla-osta per lasciare il paese». Quella palestinese, sottolinea però Di Giovanni, è una società lacerata ma sana che ha in sé malattie ma anche gli anticorpi per combatterle. «Certo per queste tematiche non c'è ancora la maturità necessaria - afferma - ma il fatto che in Palestina si collabori con le forze di polizia e si lavori a progetti di sensibilizzazione della popolazione mai realizzati in stati come la Giordania e l'Egitto, partendo da una situazione di estremo abbrutimento e frustrazione per l'occupazione militare israeliane, è un dato che merita rispetto».
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