Abu Mazen: niente pace senza una "soluzione" per il problema dei profughi il leader palestinese non parla di "diritto al ritorno", ma la nascita di Israele resta una "catastrofe"
Testata: La Stampa Data: 16 maggio 2005 Pagina: 9 Autore: Aldo Baquis Titolo: «Abu Mazen: non ci sarà pace senza il ritorno dei profughi»
LA STAMPA di lunedì 16 maggio 2005 pubblica una cronaca di Aldo Baquis sul discorso Abu Mazen per l'anniversario della nascita di Israele, definita dai palestinesi "la catastrofe" (la "Nakba"). Abu Mazen ha ribadito la richiesta di dare soluzione al problema dei "profughi" palestinesi. Come nota Baquis Abu Mazen non chiede più il rientro dei palestinesi in Israele, che cancellerebbe la maggioranza ebraica dello Stato, ma soltanto una "soluzione" del problema.
A fronte di questo passo avanti è da rilevare il permanere di una mentalità di rifiuto della legittimità di Israele e della spartizione promossa nel 47 dall'Onu, reso evidente dal fatto stesso che i palestinesi definiscono la nascita di Israele "catastrofe".
Ecco l'articolo: Il presidente Abu Mazen ha detto ieri ai profughi palestinesi nel mondo che in Medio Oriente non ci saranno pace né stabilità se per loro non sarà trovata «una soluzione giusta, basata sulle risoluzioni internazionali». «In ogni modo l'Olp si oppone al loro insediamento definitivo nei Pesi arabi in cui oggi vivono» ha aggiunto in un discorso pronunciato in occasione del 57.mo anniversario della Nakba (catastrofe, in arabo): ossia della fondazione dello stato d'Israele. Erano le 12 in punto nei Territori quando le sirene hanno ululato per chiamare la popolazione ad un minuto di raccoglimento nel ricordo dei palestinesi che nel 1948 abbandonarono per sempre le loro case e i loro campi. «I palestinesi - ha osservato Abu Mazen - non dimenticheranno mai la loro Nakba, una giornata senza eguale nella storia delle altre Nazioni in cui fu compiuto il crimine di sradicare un popolo intero dalla propria terra». «Il nostro popolo è stato disperso in tutto il mondo, costretto a vivere in poveri campi profughi, tra la frustrazione e la povertà» ha rilevato ancora il Rais. Secondo dati aggiornati divulgati dall'Ufficio di statistica palestinese (Psb), oggi nel mondo vivono circa 10 milioni di palestinesi, la metà dei quali si trovano compresi fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo. Sono 2,2 milioni in Cisgiordania, 1,4 milioni a Gaza e 1,1 milioni in territorio israeliano. Tre milioni di palestinesi circa vivono in Cisgiordania, altri 900 mila abitano in Siria e Libano. I rimanenti sono dispersi nel resto del globo. Rivolto ad Israele Abu Mazen (la cui famiglia fu costretta durante i combattimenti del 1948 ad abbandonare la città di Safed, in Galilea) ha poi ribadito che «la pace, la sicurezza e gli accordi nella Regione sono legati ad una soluzione onesta e giusta della questione dei profughi, basata sulle risoluzioni internazionali». In particolare l'Anp cita la risoluzione 194 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: ma nel discorso di ieri Abu Mazen non ha prounciato il termine che più infastidisce Israele - ossia il «diritto del ritorno» - preferendo una formula più ambivalente che include il possibile ritorno in futuro dei profughi in uno Stato palestinese (ossia in Cisgiordania e a Gaza) e non necessariamente alle loro abitazioni di un tempo che oggi si trovano in territorio israeliano. Le celebrazioni annuali della Nakba sono iniziate solo a partire dal suo 50.mo anniversario, nel 1998. Si tratta dunque di un appuntamento relativamente recente, che il vicepremier israeliano Ehud Olmert ha ieri trovato «scoraggiante». «Il fatto stesso che i palestinesi celebrino il 15 maggio 1948 - il giorno della procalmazione di Israele - come un giorno di disastro ci scoraggia, perché rivela uno stato mentale secondo cui Israele rappresenta un ostacolo da rimuoversi piuttosto che una realtà con cui bisognerebbe riconciliarsi». Ieri la televisione nazionale palestinese ha dedicato alla Nakba programmi speciali, in cui anziani sono tornati col pensiero al traumatico 1948 e bambini hanno spiegato ai loro coetanei cosa significhi «perdere in un colpo solo la casa e i campi, e vedere il nemico impegnato a cancellare perfino i nomi delle nostre citta». Nelle caricature dei giornali palestinesi tornava ieri la chiave che ciascun profugo avrebbe conservato nella speranza di tornare un giorno nella casa abbandonnata. In questo clima militante si èinserito Hamas che - pur impegnato in una svolta pragmatica, illustrata dalla sua massiccia partecipazione alle elezioni municipali e politiche nei Territori - non ha rinunciato a ricorrere ai consueti toni esasperati. In un documento divulgato da uno dei suoi siti internet, Hamas ha descritto Israele come «un cancro», costantemente accudito dagli Stati Uniti affinché si espandesse. Un «fenomeno satanico», ha aggiunto, che va combattuto «fino alla liberazione dell'ultimo pollice di terra della Palestina». Proprio ieri il ministro israeliano della difesa Shaul Mofaz ha affermato che Hamas sta sfruttando il periodo di calma nei Territori per organizzare una «milizia popolare». Senza entrare in dettagli operativi Ismail Hanye, uno dei dirigenti di Hamas a Gaza, ha confermato ieri che «la Jihad, la Guerra santa ad oltranza, resta l'unica via possibile per recuperare i diritti del popolo palestinese e riportare i profughi alle proprie case». Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita