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Il Manifesto Rassegna Stampa
11.05.2005 La "nuova geografia" dell'odio antiisraeliano
l'alleanza tra paesi arabi e latinoamericani fa ben sperare il quotidiano comunista, Israele diventa "territorio occupato", le risorse scarse "diritti negati"

Testata: Il Manifesto
Data: 11 maggio 2005
Pagina: 6
Autore: Maurizio Matteuzzi - Massimo Carlotto - Danilo Zolo
Titolo: «Intanto Lula cerca di sfondare sul fronte arabo - Ramallah andata e ritorno - Acqua, il diritto negato -»
IL MANIFESTO di mercoledì 11 maggio 2005 pubblica a pagina 6 un articolo di Maurizio Matteuzzi sul vertice di Brasilia tra paesi arabi e latinoamericani.
Compiacimento viene espresso dal giornalista per il riconoscimento del « diritto alla resistenza contro l'occupazione straniera fondato sul diritto umanitario internazionale», una negazione pratica della condanna del terrorismo egualmente espressa dal vertice.
Matteuzzi è anche soddisfatto del fatto che il vertice chieda il ritiro incondizionato di Israele dai territori ed esprima preoccupazione per le sanzioni contro la Siria, stato notoriamente rispettosissimo dei diritti umani e civili.

Ecco il testo:

Mentre George Bush da Riga, Mosca e Tbilisi lancia la sua nuova mappa del mondo, ieri a Brasilia si è aperto il primo vertice fra l'America latina e i paesi arabi. C'erano 10 dei 12 presidenti latino-americani invitati - Lula per il Brasile, Kirchner per l'Argentina, Chavez per il Venezuela, Vazquez per l'Uruguay, Lagos per il Cile, Toledo per il Perù... - con le eccezioni dell'Ecuador (ancora scombussolato dopo la cacciata di Gutierrez) e della Colombia del vassallo Uribe. Fra i 22 della Lega araba, qualche leader - l'algerino Bouteflka, l'emiro del Qatar Khalifa bin-Thani, il palestinese Abbas, l'iracheno Talabani -, molti premier - il siriano Otri, il libanese Miqati - e ministri degli esteri - il libico Shalgam.. «Una riunione audace per i suoi obiettivi e ambiziosa per le sue aspirazioni - ha detto nel suo discorso di apertura il presidente Lula -: la nostra grande sfida è disegnare una nuova geografia internazionale» sul piano politico, economico e commerciale. Lula ha voluto e organizzato questo vertice che s'incastra perfettamente nella sua aggressiva strategia di forgiare nuove alleanze e aprire nuovi mercati superando la classica dicotomia nord-sud.

L'intercambio fra l'America latina e il mondo arabo è cresciuto con forza negli ultimi anni ma ha tutte le potenziolità per moltiplicarsi ancor più velocemente nel prossimo futuro in quanto in molti casi le economie delle due aree sono complementari. Un primo risultato è stata la firma a Brasilia di un accordo-quadro fra il Mercosud - Brasile, Argentina, Paraguaya e Uruguay - e il Consiglio di cooperazione del Golfo - Arabia saudita, Bahrein, Emirati arabi, Kuwait, Oman e Qatar.

L'aspetto politico del vertice brasiliano ha una valenza meno immediata di quella economico-commerciale ma non trascurabile. Il documento finale in 13 punti, «la Dichiarazione di Brasilia», tocca anche temi politici di estrema attualità. La stampa brasiliana parla di dissensi su alcuni punti, che invece il ministro degli esteri Celso Amorim nega ricordando che il testo è già stato concordato nell'ultima riunione preparatoria in Marocco. La Dichiarazione parla dei «legittimi diritti nazionali del popolo palestinese» e chiede il ritiro di Israele nei confini del `67 in ottemperanza alle risoluzioni dell'Onu; cita gli Usa riferendosi alla «profonda preoccupazione» per le sanzioni contro la Siria; chiama in causa anche l'Inghilterra e indirettamente l'Unione europea (che di recente ha messo le Falkland-Malvine nella mappa dell'Europa) chiedendo che Londra e Buenos Aires riprendano i negoziati sulle isole australi.

Ma i punti che faranno più discutere, e storcere il naso ad alcuni, sono i due paragrafi che si riferiscono al terrorismo e alla resistenza all'occupazione straniera. Il terrorismo «in tutte le sue forme» è condannato senza ambiguità. Però viene riconosciuto espressamente «il diritto alla resistenza contro l'occupazione straniera fondato sul diritto umanitario internazionale».

Non sono parole da poco in un contesto in cui gli stati-vassalli degli Usa, specie fra gli arabi, sono la maggioranza.

Tutti i partecipanti al vertice - al lato del quale se ne è svolto un altro con 1250 imprenditori d'entrambe le aree - hanno cercato di minimizzarne las portata politica. Anche l'esuberante Chavez, ha dichiarato che esso «non deve essere visto come un'aggressione contro nessuno». Però poi - se no non sarebbe Chavez - ha precisato che «sono finite le pretese egemoniche di una superpotenza che vuole essere padrona del mondo e dettare i modelli di condotta in politica ed economia». E commentando la richiesta Usa, respinta da Lula, di essere presente a Brasilia con «un osservatore», ha detto che Lula ha fatto bene perché «gli Stati uniti, qui, non hanno nulla a che vedere».

In effetti il messaggio è arrivato: Usa e Israele hanno già manifestato preoccupazioni e timori per l'incontro fra latino-americani e arabi.

Appuntamento nel 2008 in un paese arabo. Si vedrà se Brasilia è stata solo una photo-opportunity o l'inzio di una «nuova geografia».
A pagina 15 troviamo una recensione di Massimo Carlotto al romanzo di Marid al-Barghuti "Ho visto Ramallah".
Vi si legge:

Lui attraversa il ponte e incontra un soldato con la kippa in una baracca piena di manifesti turistici che vantano le bellezze di Israele, solo che quella terra è Palestina. Territorio occupato.
L'intero Israele è dunque per Carlotto "Palestina" e "Territorio occupato".

A pagina 12 un articolo di Danilo Zolo in cui si sostiene che gli israeliani sottrarrebbero risorse idriche ai palestinesi.

In realtà i divieti di scavare pozzi in Cisgiordania e quelli di superare una certa profondità sono motivati dal fatto che per motivi idrogeologici è più conveniente effettuare le trivellazioni in Israele, a una quota più basso. L'acqua viene poi distribuita a tutti i territori. Il maggiore consumo di acqua nelle aziende agricole israeliane dipende dalla presenza di sistemi di irrigazione tecnologicamente più avanzati e più efficienti.
Le differenze di reddito possono influire nel determinare l'uso delle risorse, come ovunque, ma tale disparità, non configura, evidentemente la volontà di sottrarre risorse idriche a un gruppo etnico.
Il problema delle risorse idriche, su questo punto Zolo ha ragione è di natura politica. Ricordiamo che prima del fallimento dei negoziati di Camp David i geologi palestinesi e israeliani avavano raggiunto un accordo per la gestione dell'acquifero centrale, mai applicato.

Ecco l'articolo:

Sono appena tornato dalla Palestina, dove a Ramallah, dal 2 al 5 maggio, si è tenuto un convegno internazionale sul tema del diritto all'acqua. La sede del convegno era a pochi passi dal compound della Mokata, ancora ingombro delle macerie degli edifici abbattuti dai missili israeliani. Solo una parte di esse sono state rimosse per ospitare e onorare la tomba di Yasser Arafat. Ero stato invitato dalla Palestine Academy for Science and Technology, che ha organizzato l'incontro con il sostegno del Development Programme delle Nazioni Unite. Il problema dell'acqua è destinato a diventare sempre più grave nei prossimi decenni e in Palestina lo si percepisce in modo molto acuto. É una nuova «barriera globale» che si erge silenziosamente e divide in due il mondo intero: da una parte i paesi ricchi di acqua perché ricchi e potenti in generale e, dall'altra, i paesi poveri di acqua, perché poveri e deboli in generale. La domanda globale di acqua cresce rapidamente a causa dell'espansione demografica della specie e del diffondersi del modello tecnologico-industriale. Nello stesso tempo decresce la quantità di acqua potabile a causa delle turbolenze climatiche, dell'inquinamento e dei fenomeni di salinizzazione delle acque dolci. In Palestina la situazione è resa ancora più drammatica dal conflitto con Israele. L'occupazione militare di quello che resta della Palestina mandataria - meno del 22% - continua da decenni all'insegna della negazione dei diritti più elementari del popolo palestinese. Il tema dell'acqua non fa eccezione. L'aggressione israeliana al diritto del popolo palestinese a usare le proprie risorse idriche è uno degli strumenti più efficaci di oppressione politica e di discriminazione sociale. E questo accade all'insegna di una sistematica violazione delle Convenzioni internazionali e del diritto internazionale generale. Numerose relazioni presentate al convegno di Ramallah - la mia inclusa - hanno toccato in particolare quest'ultimo tema. Le violazioni riguardano anzitutto il «diritto sociale» dei cittadini palestinesi all'acqua potabile, un diritto che deriva dai documenti internazionali che tutelano la vita, la sicurezza sociale, la salute. Questi valori sono gravemente minacciati dall'imponente prelievo che Israele fa delle risorse idriche palestinesi, in particolare della falda acquifera occidentale della Cisgiordania e dalle pesanti limitazioni imposte alla popolazione palestinese. Le restrizioni sono state decise con ordinanze militari che hanno proibito ai palestinesi di costruire o possedere un impianto idrico senza un permesso dell'autorità militare (ora sostituita dalla società idrica Mekorot). Nel corso di decine di anni solo pochissimi permessi sono stati accordati ai palestinesi, e comunque i loro pozzi non devono andare oltre i 140 metri di profondità, mentre quelli israeliani possono raggiungere anche gli 800 metri. Sono state inoltre fissate delle quote di prelievo, sono stati espropriati pozzi e sorgenti di palestinesi assenti, si è fatto divieto di irrigare nelle ore pomeridiane, mentre la fatturazione dell'acqua penalizza la popolazione palestinese il cui tenore di vita è largamente inferiore a quello dei cittadini israeliani e dei coloni. Anche dal punto di vista della quantità d'acqua fornita ai coloni la disciplina introdotta dalle autorità israeliane discrimina nettamente la popolazione palestinese. Oggi nella West Bank solo il 5% dei terreni coltivati dai palestinesi è irrigato, mentre nelle aree coltivate dai coloni israeliani si raggiunge la quota del 70%. La conseguenza generale è che un israeliano consuma in media 370 metri cubi per anno, un colono fra i 640 e i 1.480 e un palestinese ne usa poco più di 100. Le violazioni riguardano anche il «diritto collettivo» del popolo palestinese all'uso delle proprie risorse idriche. Complessivamente l'85% dell'acqua palestinese oggi viene usata dagli israeliani, mentre ai palestinesi non è consentito di usare l'acqua del Giordano e dello Yarmouk. D'altra parte l'acqua del Giordano è inquinata perché Israele fa defluire acqua salata dall'area del Lago di Tiberiade nel basso Giordano. Inoltre il prelevamento di acqua dal Lago di Tiberiade per mezzo del National Water Carrier - la gigantesca conduttura idrica che si estende dal Giordano al deserto del Negev - ha ridotto notevolmente la portata del Giordano. E' appena il caso di aggiungere che il diritto all'acqua del popolo palestinese oggi è ulteriormente violato dalla costruzione del Muro in Cisgiordania. Quando sarà ultimata la costruzione della sezione occidentale del Muro, il prodotto agricolo annuale della Cisgiordania diminuirà di circa il 20%, mentre diminuirà di circa il 40% quando anche la sezione orientale del Muro sarà completata. Questa sezione avrà inoltre l'effetto di separare la popolazione palestinese dalla valle del Giordano e dal Mar Morto, impedendole per sempre lo sfruttamento agricolo di queste potenziali risorse idriche.

Al convegno di Ramallah sono state avanzate alcune ipotesi di rivendicazione e di soddisfazione concreta del diritto all'acqua del popolo palestinese. La questione, prima che tecnica, è politica e strategica. É ovvio che il conflitto per l'acqua è solo un aspetto - anche se uno dei più rilevanti - del conflitto per la liberazione della Palestina. Non si risolve il problema dell'acqua se non si risolve, assieme, quello della costituzione di uno Stato palestinese, della sua piena indipendenza, integrità e continuità territoriale. Una ipotesi interessante e forse promettente è stata comunque avanzata: l'impostazione della questione palestinese come «questione mediterranea», sia in un senso generale, sia nel senso specifico del problema dell'acqua. Se continuerà il trend attuale, nell'arco di circa vent'anni ogni abitante del Nordafrica e del Medio Oriente avrà a disposizione l'80% di acqua in meno. Le risorse interne di acqua per ogni paese mediterraneo sono distribuite in modo molto disomogeneo tra il Nord (74%), l'Est (21%) e il Sud (5%). I paesi più ricchi di risorse d'acqua (Francia, Italia, Turchia, i paesi della ex Jugoslavia) dispongono di più dei due terzi delle risorse idriche dell'intera regione.

Su un totale di 25 paesi mediterranei, 8 di questi, con una popolazione complessiva di 115 milioni di abitanti, si trovano al di sotto della soglia considerata critica (1.000 metri cubi per abitante all'anno). In Giordania, Libia, Malta, Territori Palestinesi e Tunisia le risorse idriche sono già al di sotto della soglia considerata di povertà idrica (500 metri cubi per abitante all'anno). Sembra dunque evidente che la comunità dei popoli mediterranei è il primo soggetto internazionale che dovrebbe essere investito del problema del diritto all'acqua del popolo palestinese e tentare di impostarlo e di risolverlo nel quadro dei problemi idrici generali che riguardano l'intera regione. Il programma di cooperazione euro-mediterranea lanciato a Barcellona nel 1995, che associa 15 paesi europei e 12 paesi della riva sud ed est del Mediterraneo - Israele e l'Autorità nazionale palestinese compresi - sembrerebbe lo strumento più idoneo. Esso prevede che entro il 2010 l'area mediterranea divenga una zona di libero scambio, con l'obiettivo di promuoverne lo sviluppo economico, culturale e sociale (Euromed). In questo quadro il popolo palestinese potrebbe assumere l'iniziativa di una mobilitazione euro-mediterranea, coinvolgendo l'opinione pubblica e le energie civili presenti sulle sponde del Mediterraneo. E contrastando ogni tentativo di fare del Mediterraneo e del Medio Oriente un'area subordinata alle strategie egemoniche dell'impero atlantico.
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