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Avvenire Rassegna Stampa
06.05.2005 Il terrorismo è un "metodo discutibile"
il relativismo morale nell'informazione sul conflitto israelo-palestinese

Testata: Avvenire
Data: 06 maggio 2005
Pagina: 16
Autore: Barbara Uglietti - Franceso Ognibene
Titolo: «"Test "elettorale per Abu Mazen: Hamas non sfonda - Parole di dialogo nell'onda delle notizie»
Hamas utilizza " "metodi", se così si può dire, del tutto discutibili": questa la frase piuttosto contorta scelta da Barbara Uglietti, nel suo articolo pubblicato a pagina 16 da AVVENIRE di venerdì 6 maggio 2005, per alludere al terrorismo del gruppo islamista palestinese. Senza condannarlo in modo netto, ma solo "discutendolo".

La Uglietti ci informa poi del fatto che "resta forte la tensione in Cisgiordania per l'uccisione, due notti fa, di due ragazzi palestinesi da parte dell'esercito israeliano, anche se ieri il comando militare dello Stato ebraico ha sospeso l'ufficiale che comandava l'unità responsabile dell'accaduto" senza spiegare le circostanze dell'episodio (vedi in proposito "Credere ciecamente alle fonti palestinesi e omettere particolari rilevanti " e "Se Israele si difende dal terrorismo, dà l'"assalto" alla tregua, "provoca" e "opprime" i palestinesi", Informazione Corretta del 05-05-05)

Di seguito riportiamo l'articolo integralmente:

Al-Fatah «tiene». L'organizzazione fondata da Yasser Arafat e ora divenuta il partito del presidente Abu Mazen è in vantaggio sugli sfidanti di Hamas nelle municipali palestinesi che si sono svolte ieri in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Un voto che è stato di fatto un "referendum" sull'operato di Abu Mazen. Un voto che offre precise indicazioni sulle più importanti elezioni per il rinnovo del Consiglio legislativo palestinese (Clp), il 17 luglio. Un voto che è stato, prima di tutto, un "test" cruciale per al-Fatah, in difficoltà per le accuse di corruzione rivolte ai suoi dirigenti, percepiti dalla popolazione come "lontani" e più attenti ai propri interessi personali che a quelli della causa palestinese. A tutto vantaggio di Hamas, il "partito" dell'Intifada, che si è presentato a queste elezioni sbandierando il suo passato di incorruttibilità e di solidarismo e che, nonostante l'uso "metodi", se così si può dire, del tutto discutibili, è riuscito a "radicarsi" tra la gente intercettandone il malcontento.
Il movimento di Arafat resta comunque la prima formazione dei Territori. Secondo i primi exit poll, al-Fatah si sarebbe aggiudicata sei dei 14 consigli municipali in palio, mentre Hamas ne avrebbe vinti due. Ma i definitivi si avranno solo domenica. I palestinesi hanno votato in 84 comuni e villaggi (76 in Cisgiordania, otto nella Striscia). Gli aventi diritto erano 400mila. L'affluenza alle urne è stata molto alta, significativamente alta: l'80 per cento a Gaza, il 70 per cento in Cisgiordania. Una volontà di partecipazione che riconferma la svolta democratica dei Territori e che incoraggia il tentativo del presidente Abu Mazen di "disarmare" l'Intifada "politicizzandola". Anche il clima festoso in cui si è svolta la consultazione, cui hanno partecipato 2.500 candidati, apre prospettive favorevoli: le bandiere gialle di al-Fatah e quelle verdi di Hamas e quelle nere della Jihad islamica e quelle rosse delle formazioni di sinistra più piccole hanno sventolato per tutto il giorno, insieme, nei chioschi allestiti dai partiti vicino ai seggi elettorali. Niente incidenti. Resta da vedere, ora, quale sarà la reazione delle fazioni, soprattutto quelle, agguerritissime, della Striscia. Mentre resta forte la tensione in Cisgiordania per l'uccisione, due notti fa, di due ragazzi palestinesi da parte dell'esercito israeliano, anche se ieri il comando militare dello Stato ebraico ha sospeso l'ufficiale che comandava l'unità responsabile dell'accaduto.
Si è trattato della terza tornata di un processo elettorale iniziato lo scorso dicembre: il secondo voto, che si era svolto in gennaio, vide una grande affermazione di Hamas che confermò la tendenza già manifestatasi il mese prima in Cisgiordania, sebbene al-Fatah alla fine riuscì a spuntare più consiglieri. Tra i comuni più importanti dove si è votato ieri: Betlemme e Qalquilya in Cisgiordania, Rafah nel sud di Gaza. A parte la valenza politica, queste elezioni riguardano principalmente l'erogazione dei servizi municipali e questioni di carattere locale. I palestinesi, interpellati all'uscita delle urne, hanno detto di volere nei Comuni servizi migliori, una più efficiente nettezza urbana e la ricostruzione delle case distrutte nelle operazioni dell'esercito israeliano. Altri però hanno espresso chiaramente preferenze più politiche, chi a sostegno di al-Fatah e chi di Hamas.
A pagina 17 AVVENIRE pubblica un 'intervista di Francesco Ognibene al giornalista del Sole 24 Ore Alberto Negri sulla responsabilità dei giornalisti e dell'informazione nel favorire, od ostacolare, la pace.
Negri pronuncia parole condivisibili sulla capacità dei media di "demonizzare il nemico e fomentare l'odio, un meccanismo sinistro che ho visto infinite volte all'opera, dai Balcani al Medio Oriente (...)in particolare nei Paesi dove la democrazia scarseggia, con la perpetuazione di pregiudizi e di letture distorte della memoria".
"Ovunque vi sia una guerra", prosegue Negri "si scopre che i media hanno preparato il terreno allo scatenarsi della violenza con un racconto unilaterale dei torti e delle ingiustizie, dalla ex Jugoslavia alla Palestina".
Sembra una perfetta descrizione del ruolo svolto dalla propaganda palestinese nello scatenare la violenza.
Un riferimento esplicito sarebbe certamente stato opportuno.
Negri ricorda poi che "si costruisce incomprensione anche da noi, quando si fa cattiva informazione: ad esempio con un uso strumentale, ideologico o sottilmente distorto di quel mezzo potentissimo che sono le immagini» ".
Anche qui l'esempio del modo in cui anche i media occidentali trattano il conflitto mediorentale sarebbe lampante.
Con le immagini certo, ma anche con le imprecisioni, le distorsioni, il rifiuto di chiamare le cose con il loro nome. Il terrorismo "terrorismo" innanzitutto. Rifiuto di cui , nella pagina accanto a quella che ospita l'intervista a Negri, l'articolo di Barbara Uglietti offre, come abbiamo visto, un ennesimo esempio.

Ecco il testo dell'intervista:

«L'avvento dei media digitali ha impresso all'informazione una velocità senza precedenti. E il flusso delle notizie è diventato come l'onda di uno tsunami che travolge anche chi lo produce». Alberto Negri, da 15 anni inviato del Sole 24 Ore su tutti i fronti più caldi del mondo, è tipo che non ama la retorica. E quando - da laico, e conoscitore acuto della cronaca "sul campo" - legge il messaggio lasciato da Giovanni Paolo II per la 38esima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, in programma domenica, sente "riabilitata" la professione giornalistica proprio dal realismo di quelle ultime parole di Papa Wojtyla: «Apprezzo questo messaggio - aggiunge - perché è un invito serio a noi comunicatori: se l'informazione che offriamo è buona, sostenuta da profondità di sguardo e valori etici, possiamo diventare davvero strumenti di comprensione tra i popoli, opponendo un argine professionale a quel flusso che tutto sembra distruggere». Detto da uno che dichiara di «avere visto troppo odio, una guerra dopo l'altra», è un bel riconoscimento. I media «al servizio della comprensione tra i popoli», dice il tema della Giornata. La sua esperienza cosa le suggerisce? «Che oggi i mezzi di comunicazione incidono sui popoli più dei rispettivi governi, configurandosi sempre più come "quarto potere". Le nuove tecnologie poi li rendono straordinariamente efficaci, ma anche altrettanto pericolosi proprio perché la velocità delle notizie sembra comprimere il senso di responsabilità sui contenuti. Con i media si può demonizzare il nemico e fomentare l'odio, un meccanismo sinistro che ho visto infinite volte all'opera, dai Balcani al Medio Oriente. Questo accade in particolare nei Paesi dove la democrazia scarseggia, con la perpetuazione di pregiudizi e di letture distorte della memoria. È il caso della recente campagna anti-giapponese scatenata in Cina, Paese in grande ascesa ma che lamenta un preoccupante deficit info rmativo, un fatto molto grave». Se manca la democrazia, i mezzi di comunicazione diventano strumento di odio? «La povertà più eclatante è quella dei due terzi dell'umanità che vivono sotto la soglia di sopravvivenza dell'informazione. Ovunque vi sia una guerra si scopre che i media hanno preparato il terreno allo scatenarsi della violenza con un racconto unilaterale dei torti e delle ingiustizie, dalla ex Jugoslavia alla Palestina. Sempre ho assistito a un uso strumentale dell'informazione chiamata a offrire una chiave di lettura del presente e della memoria funzionale al calcolo politico». Le parole - si legge nel messaggio - possono unire i popoli o dividerli. Quali parole ha visto rimbalzare da un fronte di guerra all'altro? «Certi concetti propalati dai media sono come polvere da sparo, materia prima per l'esplodere della violenza. Penso in particolare alla ricorrente rappresentazione dell'avversario come un "miscredente". Karadzic incitava all'odio contro i bosniaci definendoli "turchi": così evocava tra i serbi l'orrendo ricordo dei dominatori musulmani. Ma lo stesso accade quando l'integralismo islamico usa categorie religiose per esecrare i moderati o i cristiani e additarli come bersaglio». Una piaga diffusa solo nei Paesi "totalitari"? «Niente affatto. Si costruisce incomprensione anche da noi, quando si fa cattiva informazione: ad esempio con un uso strumentale, ideologico o sottilmente distorto di quel mezzo potentissimo che sono le immagini». Quando invece ha visto i media trasformarsi in strumento di comprensione globale? «L'evento più recente è il maremoto in Asia, con l'informazione che è stata in grado di suscitare formidabili risorse di solidarietà. Certo, assistiamo di continuo all'affiorare di risposte emotive indotte nell'opinione pubblica da mass media ormai abituati al linguaggio dell'effimero e della superficialità. La maturità della comprensione si misura nella durata di un sentimento non transitorio». La notizia che accelera il su o ciclo e rende tutto istantaneo allora fa sfumare l'idea di una "solidarietà globale" indotta dai media? «Rispondo citando un evento decisivo per comprendere ciò che accade. Nella notte tra il 16 e il 17 gennaio 1991 la Cnn trasmise per la prima volta in diretta un evento bellico, il bombardamento di Baghdad. Da allora è cambiato irreversibilmente il modo di fare informazione, travolto dalla necessità di avere tutto in diretta sempre. Chiunque fa informazione si deve confrontare con la percezione che la gente ha delle immagini rovesciate senza sosta dalla tv. Da mezzi che raccontano i fatti, i media sono diventati attori protagonisti, strumenti essi stessi delle parti in conflitto. E chi fa informazione è finito sempre più spesso nel mirino dell'una o dell'altra fazione. Oggi chi fa informazione rischia di essere travolto da quel che produce, proprio perché l'onda comunicativa non lascia spazio a uno sguardo più ampio. Che è invece quello che dobbiamo restituire al nostro modo di raccontare il mondo».
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione di Avvenire. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.

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