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Il Foglio Rassegna Stampa
05.05.2005 L'islam in libreria
una rassegna critica che aiuta a conoscere la letteratura sull'argomento

Testata: Il Foglio
Data: 05 maggio 2005
Pagina: 2
Autore: Cristina Giudici
Titolo: «Maometto alle crociate di carta»
IL FOGLIO di venerdì 5 maggio 2005 pubblica a pagina 2 dell'inserto un articolo di Cristina Giudici che offre una ragionata panoramica dei testi sull'islam e sullo "scontro di civiltà" proposti dall'editoria italiana.

Ecco l'articolo:

Che l’occidente sia stanco e malato lo si intuisce andando in libreria, dove la minaccia islamica si è concretizzata in un’invasione cartacea sulla minaccia islamica. Dall’autunno dello scorso anno a oggi sono stati pubblicati innumerevoli testi che ponderano ogni aspetto dell’islam e il trend è in crescita. Solo negli ultimi tre mesi, in media, un libro a settimana. Saggi che ospitano dispute accademiche, disquisizioni e pensieri in libertà di intellettuali arabi dissidenti, o presunti tali. Romanzi che usano Il Corano (e le sue implicazioni) come orpello per raccontare catastrofi individuali ed estasi collettive, frustrazioni personali e inquietudini globali. Bigini storici e testi didattici per ragazzi. Analisi di islamologi di grido e testimonianze rigorosamente anonime che puntano dritto sulla pornografia del dolore. E infine versioni personalizzate dell’islam italiano da parte di chi ogni giorno osserva i suoi sacri cinque pilastri e rappresenta il magma confuso della comunità musulmana d’Italia. Insomma l’islam è diventato un fenomeno editoriale, riflesso di un fenomeno sociopolitico che incute timore e di cui più si parla meno si capisce. In cima alla lista dell’ipertrofica produzione cartacea si trovano le autobiografie: le più gettonate sono quelle anonime. Come la serie dedicata alle violenze sulle donne musulmane inaugurata dai tipi della Piemme che sta avendo un successo clamoroso. Autobiografie femminili, rigorosamente anonime, talmente apocalittiche e fin troppo esemplari da destare molte perplessità. Non è un segreto infatti che le donne vengano maltrattate in nome di Allah. O che, sempre in nome di Allah, le adolescenti vengano spesso sottratte alla vita e alle sue pulsioni. Ed è sicuramente vero che in Europa, ancora di più che nei paesi di origine, figlie e madri siano frequentemente unite a uno stesso misero destino di segregazione e di violenze. Ma le storie anonime che proliferano in libreria sembrano scritte appositamente per un pubblico occidentale, a cui piace commuoversi davanti alle tragedie pauperistiche di donne e adolescenti, siano indiane, islamiche o latinoamericane non importa. Infatti è difficile sottrarsi, pagina dopo pagina, al vivido racconto di "Bruciata Viva" in cui
Suad, una ragazza cisgiordana, disonora la sua famiglia, rimanendo incinta di un vicino, e per questo viene punita con una tanica di benzina. Dopo aver passato l’adolescenza a prendere la sua dose di pugni quotidiani, ogni giorno a ore fisse, prima di portare le pecore al pascolo o di accendere il fuoco, o ad assistere impotente alla complicità misogina e criminale della madre che ha addirittura soffocato sua
sorella per avere una femmina in meno in famiglia. Finché la miserabile Suad viene salvata dalla magica filantropia di un’operatrice umanitaria, anche lei nascosta dietro un nick name, e la sua storia è apparsa sulla copertina di un libro in bianco e nero con una maschera sul volto. Il racconto finisce con un happy end: la vittima ripara in Svizzera, dopo una fuga rocambolesca dall’ospedale palestinese, dove trova un uomo che la adorerà per tutta la vita e con cui mette al mondo due figli per poi ritrovare vent’anni dopo (ma quando è stata raccolta la sua testimonianza, prima dell’Egira?) il figlio illegittimo a cui chissà perché non viene in mente nessuna idea, neanche quella di chiedere a sua madre perché diavolo lo avesse abbandonato. Dopo "Bruciata Viva", che è già stata ristampata sei volte nel giro di pochi mesi, la Piemme ha da poco pubblicato un’altra autobiografia anonima, dal titolo estremamente fantasioso: "Murata Viva". Questa volta la poveretta si chiama Leila ed è un’adolescente marocchina che vive segregata in una banlieue parigina. La storia riassume in duecento pagine tutte le derive sociali provocate dall’applicazione più retrograda dei precetti del Corano. La protagonista subisce continue punizioni da parte di un padre padrone ogni volta che viola un tabù, sia una sigaretta o uno sguardo prolungato al maschio di un’altra famiglia. In lotta contro le prescrizioni religiose che stabiliscono ciò che è "halal", lecito, e "haram", illecito, (ma l’autrice che si suppone marocchina si sbaglia e continua a scrivere halam invece di haram). Prima viene segregata in casa e per questo fugge due volte ma la libertà le riserva solo le tentazioni di una vita dissoluta che rifiuta con disperata dignità. Poi viene costretta a un matrimonio combinato con un marocchino interessato esclusivamente a ottenere la cittadinanza, che la induce a tentare il suicidio più volte (senza mai riuscirci perché c’è un medico musulmano che riesce sempre ad arrivare in tempo) e infine trova la via della liberazione, dopo aver sofferto le pene dell’inferno per colpa di una suocera petulante e di un marito violento, e riesce a farsi ripudiare affrontando a testa alta il disonore. Un cocktail esplosivo ben miscelato con qualche disgrazia dal sapore più occidentale: depressione, anoressia, epilessia. E un tocco esotico che infila nella storia, già densissima di avvenimenti, anche un imam-stregone che cerca di curare la sua disperazione con strani riti e viziosi palpeggiamenti. Insomma in questa autobiografia c’è tutto il peggio dell’islam per un pubblico morboso e ansioso di sentenze inappellabili. Compreso un marito bastardo ma ingenuo che al giudice del tribunale spiega che l’islam permette di picchiare la moglie (Non che non sia vero, per carità, sono in molti i musulmani a condividere la sua opinione, ma non sono così sprovveduti da confessarlo a un giudice europeo). Insomma, più che un racconto pare un fumetto pulp, visto che la protagonista diventa anoressica mentre va in discoteca e suo marito si trasforma in un integralista mentre dorme abbracciato alla madre. Allo stesso filone appartiene "Nedjma, la mandorla"(Einaudi) che sicuramente verrà ricordato per questa frase: "Sono io ad avere la più bella figa dell’universo, la meglio disegnata, la più tonda, la più profonda, la più calda, la più umida, la più rumorosa, la più profumata, la più musicale, la più golosa di cazzi, quando sono ritti come arpioni". Un romanzo che viene venduto come primo esemplare di un genere nuovo, l’erotismo liberato da donne arabe oppresse e represse, ma che invece sembra la versione musulmana di Melissa P., e che però parte da un giusto presupposto: i tabù sessuali prescritti dai musulmani. E infatti la Bruno Mondadori sta per mandare in libreria "La sessualità nell’islam" di un sociologo tunisino, Abdelwahab Bouhdiba, che cerca di capire quando e come si sia esaurita l’antica aspirazione ideale, espressa esplicitamente nel Corano, di coniugare estasi terrene a gioie divine, visto che c’è un hadith di Maometto che dice più meno così: "Il sesso è un assaggio del paradiso". Molto più credibili paiono invece le testimonianze reali, quelle in cui le protagoniste ci mettono la propria faccia, che raccontano il dramma islamico in tutta la sua complessità. In cima alla lista va obbligatoriamente citata "Non sottomessa" di Ayaan Hirsi Ali, con prefazione di Adriano Sofri, (Einaudi) che in questi giorni è anche in cima alla classifica dei libri più venduti. La sceneggiatrice di "Submission", bollata come apostata anche dai musulmani più moderati, perché si è allontanata dall’islam e una volta ha dichiarato: "Maometto era un pervertito, le musulmane si ribellino" ha incrociato il suo dramma personale, la fuga in Europa per sfuggire a un matrimonio combinato, con quello di molte altre donne musulmane. Compresa la tragedia di sua sorella, morta dopo una crisi psicotica provocata dal suo tormentato tentativo di conciliare la religione con la propria emancipazione. Ayaan, di origine somala, affronta la questione islamica con una coerenza che convince. Gli aneddoti autobiografici da lei rievocati sono molto suggestivi. Uno è questo: "Mio padre diceva che Dio ha dato un posto onorato alla donna e ha messo il paradiso sotto i suoi piedi. Noi guardavamo i piedi di mia madre e quelli di mio padre e scoppiavamo a ridere. Lui aveva un bel paio di scarpe di cuoio italiane, lei era scalza". Analizzando i dogmi e i comandamenti islamici che si basano su una totale sottomissione alla tirannia di Allah, Ayaan Hirsi Ali arriva alla conclusione che i musulmani si salveranno solo se faranno autocritica e confuteranno la scala di valori morali dettati dal Corano. Per questo lancia un appello agli occidentali: "Non abbandonateci al nostro destino, dateci un Voltaire". Così come è convincente l’autobiografia di Khalid Chaouki "Salaam, Italia" (Aliberti editore) che racconta lo smarrimento di un giovane musulmano italiano, che vorrebbe liberare la sua comunità da antichi retaggi (a cui il Foglio ha già dedicato un lungo articolo) mentre suscita qualche dubbio quella di Irshad Manji, ugandese cresciuta in Canada, che fornisce spunti di riflessione molto significativi ma rivela un’utopia personale: realizzare il itjihad, la riforma dell’islam che non ignori i diritti individuali e la libertà sessuale, visto che lei, lesbica, afferma: "Maometto diceva che la diversità
in natura è una benedizione". E i romanzi? Una profusione che mette ansia. Quasi tutti usciti in Francia,
quasi sempre ambientati nelle banlieue parigine, quasi sempre costruiti intorno all’asse eterna di Allah. Che parlino di serial killer, come "Ali il magnifico" di Paul Smail da poco ristampato dalla Feltrinelli
che nelle avvertenze ha scritto "L’autore non ha inteso offendere chicchessia, morto o vivente, né Dio, si chiami Geova o Allah" o che ruotino intorno ai rapporti omosessuali come "Cioccolata calda" di Rachid O (Playground), dove il protagonista, nonostante abbia deviato dalla retta via, annuncia "Non c’era niente che ostacolasse la mia meditazione con Dio", ogni volta si torna a Canossa, e cioè al timore dell’ira di Allah. L’ultimo romanzo si intitola "Kif Kif domani" ed è stato scritto da una beur marocchina di vent’anni che vive in un’enclave araba di Parigi. La protagonista scrive un diario per narrare il suo ingeneroso destino mektoub ("Qualunque cosa fai rimarrai sempre fregato") e spiegare cosa significhi appartenere alla seconda generazione di immigrati arabi e musulmani. Perciò distilla gocce di risentimento sociale ed etnico con caustica ironia. A differenza delle sue coetanee, lei é stata graziata perché suo padre se ne è andato di casa per sposare una donna più giovane e avere un figlio maschio e quindi non può obbligarla a un matrimonio combinato o a mettere il velo. O di strapparle i poster dei divi rock dai muri, come faceva prima della sua dipartita, con l’urlo rituale: "Qui dentro c’è Satana!". Con sua madre è tutto più facile, visto che lei usa Dio solo come jolly, come quando non sa se dire sì o no e allora ripete inshallah, se Dio vuole. Neanche il fidanzato riesce a convincerla delle certezze islamiche quando le dice che la crisi adolescenziale è una stronzata, inventata dagli occidentali per giustificare il fallimento dei genitori mentre Doria, così si chiama la protagonista, vorrebbe sposare un tipo come Nabil, perché a occhio e croce potrebbe vincere un quiz e portarsi a casa l’automobile, ma sogna anche di diventare la pasionaria delle banlieue che potrebbe guidare la riscossa della sua generazione. "Come scriveva Rimbaud porteremo dentro di di noi il singhiozzo degli infami, il clamore dei maledetti", chiosa. Da segnalare anche i primi romanzi di musulmani italiani, che anche nella prosa si dividono fra intransigenti e moderati. "Il libro disceso da cielo" (Salani) di Ahamad Abd al Waliyy Vincenzo, storico dell’islam e membro della confraternita sufi, narra la vita di Zayd, uno dei "compagni" di Maometto, così chiamavano i discepoli del profeta di Allah, che ha scritto la prima copia del Corano, visto che Maometto era analfabeta. E’ la storia romanzata sulle origini dell’islam, vista attraverso gli occhi di un adolescente, realmente esistito, che ha seguito il Profeta. Una trama costruita sulla base dei se: se avessero dato retta ai primi fondatori dell’islam, se avessero interpretato correttamente il Corano, se avessero ascoltato chi predicava un messaggio di pace e di convivenza con le altre religioni e così via. Utile per sapere come è cominciato tutto, quando nel deserto ebrei e musulmani si allearono per combattere i poligami meccani, prima di rompere il patto, tenendo presente che l’autore vede tutto dalla prospettiva dei moderati e chiama ipocriti quelli che hanno usato l’islam per convenienza e lo hanno trasformato in un’arma di distruzione dei propri nemici. Hamza Picardo invece ha appena finito di scrivere "Il Puzzle del Derviscio" (edizioni Al Hikma) per esprimere l’aspirazione alla giustizia terrena di tutti i fratelli musulmani. Segretario dell’Ucoii, l’autore viene considerato rappresentante dell’ala più intransigente della comunità musulmana italiana, ma lui preferisce essere definito un musulmano di sinistra (negli anni 70 militava nell’autonomia operaia). Il suo primo romanzo, scritto con trecentotrentatré sms, racconta di un complotto internazionale orchestrato dai sufi che mettono d’accordo tutti i fratelli musulmani, compresi gli sciiti, per trasformare i petrodollari in euro e gettare sul lastrico gli Stati Uniti. Con la complicità di tutti i paesi del Sud del mondo e due superpotenze, la Cina e la Russia. Un thriller sms(sato), tutto scritto con un Nokia, che si svolge contemporaneamente in tutti i cinque continenti e serve, oltre che a cementare la fede antimperialista dei musulmani d’Italia, anche a spiegare alcuni rudimenti del Corano ai "deviati". Nella retorica saggistica, il punto di partenza e spesso anche di arrivo è sempre quello: lo scontro di civiltà. Fra i testi accademici spiccano le due versioni contrapposte di analisi del fondamentalismo islamico: da una parte "Jihad, le radici" di Luciano Pellicani per i tipi della Luiss University Press. Pellicani preferisce parlare di "aggressione culturale permanente". Rifacendosi alla teoria dello storico Toynbee, analizza la storia dei rapporti fra occidente e paesi islamici, partendo dalla rivoluzione khomeinista fino al sogno di "dar al islam" (casa dell’islam) sostenuta oggi da movimenti radicali islamisti che vorrebbero costruire la Umma in Europa. Per l’ex direttore di Mondoperaio, che ricorda il vecchio motto di Khomeini: ("L’islam o è politico o non lo è"), da vent’anni è in atto una vera e propria aggressione permanente contro la civiltà occidentale, una guerra culturale fra due modelli di
civiltà incompatibili. L’autore cerca anche di capire come mai una delle civiltà più creative abbia imboccato la strada della decadenza e della pietrificazione e cita la tesi dello storico arabo Ibn Khaldun del XIV secolo, caro ai musulmani moderati, secondo cui la rovina economica del mondo islamico è da imputare ai diritti di proprietà calpestati dai governanti che hanno soffocato sul nascere ogni vocazione individuale. "L’esito finale di questa lotta è ancora incerto", scrive il sociologo della Luiss. "Se alla fine vinceranno gli zeloti non ci sarà alcuno spazio per la democrazia liberale che deve superare vari ostacoli, di cui uno psicologico da non sottovalutare: il risentimento dei popoli del dar al islam che percepiscono l’occidente come il nemico di sempre". La risposta all’analisi di Pellicani viene dall’Università Cattolica, all’interno della collana dell’Alta scuola di economia e relazioni internazionali diretta da Vittorio Emanuele Parsi, che ha tradotto un saggio del docente americano John Esposito: "Guerra santa, il terrore nel nome dell’islam" in cui l’autore liquida la teoria di Huntington come semplicistica. Secondo lui in passato l’islam si è mostrato più tollerante del cristianesimo e ha eliminato la persecuzione religiosa. Fautore della necessità di convivenza con i musulmani sostiene che sia sbagliato pensare che valori laici e dogmi islamici siano incompatibili. Esposito sposa le tesi sostenute dai Fratelli Musulmani: lotta antimperialista, rispetto delle tradizioni religiose e negazione dello scontro fra moderati e intransigenti. "In Marocco le donne rappresentano il 20 per cento dei giudici", rammenta ai lettori, "mentre in Arabia Saudita possiedono molte proprietà immobiliari". E il velo? Risposta da copione: "Se molti associano il velo con l’oppressione delle donne, altri lo considerano una pratica autentica che preserva dignità, libertà e pudore e che permette loro di essere trattate per come sono e non per come appaiono". Come mai l’università cattolica manda in libreria un testo così rigorosamente tradizionalista? Lo spiega il direttore della collana nella prefazione: "Lo scontro di civiltà non avviene in Palestina, in Afghanistan o in Iraq, dove talvolta la necessità della sicurezza e o della lotta al terrorismo ci portano a combattere, ma dentro le nostre coscienze quando si annebbia la consapevolezza che non esiste un altro da noi monoliticamente ostile e che molto di ciò che altri sono dipende anche da ciò che facciamo". Per quanti anni continueremo a parlare di scontro di civiltà? Il primato dell’islam militante, la dicotomia fra integralisti e moderati e la necessità del dialogo è il tratto comune che caratterizza quattro saggi in uscita nel mese di maggio. Il più importante è quello a firma di Magdi Allam, che ha appena finito di scrivere la sua autobiografia (che farà sicuramente discutere). S’intitola "Vincere la paura, la mia vita contro il terrorismo islamico e l’incoscienza dell’occidente" (Mondadori) in cui Allam racconterà la prima parte della sua vita in Egitto fino agli anni 70, in un’epoca in cui l’islam era ancora protetto da un’aura di laicità e di moderatismo,
e delle cause concatenate che hanno prodotto la sua involuzione fondamentalista. La sua testimonianza è soprattutto un furente "j’accuse" contro i gruppi radicali, tirati in causa con nomi e cognomi, che lo hanno minacciato e costretto a vivere sotto protezione. Un’invettiva contro la complicità incosciente di tutti quelli che in occidente e in Italia hanno sottovalutato la minaccia dell’islam militante, permettendo alle moschee italiane di diventare centri di indottrinamento ideologico e di trasformare l’Europa e l’Italia in una roccaforte del fondamentalismo. Khaled Fouad Allam invece, islamologo algerino e firma di Repubblica, ha consegnato alla Frassinelli un saggio scritto con Salvatore Veca che s’intitola "Dialogo civile. Confronto fra islam e occidente" sulla necessità di trovare un terreno comune fra le due civiltà, mentre la Vallecchi ha appena tradotto "Musulmani d’occidente" di Jocelyne Cesari che analizza lo scontro fra le comunità islamiche e l’Europa: un tema poco esplorato, in cui l’autrice ricostruisce gli schemi politici in cui si muovono i musulmani occidentali, wahabiti e Fratelli Musulmani, conservatori e innovatori, e analizza il tentativo ansioso di una nuova generazione di moderati che in America e in Europa vorrebbero espugnare i conservatori. In questa riflessione s’inserisce anche un poeta siriano, Adonis, che vive in esilio a Parigi. Il suo libro s’intitola "La musica della balena azzurra" (Guanda) e racconta lo smarrimento in cui si trovano gli arabi musulmani che cercano di essere occidentali e quello provato dagli occidentali che cercano, invano, di capire i musulmani arabi. Anche lui insiste sulla divisione fra innovatori e conservatori. La tesi è sempre la stessa, scontro e mancanza di libertà individuale, censura religiosa e primato dell’ideologia sulla spiritualità, visto però da un’ottica araba. Adonis aggiunge qualche suggestione letteraria. Sul velo: "II volto è il principio dell’uomo. Come è accaduto che sia diventato l’ultima cosa della donna? Forse la donna è un mistero che il maschio arabo non è capace di decifrare". Sull’identità del popolo arabo: "La sua assenza (del popolo arabo) è talmente evidente da far pensare che il popolo arabo sia un’invenzione
letteraria". Sul messaggio di violenza culturale insita nel Corano in cui Allah arriva a negare ogni libertà al suo profeta: "Tu non guidi chi ami, è Dio che guida chi vuole". Sull’ipocrisia del dialogo fra le due civiltà: "L’islam inneggiato dall’Europa è quello dei regimi, della sottomissione e della resa. Mi pare di vedere sulle onde i cadaveri dei migliori, Ulisse, Gilgamesch e Europa, il nome di una donna che si è staccata dalla sponda sirofenicia". Grazie ai tipi della Bastogi, prende la parola anche Zahoor Ahmad Zargar, presidente della comunità musulmana di Genova che dirige undici luoghi di culto. Zargar si fa intervistare dalla moglie per dire due o tre cose sui musulmani italiani. E cioè che rifiutano il terrorismo, ma provano un grande dolore nel petto per le ingiustizie inferte ai fratelli palestinesi. Che in Italia non ci sono terroristi e quei pochi condannati sono a occhio e croce innocenti mentre le moschee non sono affatto centri di indottrinamento ideologico. E, ancora, che per l’islam la donna e l’uomo hanno pari diritti mentre le discriminazioni si devono più alle tradizioni che ai dogmi teologici
e infine che non esiste un islam moderato o immoderato perché cribbio si sa che siamo tutti musulmani. E per concludere la lunga lista di esempi, più o meno felici, dell’islam editoriale citiamo "Salam Aleikum Yasmin, l’islam raccontato ai bambini", il primo testo pedagogico curato dalle Edizioni Dehoniane Bologna, Edb, che hanno curato una tavoletta cattolica e multietnica nella speranza di smussare la diffidenza (e magari anche la cattiveria innata dei più piccoli) nei confronti dei piccoli musulmani. Una storiella che racconta l’amicizia fra due compagni di scuola, un bambino cattolico e una bambina musulmana. E a furia di cruciverba, indovinelli e disegni, spiega ai bambini italiani tutte le particolarità dell’islam per arrivare alla conclusione che le differenze fra le due religioni sono proprio pochine. Certo, gli autori si incartano un po’ quando devono spiegare la questione di Gesù figlio di Dio che i musulmani considerano una blasfemia, ma siccome Gesù è considerato un profeta importante, (secondo il Corano tornerà alla fine dei tempi), allora va tutto bene. Anche la fastidiosa faccenda del velo viene prospettata come un fatto positivo, visto che anche i cattolici hanno le suore e la Madonna indossava un copricapo, ci spiegano gli autori. Insomma una favola politicamente corretta, scritta con estrema cura e un solo limite: dribbla la realtà.
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