Boicottaggi e criminali squadrismi rossi: all'Università c'è ancora posto per la libertà di parola ? Giorgio Israel denuncia l'intolleranza del mondo accademico contro Israele, in Gran Bretagna come in Italia
Testata: Il Foglio Data: 05 maggio 2005 Pagina: 1 Autore: Giorgio Israel Titolo: «Riparte dalle università inglesi ( e ha code italiane) il boicottaggio accademico di Israele»
IL FOGLIO di giovedì 5 maggio 2005 pubblica a pagina 1 dell'inserto un articolo di Giorgio Israel sul montare, in coincidenza dell'aprirsi di prospettive di pace, dell'intolleranza anti-istraeliana nelle università europee. In quelle inglesi, in cui la maggioranza dei docenti aderisce a un'iniziativa di boicottaggio, e in quelle italiane, dove si moltiplicano gli episodi di squadrismo.
Ecco l'articolo: La campagna per il boicottaggio di Israele in ambiente universitario prese le mosse in modo imponente nella primavera del 2002. Era un susseguirsi di raccolte di firme di professori universitari che aderivano all’indicazione di evitare contatti con le istituzioni scientifiche e accademiche israeliane e persino con i singoli qualora non avessero preso le distanze dalla politica del loro paese. Mi trovavo a Parigi in quel periodo, invitato da un’università, e ricordo perfettamente il clima avvelenato, i colleghi che si presentavano in keffiah ai seminari, che ti chiedevano quali iniziative si stavano prendendo nelle università italiane contro Israele, come se fosse ovvio che una persona normale non potesse avere una posizione differente. Ricordo i rapporti divenuti insostenibili, le amicizie rotte, le improvvise preclusioni. A nulla valeva nei confronti dei più fanatici – per fortuna, non pochi compresero e cambiarono idea – sottolineare il carattere assolutamente inedito di una simile iniziativa. Neppure nei confronti delle istituzioni accademiche e scientifiche sovietiche erano mai state compiute scelte simili. E ciò in quanto si riteneva – giustamente – che fosse preferibile lasciare aperte le porte della collaborazione scientifica e culturale, in quanto, attraverso tale canale di dialogo, poteva trasmettersi il germe benefico della democrazia e della libertà. Chi vuole avere memoria ricorda benissimo gli accademici e scienziati sovietici che passeggiavano per i convegni nei paesi occidentali con la medaglietta di Lenin sulla giacca, mentre a casa loro i dissidenti finivano nel Gulag: nessuno mai si sognò di cacciarli via o di decretare un boicottaggio nei loro confronti. Ora, per la prima volta, si decideva di infliggere un simile trattamento a Israele. Fu un’ondata di mefitica intolleranza che dilagò nelle università di molti paesi: soprattutto in Francia e in Inghilterra e in numerose università statunitensi, per fortuna quasi affatto in Italia. Nel luglio 2002 si verificò un evento che contribuì a determinare l’inizio di una svolta. Mona Baker, direttrice del Center for Translation of Multicultural Studies presso l’Università di Manchester, cacciò due ricercatori israeliani – Gideon Toury dell’Università di Tel Aviv e Miriam Schlesinger dell’Università Bar Ilan – dal comitato scientifico di due riviste del centro, con la esplicita ed esclusiva motivazione che essi erano israeliani e quindi cittadini di quel paese dannato, e li sostituì con due ricercatori palestinesi. Per giunta, Schlesinger era una nota esponente del movimento pacifista israeliano… Un provvedimento di natura indiscutibilmente razzista che richiama un precedente storico: quando, nel 1938, l’Unione matematica italiana sostituì il suo rappresentante nel "board" della rivista tedesca di recensioni matematiche "Zentralblatt für Matematik", ovvero il celebre scienziato Tullio Levi-Civita, in quanto ebreo, con due matematici ariani, Francesco Severi ed Enrico Bompiani. Il carattere evidentemente razzista del provvedimento della Baker non consentiva alibi: coloro che si rifiutarono di dissociarsi dalla sua azione e mantennero la loro firma accanto alla sua nei manifesti di boicottaggio svelarono la loro assoluta malafede e il carattere fazioso – per essere eufemistici – delle iniziative di boicottaggio. Si può dire che da allora la campagna iniziò ad attenuarsi. Tanto che quando, circa un anno fa, fu presentato a varie case editrici in Francia un volumetto dedicato alla vicenda del boicottaggio e redatto da universitari non soltanto francesi, la risposta fu che ormai essa apparteneva al passato e non era più di attualità.Chi poteva attendersi che, molto tempo dopo, proprio dopo la decisione del governo israeliano di ritirarsi da Gaza e la riapertura di un dialogo con l’Autorità nazionale palestinese, il boicottaggio sarebbe ripreso alla grande? Non se lo potevano attendere coloro che credono ancora alla buona fede dei promotori di tali iniziative e a cui il caso Baker non ha insegnato nulla. Non si è detto e scritto che una ripresa del dialogo israelo-palestinese, dopo tanti drammi, era una delicata piantina da preservare con ogni cura dalle intemperie? non si è detto e scritto da ogni parte che Sharon aveva mostrato un coraggio senza precedenti? Lui è il "De Gaulle Palestina", si è detto e scritto. Le persone ingenue avevano quindi ogni ragione per ritenere che questo non era proprio il momento in cui scatenare una nuova campagna di boicottaggio. Ma si sbagliavano. Perché nella loro ingenuità non avevano previsto che mentre la mano destra lodava il "De Gaulle della Palestina", la mano sinistra compilava il nuovo appello al boicottaggio – o se non si è trattato delle mani della stessa persona, si è trattato di un gioco delle parti tra compari. Come commentare altrimenti l’incredibile silenzio (o quasi silenzio) con cui è stato accolta la decisione presa a maggioranza un paio di settimane fa dal sindacato dei professori universitari della Gran Bretagna (49.000 iscritti) di boicottare le Università di Haifa e Bar Ilan? L’organizzazione britannica ha invitato i suoi aderenti a non stabilire alcun rapporto di collaborazione scientifica con le due istituzioni, fatta eccezione per quei loro dipendenti che mostrino un atteggiamento critico nei confronti della politica del loro paese… Ma quale autorità morale può mai esibire un’organizzazione che non ha fatto neppure stormire una foglia di fronte ai massacri compiuti da dittatori e satrapi del terzo e quarto mondo? Eppure, a fronte di un simile scempio dell’onestà intellettuale e della morale, il mondo accademico internazionale tace o al più borbotta, almeno finora. Potrebbe essere di consolazione il fatto che in Italia, ancora una volta, il boicottaggio sembra non attecchire. Ma è meglio non rallegrarsi troppo. Perché è proprio qui che abbiamo avuto alcuni sintomi del riemergere dello scellerato fenomeno. Nei mesi scorsi, prima a Pisa, poi a Firenze, gruppi di autonomi dell’estrema sinistra hanno impedito l’intervento del consigliere Shai Cohen e dell’ambasciatore israeliano nell’ambito di seminari universitari. L’aspetto più inquietante di tali episodi è la copertura che è stata data agli atti squadristici da parte di ambienti e organi di stampa dell’estrema sinistra, come il Manifesto. Giorni fa è accaduto il terzo episodio. A Torino, il consigliere Elazar Cohen dell’Ambasciata d’Israele ha potuto tenere una lezione nell’ambito del corso di Geografia culturale della professoressa Daniela Santus soltanto perché la predetta ha avvertito preventivamente la Questura. Ciò non l’ha salvata da un tentativo di aggressione fisica e da un lancio di razzi da parte di un gruppo di studenti "antisionisti", appartenenti equamente all’estrema sinistra e all’estrema destra. Ancor più inaudito è il fatto che la docente sia stata costretta ad annunciare al preside della sua facoltà di dover rinunciare a proseguire l’attività didattica in aula, per le minacce ricevute, e di essere costretta a far lezione a gruppetti di tre persone nello studio. Questi fatti sono avvenuti pochi giorni prima del 25 aprile, che poteva essere la buona occasione per pronunciarsi su un evento di classico squadrismo da "manganello e olio di ricino" e che rientra quindi a pieno titolo nella tematica dell’antifascismo attuale, non di quello d’archivio. Al contrario, buona parte del mondo accademico, politico e giornalistico ha preferito voltare la testa dall’altra parte e dar fiato alle consuete trombe della retorica o delle consunte polemiche sulla "memoria condivisa", mentre i soliti ambienti di estrema sinistra – ormai egemoni di quelli di estrema destra che, sulla questione israeliana, sono divenuti la loro manovalanza – plaudivano neanche tanto a bassa voce alla "resistenza" contro il sionismo. Ma converrà ritornare all’estero e alla vicenda degli universitari britannici per aggiungere una pennellata finale al quadro, tra il sinistro e il grottesco, della nuova campagna di boicottaggio. Subito dopo l’inizio di questa campagna, il Guardian ha pubblicato (il 20 aprile) un articolo di un docente israeliano, Ilan Pappe, guarda caso "senior lecturer" in Scienze politiche di una delle due università boicottate, quella di Haifa. Per dare una prova di quanto nella sua università imperi un clima di terrore illiberale, il nostro che cosa ha fatto? Ha pubblicato un appello al boicottaggio non soltanto della sua università, ma di tutte le istituzioni accademiche e, anzi, dello Stato d’Israele tout court. "Faccio appello a voi – ha proclamato Pappe – a far parte di un movimento storico e di un momento che può portare a concludere più di un secolo di colonizzazione, occupazione di spossessamento dei palestinesi". Secondo Pappe, le "infamie" commesse dall’esercito israeliano sarebbero possibili perché coperte dall’autorità dell’accademia israeliana, e quindi scardinando questa si priverebbe di supporto morale l’esercito. Difatti, l’università sarebbe connessa ai servizi di sicurezza in quanto fornisce i diplomi "postgraduate"… Di conseguenza, gli accademici israeliani, gli uomini di affari, gli artisti e gli industriali hi-tech debbono ricevere il messaggio che occorre pagare un prezzo per il consenso alle politiche governative. Non fermiamoci ulteriormente su simili deliri che offrono motivazioni sufficienti per interrogarsi sull’adeguatezza scientifica di simili personaggi, peraltro abbastanza isolati. Chiediamoci piuttosto perché si comportano così. La prima risposta richiama la nota e quanto mai efficace caratterizzazione di François Furet del "tratto unico della democrazia moderna nella storia universale", da cui Israele non è certamente esente: "Questa capacità infinita di produrre dei figli e degli uomini che detestano il regime sociale e politico in cui sono nati, odiano l’aria che respirano, mentre vivono di essa e non ne hanno conosciuto un’altra". Questa caratteristica Questa caratteristica trova oggi la sua espressione quintessenziale nella vasta internazionale della cultura postmoderna e postcomunista, antioccidentale e alterglobalista che domina gran parte dei campus universitari, dagli Stati Uniti all’Europa, e che non manca di estendere le sue propaggini, sia pure minoritarie, anche in Israele. Ma una siffatta spiegazione, pur fondatissima e che individua i tratti caratterizzanti di questo fenomeno culturale e sociale, non basta a rispondere alla domanda del perché proprio ora e perché tanto rinnovato attivismo da parte di questi "intellettuali" israeliani. La risposta sta precisamente nel "proprio ora". Proprio ora, perché adesso si profila un possibile percorso di soluzione, intricato e difficile quanto si vuole, ma realistico e che, soprattutto, ha come prima tappa un evento concretissimo: il ritiro da Gaza. E perché questo percorso non è il "loro", non è quello dei cosiddetti "accordi di Ginevra", o di analoghe chiacchiere prive di qualsiasi fondamento concreto, ma quanto mai utili ad attirare come una calamita l’interesse, le passioni e le simpatie dell’antisionismo internazionale; ovvero di coloro che, come si constata ancora una volta in questi giorni, non hanno a cuore la pace quanto l’eliminazione dello Stato di Israele. Cosa resterebbe da fare ai personaggi alla Pappe, se tutta l’attenzione si incanalasse attorno al ritiro da Gaza e agli sviluppi geopolitici connessi? Chi li intervisterebbe più sui grandi giornali, alle televisioni e alle radio occidentali? Chi si preoccuperebbe più di tanto di tradurre i loro libri, di recensirli e diffonderli? Ecco allora che, di fronte al rischio dell’assoluta irrilevanza, questi personaggi, invece di stimolare il processo iniziato nella direzione da essi ritenuta opportuna, lo ostacolano di fatto, si agitano istericamente e chiedono aiuto ai loro confratelli accademici di ogni continente, cogliendo l’occasione del riemergere della campagna di boicottaggio. E’ da augurarsi soltanto che il corso degli eventi sanzioni nei fatti questa irrilevanza e dia loro l’opportunità di esibire le loro qualità accademiche, scientifiche o letterarie e non soltanto la capacità di esibirsi sulle tribune mediatiche. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.