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Il Foglio Rassegna Stampa
05.05.2005 La scrittrice franco-iraniana che rifiuta il velo, il filosofo ebreo francese che continua a riconoscersi occidentale: bersagli per la nuova intolleranza
due storie esemplari

Testata: Il Foglio
Data: 05 maggio 2005
Pagina: 1
Autore: Maurizio Stefanini - Enrico Rufi
Titolo: «Chahadortt Djavann, che vive nascosta perchè non accetta di nascondersi sotto il velo - Dagli a Finkielkraut, l'ebreo che si ostina ad essere occidentale»
IL FOGLIO di giovedì 5 maggio 2005 pubblica a pagina 1 dell'inserto un' intervista di Maurizio Stefanini alla scrittrice franco-iraniana Chahadortt Djavann, autrice del libro, pubblicato in Italia da Lindau, "Che cosa pensa Allah dell'Europa?".

Ecco l'articolo:

Roma. "La società islamica è una società pornografica!". E’ una tesi espressa
da Chahadortt Djavann in "Che cosa pensa Allah dell’Europa?", il suo ultimo libro (in francese edito da Gallimard nel 2004; edizione italiana ora uscita per Lindau, pp.68, Euro 9,50). E conferma come continui a non andarci di fioretto questa trentasettenne antropologa iraniana, esule a Parigi da undici anni, divenuta famosa per i suoi roventi attacchi contro l’uso del velo. "Da tredici a ventitré anni sono stata repressa, condannata a essere una musulmana,
una sottomessa e imprigionata sotto il nero del velo", aveva già scritto in "Giù i veli" (del 2003, edizione italiana del 2004 presso Lindau, 56 pagine, 9 euro): un breve ma duro pamphlet che l’aveva segnalata al grande pubblico con un successo folgorante, dopo il romanzo d’esordio "Je viens d’ailleurs" (Autrement, 2002). "Ho portato dieci anni il velo. Era il velo o la morte. So di cosa parlo". E ancora: "Da tredici a ventitré anni. E non lascerò dire a nessuno che sono stati i più begli anni della mia vita. Coloro che sono nati nei
paesi democratici non possono sapere a che punto i diritti che a loro sembrano del tutto naturali sono inimmaginabili per altri che vivono nelle teocrazie islamiche". Non è dunque sorprendente che sia stata duramente minacciata, e che viva nascosta. Lo stesso nome di Chahadortt è in realtà uno pseudonimo, che si riferisce polemicamente proprio al chador, come strumento di occultamento dell’identità femminile. Insomma, per lei è ancora questione di "chador o morte". Eppure, Chahadortt Djavann rigetta con energia l’etichetta di "Fallaci francese" o "Fallaci iraniana", che le è stata affibbiata anche dal Corriere della Sera. "Per carità", risponde alla "provocazione" dell’intervistatore
del Foglio. "Libri come quelli di Oriana Fallaci non fanno altro che aizzare l’odio tra i popoli. Sono libri che si prendono beffe dei rituali musulmani, quando tutti i popoli del mondo hanno propri rituali, dai popoli più primitivi a quelli più civili. E tutti i rituali possono essere facilmente sbeffeggiati, sia che si tratti di rituali religiosi che di rituali laici. Ma io penso che non sia giusto aggredire, ridicolizzare o sbeffeggiare nessuno per un rituale". Chahadortt Djavann però ha scritto cose durissime contro il velo. "Il velo non è un rito, ma una violenza sulle donne. E’ giusto difendere le donne da questa violenza, ma Oriana Fallaci non difende, insulta. Certo ha successo, perché è
facile ridicolizzare il prossimo. Lei però fa polemica senza avere conoscenze approfondite dell’islam, né come religione, né come cultura. I miei libri invece non sono polemici, ma analitici. Analisi basate sui miei studi di sociologia, antropologia, psicologia sociale". Qual è dunque l’analisi non polemica che la spinge a parlare di quella islamica come "cultura pornografica"? "E’ una definizione ovviamente nel senso simbolico del termine. Una donna velata ha su di sé come una scrittura: certamente invisibile,
ma che può nondimeno essere facilmente decifrata. E il simbolismo del velo indica che una donna è riservata. Serve a far distinguere la fornicazione interdetta da quella consentita. L’immagine mentale che sta inscritta nella donna velata è la fornicazione riservata al buon musulmano. Lo si vede oggi in Iraq, con la presenza dei soldati stranieri che ha portato molte donne a mettersi il velo che prima non lo portavano. E dunque, nella sostanza ci troviamo di fronte a una società pornografica. Una società dove l’atto sessuale, nel senso fisiologico-meccanico del termine, è esibito. A parte ogni altro significato antropologico, sociologico, giuridico, sessuale o psicologico, il velo indica prima di tutto che con quella donna ogni fornicazione è indertetta ai non musulmani. Poi, se è sposata, che la fornicazione con quella donna è riservata a suo marito. Poi, se non è sposata, che la consumazione sessuale di quella donna sarà riservata al suo futuro marito, che sarà un musulmano". E’ una polemica che sembra riecheggiare antiche polemiche di apologisti cristiani contro il carattere "sensuale" dell’islam: da san Giovanni Crisostomo a Pio II e a Blaise Pascal. D’altra parte il cristianesimo ha subito nei secoli l’accusa opposta, di sessuofobia. "Evidentemente la tematica della sessualità suscita problemi in
tutte le religioni. Da questo punto di vista il Corano non ha inventato granché, se si pensa che pure san Paolo nel Nuovo Testamento invitava le donne a mettersi il velo. Detto questo, non c’è dubbio che da un po’ di secoli a questa parte le società cristiane hanno avuto una certa evoluzione. Quelle islamiche no". Qual è il processo che ha portato da Giù i veli" a "Che cosa pensa Allah dell’Europa?"? L’impressione è di ampliamento degli obiettivi… "Effettivamente il primo è stato un libro scritto soprattutto per spiegare ciò che c’è sotto il velo islamico. C’è la spiegazione del significato del velo islamico nel senso antropologico, giuridico, sociale, psicologico del termine, e c’è la richiesta di considerare il velo ai minori come una forma di maltrattamento. L’altro libro è invece soprattutto un’analisi della strategia islamista in Europa. Ho voluto mostrare come il discorso islamista tenti di strumentalizzare i risentimenti della popolazione di origine musulmana in Europa per convertirla all’estremismo religioso sfruttando il sentimento della religiosità, evidenziando come si tratti in effetti della stessa tecnica già usata nei paesi musulmani". Ma esiste la possibilità di un islam moderato
o modernista? "Secondo me, no. L’islam è una religione. Se ne può pensare ciò che si vuole, come si può pensare ciò che si vuole della religione cattolica o dell’ebraismo. Ma quando si parla dell’islamismo nel senso moderno del termine oggi si parla dell’islam che fa le leggi della società. E a partire dai comandamenti islamici che divengono leggi del paese o della società, o che vogliono divenirlo, non c’è moderazione. Si potrebbe obiettare che ogni religione ha comandamenti che confliggono con i principi di una società democratica, ma bisogna distinguere. Quando il Papa proibisce l’aborto o l’utilizzazione del preservativo, bene, fa il suo mestiere! Ma quando sono le leggi di un paese a far diventare l’utilizzo del preservativo un delitto, è lì che si torna al Medio Evo. Lo si vede in un paese come la Turchia, dove governa
oggi un partito islamico che sta tentando di riportare la legislazione laica kemaliana alla legislazione islamica. Dunque non può esservi moderazione, perché se no ne verrebbero scosse le fondamenta stessa della costruzione religiosa". I grandi paesi dell’occidente questa minaccia integralista la stanno affrontando con due strategie quasi opposte. Da una parte gli Stati Uniti e il Regno Unito sono molto permissivi sull’integralismo islamico
sul loro territorio: piena libertà di velo, piena libertà di propaganda e organizzazione. Stanno però portando avanti un progetto di esportazione della democrazia in terra d’islam, se necessario anche con la forza. Al contrario, Germania, Francia e ora anche la Spagna di José Luis Rodríguez Zapatero criticano l’esportazione della democrazia con la forza. Però mantengono strette le redini sulla propaganda islamista nel proprio territorio nazionale: dal divieto del velo in pubblico allo stretto controllo sul clero islamico. "Bisogna
considerare che i contesti sono molto differenti. La Gran Bretagna ha tollerato gli estremisti più estremisti, e perfino i terroristi, nello stesso senso in cui tollera anche le vendita degli organi. Viene da pensare che vi trovi convenienza economica, visti gli investimenti sauditi e kuwaitiani nella City di Londra. Ma bisogna pure considerare che l’immigrazione in Gran Bretagna non è principalmente islamica. Sì, c’è una forte comunità iraniana, c’è una ancor più forte comunità pakistana, ma i più numerosi di tutti sono gli indiani, che
sono tradizionalmente ostili all’islam. E tale discorso è ancora più valido per gli Stati Uniti, dove l’emigrazione viene soprattutto da America latina e Asia orientale, e dove anche gli oriundi dai paesi islamici sono per lo più ostili all’integralismo. La numerosa comunità iraniana degli Stati Uniti, in particolare, è quasi in blocco contro il regime degli ayatollah. In Francia invece l’immigrazione è essenzialmente musulmana: non fosse per i cinesi, potremmo ormai dire solamente musulmana. Algerini, marocchini, tunisini, iraniani, turchi, maliani… E quella della Germania è situazione è ancora più specifica, per i sensi di colpa risalenti alla Seconda guerra mondiale. Così nei confronti dei turchi i tedeschi hanno dato prova di una grande tolleranza e di un grande rispetto, e d’altronde i turchi lì sono in gran parte laici. L’integralismo si limita a una piccola quota di immigrati, provenienti da ceti particolarmente umili. Tuttavia col tempo questa quota è andata crescendo, e credo anzi che la Germania abbia avuto una grande responsabilità nella crescita dell’islamismo in Turchia. Conosco bene la Turchia perché vi ho soggiornato prima di arrivare in Francia, e ho molti amici turchi (Chahadortt Djavann è oriunda dell’Azerbaigian iraniano, e quindi è presumibilmente di origine turcofona essa stessa, ndr). Tutti loro mi ripetavano che prima dell’attuale governo gli integralisti espulsi dalla Turchia trovavano regolarmente rifugio in Germania. Credo che non sia stata una buona cosa, né per la Germania, né per la Turchia. Ritengo che ormai tutti i politici europei responsabili abbiano preso preso coscienza del rischio islamista: non solo l’ondata di attentati ma anche quello che nel mio libro definisco il jihad sotterraneo, il proselitismo e confessionalismo sotterraneo. Ma nel passato sono stati fatti errori gravissimi. Bisogna chiedersi ancora fino a che punto certe forme di tolleranza non si siano poi tradotte in concreto in intolleranza. E anche se certe forme di gestione dei conflitti siano state poi davvero tolleranza nel senso di rispetto dell’altro".
Sempre a pagina 1 dell'inserto l'articolo di Enrico Rufi sul filosofo Alain Finkielkraut e sull'intolleranza contro un ebreo che "si ostina a essere occidentale".

Ecco l'articolo:

Parigi. E’ diventato sempre più difficile, si sa, distinguere le vittime vere da quelle fasulle. Vittime vere sono stati sicuramente quei poveri liceali, bianchi – la precisazione è importante come vedremo – aggrediti durante la manifestazione studentesca dello scorso 8 marzo a Parigi da squadre di teppisti delle periferie "difficili", infiltratisi nella manifestazione: per lo più franco-magrebini e franco-africani. Fasulle, sono invece le vittime dell’ultima
patacca ideologica made in France (come già quelle dell’"islamofobia" e quelle
dell’"omofobia"), chiamata "melanofobia", che sarebbe un rigurgito o una riedizione moderna del vecchio razzismo dei bianchi nei confronti di chi ha più melanina nella pelle. Paladino della causa, vero e proprio idolo dei teppisti di cui sopra, e con una sua credibilità supplementare che gli viene dal colorito scuro, è un comico di nome Dieudonné. Costui utilizza i metodi di Tariq
Ramadan, ha notato con perspicacia Jean Daniel: indica alla vendetta popolare questa o quella personalità, esponendola al pubblico ludibrio nei suoi spettacoli, trasformati in meeting antirazzisti. Però, a differenza dell’erede dei Fratelli mussulmani lui si pone in un’altra ottica, perché pretende di incarnare la causa dei neri e la memoria della tratta degli schiavi. A sentire lui, a forza di celebrare la Shoah, si è finito per far cadere nel imenticatoio lo schiavismo, una tragedia confiscata – come ha detto di recente ad Algeri – perché "la lobby sionista si è accaparrata l’esclusiva della sofferenza". E il bello è che quest’enormità funziona – constata allibito Daniel – a giudicare dal tutto esaurito delle sue tournée, nazionali e oltremare, da Algeri alle Antille. In effetti bisogna avere una gran faccia tosta per sostenere, e riuscire a far credere, che la tratta dei neri non è stata e non sia tuttora la cattiva coscienza dell'occidente. Sicuramente quella del primo ministro francese Jean Pierre Raffarin, il quale sta lavorando per indire una Giornata della memoria della tratta dei neri e dello schiavismo, accontentando così una folla di progressisti che preme per chiedere le "Assise dell’anticolonialismo postcoloniale". E’ questo l’humus in cui si è scatenata per le vie di Parigi la caccia al bianco. Di fronte alla gravità di queste aggressioni razziste, un’organizzazione sionista di sinistra, Hachomer Hatzair, ha ritenuto di dover denunciare l’inquietante novità. I primi firmatari di questa denuncia sono Bernard Kouchner, Alain Finkielkraut, Pierre-André Taguieff, Jacques Julliard, l’editorialista del Nouvel Observateur, Élie Chouraqui, il cineasta, Chardortt Djavann, la femminista franco-iraniana, autrice del pamphlet "Giù i veli", e Ghaleb Bencheikh, teologo mussulmano, nonché convinto difensore dell’ordinamento laico francese. I promotori dell’appello-denuncia sono coscienti dei rischi di strumentalizzazioni da parte dell’estrema destra, ma credono che il rischio debba essere corso, anche perché negare il fenomeno è il modo migliore per alimentare il Front national
di Jean-Marie Le Pen. Spiega Alain Finkielkraut che il fenomeno coincide con quello del nuovo antisemitismo. Oggi, dice, un certo numero di immigrati si ricostituiscono un’identità nell’odio verso gli ebrei e verso la Francia, un movimento di odio che abbraccia ebrei e francesi. Fa la sua comparsa un nuovo bersaglio: il francese con la faccia da francese. Qui si tratta di integrare in una Francia che non ama se stessa gente che non ama la Francia, un paese che non è soltanto colonialismo, schiavismo e Vichy. Siamo in presenza, avverte Finkielkraut, di una riedizione della "Nation of Islam", il movimento razzista nero di Louis Farrakhan. Conferma da parte sua Pierre-André Taguieff che giudeofobia e francofobia vanno ormai a braccetto. "Nessuno disconosce la componente odio di classe di quelle violenze, ci mancherebbe altro, ma qui ci troviamo di fronte a una razzializzazione del conflitto sociale, in chiave antibianchi". In prima fila tra quelli che hanno preso male quest’appello, quel Mrap (Movimento contro il razzismo e per l’amicizia tra i popoli) e quella Ligue des droits de l’homme che sono diventati in questi ultimi anni, in Francia, i guardiani del politicamente corretto. La loro bestia nera è Alain Finkielkraut, che si è infatti beccato una bella denuncia per istigazione all’odio razziale, anche per via della sua reazione alla tournée trionfante del su citato comico antisemita Dieudonné in Martinica. Aveva ironizzato, Finkielkraut, lo scorso 6 marzo, dai microfoni di Radio Communauté Juive, sulla folla sovreccitata che era andata a osannare Dieudonné: "Vittime antillesi dello schiavismo, vittime che vivono oggi dell’assistenzialismo della madrepatria. Più che legittimo, chiaro, ma che i beneficiari di questa politica di aiuti statali si mettano a fare il processo delirante a una Francia sempre schiavista e sempre coloniale, questo no!". A scatenarsi è stata soprattutto l’intellighenzia creola, a cominciare da un suo prestigioso esponente, lo scrittore Raphaël Confiant, il quale parla di "crociata contro i neri" e di "manifesto della melanofobia". Il suo argomento principe è questo: che cosa sono cinquant’anni, questi ultimi cinquant’anni di giusto indennizzo dello schiavismo, di fronte a tre secoli di sfruttamento e di oppressione? E poi, rivolto direttamente a Finkielkraut l’ebreo: "Quello che proprio non riesco a capire è perché mai dopo aver subito di tutto da parte dell’occidente, voi continuate a considerarvi occidentali? Perché un ministro degli Esteri di Israele si è permesso di dichiarare di recente: ‘Noi occidentali non ci intenderemo mai con gli arabi, perché sono dei barbari’? Tutta la stampa benpensante d’Europa è sobbalzata alla parola ‘barbari’. A me, invece, quello
che mi ha scioccato è la parola ‘occidentali’. Ma come si fa, monsieur Finkielkraut, come si fa a definirsi occidentali dopo aver subìto l’Inquisizione, i pogrom, le camere a gas e i rastrellamenti di Vichy?". Una domanda che sembra fatta apposta per confermare la fondatezza della tesi sul
moderno antisemitismo progressista cara a Finkielkraut: io non vi rimprovero di essere ebrei, dice in sostanza Constant. Io vi accuso di aver rinnegato voi stessi, la vostra condizione di vittime. Più che da antillese doc, Raphaël Constant ragiona da perfetto Homo europaeus. A riprova che sentirsi in armonia
con la nuova Europa senza radici, senza storia, senza geografia e senza identità è più semplice per un creolo terzomondista che per un occidentale senza complessi. Ebreo, cristiano o agnostico che sia.
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