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Il Foglio Rassegna Stampa
04.05.2005 Un "razzista" che difendeva la libertà dei musulmani.Che cosa ha veramente detto Pim Fortuyn?
brani del libro "Contro l'islamizzazione della nostra cultura" del politico olandese assassinato

Testata: Il Foglio
Data: 04 maggio 2005
Pagina: 1
Autore: Pim Fortuyn - un giornalista
Titolo: «Se questo è un orco - Gli davano perfino di rottweiler. Sulla tomba fece scrivere:"Difendiamo la libertà di parola"»
IL FOGLIO di mercoledì 4 maggio 2005 pubblica in prima pagina e a pagina 3 dell'inserto ampi brani di un libro di Pim Fortuyn, "l'uomo nero di fondamentalisti e multiculturalisti".

Ecco l'articolo:

Anticipiamo brani tratti da due capitoli del libro scritto dal leader olandese Pim Fortuyn nel 1997 e ora tradotto e pubblicato in Italia dall’Associazione Cattaneo di Pordenone. Il volume, intitolato "Contro l’islamizzazione della nostra cultura", sarà presentato venerdì 6 maggio. Fortuyn è stato ucciso il 6 maggio del 2002.

Dal capitolo 1 – Il fondamentalismo
"Chi di voi è senza peccato
scagli la prima pietra"
Conosciamo male la storia patria, e di conseguenza non sappiamo niente della nostra identità culturale e non siamo consapevoli delle numerose conquiste fatte, una delle quali è il nostro sistema di diritto costituzionale, altrimenti detto democrazia. Nella nostra cosiddetta società multiculturale, la cultura islamica (fondamentalista) e la tradizione culturale olandese entrano quotidianamente in contatto tra di loro. In questo processo, a causa del nostro disinteresse per la nostra identità e per l’essenza della nostra società, la nostra cultura originaria rischia di soccombere. E questo noi dobbiamo fare il possibile per evitarlo. E’ dunque giunto il momento di avviare un dibattito politico e sociale sui valori e sulle norme che devono essere alla base della società multiculturale

Di vitale importanza sarà capire bene le differenze tra l’islam (fondamentalista) e la cultura umanistica di tradizione giudaico-cristiana. Come spiegherò più avanti, il conflitto si concentra sostanzialmente in tre ambiti: la separazione tra Stato e Chiesa, il rapporto tra i sessi e quello tra adulti e bambini (…). A lungo andare, un popolo senza un’identità consapevolmente condivisa si riduce a un insieme di persone che vive all’interno di uno stesso contesto statuale, sempre più privo di coesione e in cui nessuno è più custode dell’altro. In poche parole, a lungo andare un popolo così non forma più una società, ma un contesto non più coeso di individui e, nella migliore delle ipotesi, piccole comunità fluide. Un popolo così, un popolo privo di forza, di ideali comuni, un popolo privo di un sistema di norme e valori consapevolmente condivisi, è destinato a fare una brutta fine.

Prima di parlare del nascente fondamentalismo, voglio spiegare che cosa intendo con questo termine. Il fondamentalismo è un atteggiamento politico basato su una visione della società o su una concezione religiosa in cui tale concezione religiosa o visione della società viene intesa in forma assoluta ed è fattore determinante dell’atteggiamento politico. Ciò significa che le norme e i valori che discendono da quella visione della società o concezione religiosa informano categoricamente i comportamenti da tenere nella sfera pubblica, anche per chi non condivide quella visione della società o concezione religiosa. Il fondamentalismo è quindi assolutistico e mira a bandire e a impedire ogni altro principio ispiratore di norme e valori nella sfera pubblica. Una caratteristica del fondamentalismo è di non contemplare la separazione tra Stato e Chiesa. Nelle nostre società, questa separazione è il frutto di un processo secolare, che è costato fiumi di sangue e ha portato alla concezione di una sfera pubblica determinata e regolata dall’intervento di apparati statali. L’apparato statale della democrazia parlamentare garantisce che idee e principi provenienti dalla sfera privata della religione o dell’ideologia giungano filtrati alla sfera pubblica, ossia mediati dalla rappresentanza popolare. In una democrazia parlamentare adulta, inoltre, c’è rispetto per le idee delle minoranze, rispetto che si esprime dando loro lo spazio di agire, come la maggioranza, nella piena libertà della sfera pubblica (…). In una società di stampo fondamentalista, la visione della società o la concezione religiosa è totalitaria, cioè si estende a tutti gli ambiti della vita, che siano pubblici o privati, e non è possibile appellarsi contro di essa ricorrendo a un giudice indipendente da quella visione della società o concezione religiosa.

L’atteggiamento dell’Occidente nei confronti dei paesi in cui l’islam esercita una grande influenza è estremamente ambivalente. In molti casi continua a sostenere regimi alquanto oscuri – paesi come la Siria, l’Algeria e l’Iraq degli anni prima della guerra del Golfo ne sono gli esempi più imbarazzanti – perché teme ancora di più il fondamentalismo. Eppure la Turchia è la dimostrazione di come la scelta del male minore sia quanto mai dubbia. Se c’è una nazione in cui l’occidente ha compiuto tentativi in ogni ambito per preservarla dal fondamentalismo islamico, quella è senz’altro la Turchia. Lì sono stati anche compiuti enormi investimenti, nel senso letterale della parola: il risultato, in questo momento, è un governo guidato da un premier dichiaratamente fondamentalista. E’ vero che, finora, si è espresso a favore di una Turchia laica, ma prima di diventare capo dell’esecutivo professava idee completamente diverse. Non appena ne avrà la possibilità, le metterà in pratica. Non ci resta che sperare che non ne abbia l’occasione (…). L’Occidente opta per una strategia che è solo palliativa: tenta in ogni modo di integrare i paesi islamici nell’economia di mercato capitalista e di mantenere con loro i migliori rapporti possibili a livello politico e culturale. Una strategia giusta, se non fosse scandalosamente parziale e unilaterale. E’ parziale e unilaterale perché l’occidente non definisce la propria cultura, il nucleo del proprio sistema di norme e di valori. Una definizione che al tempo stesso stabilisca i limiti di ciò che è ammissibile e fino a che punto ci si può spingere nella politica dei palliativi. Un errore che i paesi democratici occidentali hanno già commesso a Monaco nel 1938. Negli anni 80 l’allora presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, non lo commise invece questo errore e, senza tanti giri di parole, definì l’Unione Sovietica l’"Impero del Male".

L’Occidente deve definire se stesso, mostrare la sua forza, anche sul piano mentale e culturale, e deve far vedere, e soprattutto anche sentire, che esistono dei limiti a ciò che per noi è ancora accettabile. Contemporaneamente, si possono mantenere solidi rapporti con i paesi musulmani. Una simile politica limita l’influenza dell’islam, rinsalda le forze che, all’interno dei paesi musulmani, aspirano alla separazione tra Stato e Chiesa e funge da argine contro l’avventurismo politico negli stessi paesi occidentali e contro l’azione dei fondamentalisti nel mondo islamico (…). A partire dagli anni 60, in tutti i paesi dell’Unione europea si sono stabiliti numerosi gruppi di stranieri, in larga parte seguaci dell’islam. Problemi di chiara natura sono emersi, in particolare, in Germania e Francia.

L’islam rappresenta più un ostacolo che uno stimolo all’integrazione. In Olanda la situazione è decisamente più tranquilla. Aperti conflitti sul versante religioso finora non si sono verificati. Ciononostante, in molti dei quartieri più disagiati è la cultura islamica a dominare la scena. Nulla da
obiettare alla cosa in sé, nella misura in cui non vengono calpestati i valori essenziali della nostra cultura. Ma purtroppo non è così. E’ chiaro come il sole, per chiunque sia disposto a vederlo, che a molte donne musulmane viene impedito di realizzarsi nella sfera pubblica. Il fatto di indossare abiti lunghi e foulard è cosa assai meno innocua di quanto non sembri. Inoltre sappiamo troppo poco di quello che avviene all’interno delle moschee. Nella misura in cui ciò non mina i nostri valori fondamentali e non condiziona la partecipazione alla vita pubblica, agli estranei non deve nemmeno interessare. Ma in caso contrario, si impone una risposta pubblica.

La risposta olandese alla necessità di integrare diverse culture e gruppi etnici di diversa provenienza è la società multiculturale. O almeno dovrebbe esserlo: in realtà manca, nella sostanza, un’idea ben formulata ed espressa pubblicamente di società multiculturale; quella attuale assomiglia più che altro a una formula di scongiuro. Il suo contenuto, nella misura in cui è stato formulato, è anche molto cambiato nel tempo.
Se per molti anni sono valsi il motto "vivi e lascia vivere" e il rispetto, soprattutto da parte degli olandesi autoctoni, per le culture straniere, senza che in cambio si pretendesse il rispetto della nostra cultura da parte degli olandesi di origine straniera, oggi come oggi l’atteggiamento pubblico è un po’ più gagliardo: gli stranieri devono, quanto meno, imparare l’olandese. Peraltro, tale richiesta è più teorica che reale.

A me stesso, come professore universitario, è capitato di conoscere uno studente, ormai prossimo alla laurea, che dopo aver completato brillantemente l’intero ciclo degli studi non era in grado di esprimersi neanche a un livello di olandese elementare e, peraltro, nemmeno in inglese. A quanto pare, il sistema di verifiche della scuola non aveva funzionato e il suddetto studente è riuscito poi, tramite un collega, a ottenere l’attestato di laurea. Una persona può quindi laurearsi senza conoscere i rudimenti della lingua olandese o dell’inglese. Un caso isolato, mi auguro, ma non per questo meno significativo. Un esempio di relativismo culturale portato all’assurdo.

Porre l’interesse della lingua, della cultura e dell’identità olandesi in relazione con gli olandesi di origine straniera viene subito inquadrato come una potenziale espressione di razzismo. Suscita immancabili reazioni pavloviane. In un simile contesto è perfino proibito portare la bandiera olandese cucita sul bomber come simbolo della nazione.

Un classico esempio del moralismo di cui parlo, e dell’assenza di un’idea di società multiculturale, è la politica giudiziaria attuata in Olanda in materia di manifestazioni razziste. Finora, a essere perseguiti per questo genere di reato sono stati solo olandesi autoctoni di pelle bianca: i loro concittadini di colore oriundi di altri paesi sono stati risparmiati. Eppure, pubbliche dichiarazioni di natura razzista non mancano neanche da parte loro. Certe considerazioni sugli ebrei, in particolare, mi sembrerebbero in molti casi perseguibili per legge. Invece a persone di cultura islamica, per esempio, è consentito esprimerle e proclamarle in manifestazioni pubbliche. La magistratura non segue neanche una sua politica precisa. In molti casi a consegnare i dossier ai giudici sono i comitati anti-razzismo, attenti solo a quanto avviene nell’estrema destra. Le espressioni di razzismo da parte di olandesi di origine straniera non rientrano nel loro campo d’azione. Io stesso sono già stato avvicinato diverse volte per iscritto da questa "polizia del terrore psicologico". Queste persone partono immancabilmente dal presupposto che ovviamente non so di quel che parlo, come dimostrano le cose che scrivo o che dico. Non adducono altri argomenti, non lo ritengono neanche necessario, perché mi considerano troppo stupido e disinformato per capirli. In un caso mi è stato perfino ingiunto di consegnare un testo che avevo pronunciato alla radio, affinché il comitato potesse valutare con più attenzione, così proseguiva minacciosamente la lettera, l’ipotesi di denunciarmi al Consiglio per il giornalismo. Ora, io per fortuna non sono un tipo pauroso, ma certo fa un po’ specie che possa succedere una cosa simile in un paese in cui ci si erge a strenui difensori della libertà di opinione, soprattutto quando tale opinione è ben argomentata. Si tratta, in questo caso, di comitati che spesso operano avvalendosi di finanziamenti pubblici. Ciò significa che contribuisco anch’io a finanziare quella "polizia del terrore psicologico" con cui poi devo fare i conti!

Nel frattempo, la risposta giusta alla società multirazziale e multiculturale non è il relativismo culturale. Il relativismo culturale indebolisce la nostra identità e smantella i valori fondamentali della nostra società. Che si ritrova a non aver nulla da ribattere a persone e culture a cui non interessa niente del relativismo culturale, al quale contrappongono la propria identità e la propria cultura come norma, spesso, assoluta. Il relativismo culturale rende impossibile il confronto con loro e lascia loro mano libera laddove non dovrebbero averla.

Dal capitolo 3 – Uomini, donne e omosessuali
Nella società olandese le donne e gli omosessuali non sono sostanzialmente discriminati rispetto agli uomini. L’islam, o meglio l’interpretazione fondamentalisti dell’islam, ha invece idee molto diverse al riguardo, ed è quindi ovvio che, nella società multiculturale in cui l’Olanda si sta trasformando, queste due diverse concezioni si scontreranno. Ma per tutti dovrà essere chiaro che la parità tra uomo e donna, indipendentemente dal loro orientamento sessuale, è uno dei valori centrali e irrinunciabili della nostra società. Abbiamo dovuto combattere una battaglia durissima per conquistarla.

Curiosamente, questa voglia di sperimentazione sessuale non significò l’uscita dell’omosessualità dal suo isolamento. L’ho potuto constatare di persona negli anni del- l’università. Iniziati gli studi universitari nel 1967, l’anno successivo entrai a far parte del movimento studentesco, dove ben presto assunsi un ruolo di guida. Non fu tanto difficile, perché il movimento era piuttosto anarchico e aveva bisogno di gente capace di pensare, di dirigerlo e indirizzarlo. L’atmosfera era di grande libertà, assenza di regole e, soprattutto, di apertura. Fu così che nel giro di poco tempo diventai uno stimato rappresentante del movimento, nonostante mi ostinassi a portare i capelli corti e prediligessi i vestiti interi, grigi o blu. Gli altri trovavano la cosa interessante, perfino divertente e comunque fosse utile: con il mio aspetto, le mie buone maniere e il mio impegno, ero un ottimo rappresentante del movimento presso i docenti, il rettorato e perfino il ministro. Ne approfittarono tutti senza meschinità, nonostante i comportamenti all’interno del movimento fossero alquanto disinvolti, per non dire maleducati, i capelli lunghi di moda e portassero tutti completi jeans come gli operai portavano le tute. Anche i rapporti di amicizia erano nuovi e spesso elettrizzanti. Il primo spinello, allora "fumare" era ancora severamente proibito – bastava una piccola quantità di hashish per finire in prigione – ce lo facemmo in gruppo e quella cosa creò un’atmosfera di forte emozione e appartenenza. Ho fumato la mia prima canna nell’appartamento di un compagno che come tavolino usava la pietra tombale di suo nonno.

All’interno di quella nuova dinamica di libertà, apertura e soprattutto curiosità per il nuovo non c’era alcun interesse per l’omosessualità. Non che venisse condannata, semplicemente non esisteva: oggi come oggi è piuttosto difficile da immaginare, ma nella maggior parte degli ambienti, perfino
in quello spregiudicato del movimento studentesco, era una cosa che non toccava personalmente
nessuno. Rispetto ai parametri odierni, io l’ho scoperto piuttosto tardi, verso i ventidue anni, di essere omosessuale. Non potevo parlarne con nessuno tra le persone a me più vicine, nemmeno nella cerchia dei compagni di studi. L’unico con cui mi confidai non mi respinse, questo è
vero, ma non seppe neanche dirmi che cosa fare. Il problema maggiore era trovare altri come me e questo mentre studiavo ad Amsterdam.

Ma poco per volta trovai la mia strada e fu l’inizio della svolta della mia vita. Ne venne fuori, comunque, una cosa contorta. Cominciai a vivere in due mondi distinti: quello della subcultura omosessuale, fatto soprattutto di uscite, sessualità, amicizie e in cui, naturalmente, incontrai anche il primo vero amore, e quello dei miei amici del movimento studentesco e dell’università, che poco dopo, quando fui assunto come docente a Nijenrode, divenne anche quello del lavoro.

Nel mio giro faceva perfino fico dire che noi non avevamo bisogno dell’analista perché avevamo troppe cose da fare e stavamo dalla parte giusta: andare dallo psichiatra era più roba da borghesi che si preoccupavano, in modo tipicamente borghese, dei loro problemi personali. Non avrebbero avuto neanche loro problemi personali, se si fossero impegnati nella battaglia politica e sociale. Allora non potevo immaginare che poi mi sarei sottoposto, di mia iniziativa, a un’analisi classica, per cercare di imparare a gestire le mie emozioni e i miei problemi.

Quando nel 1972, all’età di ventiquattro anni, andai a insegnare a Groningen, presi una decisione importante: non volevo più vivere in due mondi separati, così, subito dopo il mio arrivo, concessi un’intervista in cui non solo esposi le mie idee sulla mia materia di insegnamento e sulla società,
ma resi pubblico il mio orientamento sessuale. Oggi, per fortuna, ciò non rappresenta più niente di eccezionale e, il più delle volte, suscita commenti del tipo "Oh, be’ okay…", ma allora era un gesto coraggioso, per cui ero agitatissimo e la notte prima non dormii.

Vale perciò assolutamente la pena difendere questa conquista su tutta la linea e con tutti i mezzi a nostra disposizione. In Price of Honor (Il prezzo dell’onore), che avrebbe potuto benissimo intitolarsi Price of Horror, la giornalista Jan Goodwin descrive e analizza la condizione della donna
in paesi islamici come gli Emirati arabi, l’Afghanistan, il Pakistan, l’Iran, il Kuwait, l’Arabia saudita, l’Iraq, la Giordania e l’Egitto, i Territori occupati israeliani e alcune altre nazioni. Il libro sembra un racconto dell’orrore. In alcuni paesi la situazione è peggiore rispetto ad altri, ma in tutti la donna è completamente subalterna all’uomo e questo non solo nella sfera pubblica, ma anche in quella privata. Si tratta inoltre di una posizione codificata in leggi e normative, e generalmente basata su un’interpretazione quanto meno soggettiva del Corano. A tale proposito va detto che il profeta Maometto era un progressista, per lo meno in relazione alla sua epoca. Doveva in parte la sua posizione alle donne, quindi rendeva loro onore e riconosceva loro un ruolo per molti aspetti paritario rispetto all’uomo, anche nella sfera pubblica.

L’interpretazione del Corano, e i dettami che ne sono stati distillati, generalmente di natura coercitiva, ha invece conosciuto una propria storia, non di rado all’insegna del fondamentalismo. In Pakistan, per esempio, si interpretano quei dettami in modo tale per cui se una donna è vittima di uno stupro finisce dietro le sbarre, non di rado dopo essere stata nuovamente violentata dagli agenti di turno alla centrale di polizia. Quand’anche sia destinata ad avere un processo, nella maggior parte dei casi sarà lei a essere condannata e non il suo aggressore. E’ stata lei infatti ad aver infangato il proprio onore. Dopo aver scontato la pena prevista per questo "delitto", la sua vita è rovinata in tutti i sensi: il più delle volte non può far ritorno a casa, perché ha leso l’onore della famiglia paterna e, se era sposata, anche quello del marito.

Nella peggiore delle ipotesi possiamo affermare che l’attuale condizione della donna in molti paesi islamici è il frutto di una interpretazione del Corano accanto ad altre possibili. Nella migliore delle ipotesi possiamo concludere che il Corano non offre alcun appiglio per giustificare la subalternità
della donna e il modo in cui viene trattata.

Uno studio come quello della Goodwin dovrebbe quanto meno stimolare un’indagine sulla condizione e sulla vita delle donne musulmane in Olanda. Benché ne sappiamo poco, quel poco che sappiamo non è rassicurante. Se il modo in cui molte di loro si vestono è, in linea di principio, un loro fatto personale – e non ha nulla da invidiare a quello di certi olandesi autoctoni - , è però molto importante capire che cosa si nasconde dietro la scelta, scelta obbligata, di portare il velo e abiti lunghi fino ai piedi. Nel quartiere di Feyenoord a Rotterdam, dove vivo, si vedono queste donne passare per la strada come lampi. Evitano ogni contatto, soprattutto con gli uomini, perfino il contatto visivo. Questo crea un’atmosfera sgradevole: per quanto ciascuno sia e debba essere libero di scegliere se guardare o no in faccia gli altri passanti, il fatto di evitare sistematicamente il contatto visivo crea un clima oltremodo alienante. Queste donne restano quindi confinate nel loro isolamento sociale, in ogni caso rispetto agli uomini in generale e ai maschi olandesi autoctoni in particolare. Ciò rappresenta un grosso ostacolo all’integrazione culturale, mentale e sociale. Queste donne non perverranno mai all’integrazione economica.

Noi lo vediamo, ma non facciamo niente, non mettiamo neanche in discussione questo scandalo, lo facciamo sparire sotto una bella spalmata di relativismo culturale: le donne musulmane sceglierebbero in modo totalmente autonomo, e soprattutto volontario, questa condizione conforme alla loro cultura. E noi dovremmo perfino rispettarle. Ma perché? Le donne non sono esseri umani, con gli stessi diritti e, se solo è possibile, le stesse opportunità degli uomini? E non era questo il modo in cui molti uomini conservatori opponevano resistenza alle femministe della seconda ondata, chiamando in causa le mogli che vivevano una condizione subalterna?

La donna musulmana è considerata proprietà del marito e non ha diritto di realizzarsi sessualmente e di fare esperienze: deve sposarsi vergine. E’ la casa il suo regno, lo spazio pubblico è dell’uomo. Ed è l’uomo che detta la legge all’interno della famiglia, in tutti i sensi, sottoponendo la donna a inaudite restrizioni comportamentali che per lui, come ragazzo e come uomo, non valgono. Lui sì, può fare esperienze sessuali, con uomini del suo clan e non, e con donne, purché estranee alla famiglia. Inoltre, in molte nuclei famigliari l’uomo esercita questo potere con le maniere forti, che spesso non risparmiano neanche la donna-moglie. Naturalmente, anche nelle famiglie di olandesi autoctoni succedono le cose più terribili, ma ne parliamo, le studiamo, cerchiamo di intervenire come possiamo e in ogni caso le condanniamo pubblicamente. Per le famiglie musulmane invece questo non vale. Queste famiglie vivono in una nicchia sociale e "pubblica" in cui la loro cultura,
che è diametralmente opposta alla nostra, può ampiamente prosperare, a scapito dell’emancipazione della donna e, naturalmente, con il tempo anche dell’uomo islamico. Se questa nicchia si è creata lo si deve, in parte, alla tacita alleanza tra chi sta zitto e chi si volta dall’altra parte, e a mantenerla
spesso contribuiscono la compassione per chi sta peggio di noi e il senso di colpa. Si tratta infatti di persone che sono state nostri gasterbeiter e, come tali, facevano i lavori sporchi davanti a cui tutti noi arricciavamo il naso, e che ancor oggi, in generale, vivono ai livelli più bassi della società. Oppure a mantenere quella nicchia è quel sentimento fuori luogo che porta alcuni a dire che quella è la loro cultura e ognuno ha diritto di vivere secondo le proprie tradizioni, anche se ciò comporta l’oppressione del 50 per cento dell’umanità musulmana. E noi, a quanto pare, dobbiamo mostrare comprensione, non per le donne oppresse, sia chiaro, ma per l’oppressione.

La condizione degli omosessuali in molti paesi islamici è, se possibile, ancora più miserabile. L’omosessualità semplicemente non esiste e non è contemplata neanche nella concezione che gli uomini hanno del proprio ruolo e della propria sessualità. Il che non significa che non esista realmente. Anzi, è molto diffusa, soprattutto tra i maschi. Funziona come una specie di rito di iniziazione all’età adulta: l’uomo adulto insegna a quello giovane. E’ una forma di sessualità occasionale, legata alla disponibilità assai limitata di donne. La donna infatti è predestinata al matrimonio, cui deve arrivare vergine.

Il ruolo totalitario degli uomini musulmani non solo tiene le donne e gli omosessuali in una condizione del tutto subordinata, inesistente, ma non riconosce alla sessualità femminile alcun titolo e spazio per esprimersi e crescere.

Se nella cultura islamica gli uomini omosessuali hanno vita difficile, le lesbiche possono pure metterci una pietra sopra, loro proprio non esistono. Sessualmente gli uomini possono almeno ottenere quello che desiderano e, finché non dichiarano apertamente la loro inclinazione, possono muoversi con una certa agilità nel mondo delle relazioni omo-sociali, dominante nella cultura islamica. Alle donne, invece, è negato il diritto di vivere la propria sessualità, e a maggior ragione di vivere ed esprimere la propria omosessualità. Moltissimo deve quindi essere ancora fatto per arginare in qualche modo questa situazione ignobile e scandalosa.

In breve, il significato di questa mia perorazione, è che dobbiamo spezzare con forza questa cultura della chiusura e del silenzio. Dobbiamo mettere in discussione la condizione della donna e degli omosessuali (uomini e donne) all’interno della cultura islamica in Olanda.

L’emancipazione è un diritto di ogni abitante nel nostro paese e noi abbiamo il dovere di promuoverla anche quando riguarda uomini e donne musulmani. E’ una conquista culturale cui anche loro hanno diritto, per cui molto abbiamo lottato, molto abbiamo sofferto e che ci ha dato la libertà di realizzarci secondo le nostre possibilità e inclinazioni. Una conquista da diffondere e, se necessario, difendere con la forza.
Pubblichiamo anche il commento del FOGLIO:
Carismatico, gay, telegenico ed ex marxista, Pim Fortuyn è stato il leader politico più controcorrente che l’Olanda abbia conosciuto negli ultimi anni. Amato quanto odiato, ha lasciato alle spalle un’eredità politica che si è ben presto sfilacciata. Sono rimasti i libri e gli articoli, che l’associazione Carlo Cattaneo, di Pordenone, ha deciso di cominciare a pubblicare, a tre anni dalla morte di Fortuyn, grazie ai finanziamenti della Regione Friuli Venezia Giulia guidata dalla giunta di centrosinistra di Riccardo Illy. Il 6 maggio sarà presentata la traduzione in italiano di un testo del 1997 del politico olandese. Titolo: "Contro l’islamizzazione della nostra cultura". Centosessanta pagine, avvolte da una copertina arancione, edite per la collana "Europa, dibattiti e idee a confronto". Nella prefazione al libro, il leghista Edouard Ballaman, questore della Camera, ha scritto che l’assassinio di Fortuyn non è "solamente una perdita per coloro che ne condividevano (e ne condividono)
il pensiero sull’islam fondamentalista e sui pericoli del multiculturalismo, ma anche per chiunque ami (senza se e senza ma) la libertà di pensiero e di espressione". Wilhelmus Simon Petrus Fortuyn, questo era il suo vero nome, è nato nel 1948, a Velsen, in una famiglia conservatrice di profonda fede cattolica. Nel libro descrive in maniera disincantata, talvolta ironica, l’adesione giovanile al movimento studentesco e nel contempo la consapevolezza della sua omosessualità. Professore di sociologia, ha insegnato anche scienze politiche ed economiche. Il grande pubblico impara a conoscerlo grazie ai pungenti editoriali sul quotidiano di destra "Elsevier", con i quali affronta i
problemi dell’immigrazione, del dilagare della droga e dei politici che vivono al di fuori della realtà. In uno dei paesi più tolleranti d’Europa, i suoi modi schietti e talvolta sopra le righe fanno breccia nell’opinione pubblica, ma al tempo stesso scatenano le proteste dei difensori del "politicamente corretto". La sua carriera politica inizia alla fine degli anni 90, con "Olanda vivibile", un piccolo partito. Il cavallo di battaglia di Fortuyn è l’incontrollata immigrazione e ha gioco facile ad attaccare gli islamici, quando un imam di Rotterdam paragona gli omosessuali ai maiali. La fulminea ascesa elettorale è dovuta anche a uno slogan semplice e rude: "L’Olanda è piena", ovvero non c’è più spazio per gli immigrati. La "trincea" diventa la difesa dei propri valori, contro l’islamizzazione della cultura olandese, ma lo stesso discorso potrebbe valere per l’Italia, la Francia e tanti altri paesi. La messa al bando da parte degli avversari politici si trasforma in volano e la Lista Fortuyn, con la quale si presenta alle elezioni locali di Rotterdam nel marzo 2002, gli fa conquistare 17 seggi su 45 (34 per cento dei voti) in un ex roccaforte della sinistra. Per i partiti tradizionali è uno choc e Fortuyn comincia a dire in giro che prima o dopo diventerà primo ministro. Si scatena contro l’emergente leader il tentativo di "ghettizzarlo, metterlo alla gogna, indicarlo come una sentina di ogni male, arrivando anche a evocare gli spettri del nazismo", ricorda la prefazione italiana del libro di Fortuyn. Il settimanale inglese Economist conia il famoso appellativo di "rottweiler di Rotterdam", accusandolo
di xenofobia e razzismo. Lo paragonano al francese Jean Marie Le Pen, all’austriaco Jörg Haider o ai leader dell’estrema destra belga del Vlaams Blok. Lui prende le distanze da tutti, soprattutto da Le Pen, e preferisce richiamarsi a valori liberali, prendendo come esempio Berlusconi, la lady di ferro Thatcher e il leader bavarese Edmund Stoiber. Chi a Lille e Rotterdam lo
ha votato, ripete all’unisono: "Dice cose delle quali gli altri politici non osano parlare" e "capisce i sentimenti della gente comune". Intellettuale
nell’animo, Fortuyn ama i vestiti eleganti degli stilisti italiani e buca il video con i suoi occhi azzurri, la testa rasata e il fisico da capopopolo. Non nasconde un profondo amore per l’Italia e la sua cultura, che si rispecchia anche nell’elegante casa di Rotterdam, stile villa romana. All’Università di Groningen conosce Bruno Ambrosio, che si guadagnava da vivere come piastrellista. Ambrosio oggi è il presidente dell’Associazione Pim Fortuyn e spiega come il politico olandese si innamorò del nostro paese a tal punto da comprarsi una casa per le vacanze a Provesano, in provincia di Pordenone. "A Provesano Pim girava in pantaloncini corti e maglietta dello Sparta, la squadra di calcio di cui era tifoso (…) parlava con i contadini in un italiano un po’ stentato, rideva con tutti e a marzo, con un freddo cane, si metteva in costume a prendere il sole", ricorda Ambrosio. Il 6 maggio 2002, un radicale ambientalista, scarica il revolver contro Fortuyn, uccidendolo. Pim aveva sempre detto: "Quando morirò, dopo i novant’anni, dovete seppellirmi in Italia". Così è stato: ora è nel cimitero di Provesano. Demonizzato in vita, potrebbe essere compreso almeno da morto. Per iniziare a farlo, basterebbe
leggere l’epitaffio inciso sulla sua tomba. E’ sempre stato il suo vessillo: "Loquendo libertam custodiamos", difendiamo la libertà di parola.
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