Concerti e teatro: spettacoli di propaganda anti-istraeliana ottimamente recensiti, è ovvio, dal quotidiano comunista
Testata: Il Manifesto Data: 27 aprile 2005 Pagina: 14 Autore: Militant A - Nicola Scevola Titolo: «Brucia il microfono dei Dam, le voci della terza intifada - Non abbattete quelle case.»
IL MANIFESTO di mercoledì 27 aprile 2005 pubblica a pagina 14 un'intervista , firmata "Militant A" ai membri del gruppo rap palestinese Dam.
Nell'introduzione leggiamo: "Pensavo a quanti loro coetanei, magari vicini di casa, non hanno trovato altra forma per esprimersi che quella di indossare una cintura esplosiva e farsi saltare in mezzo ad altri giovani israeliani. Pensavo chissà se arriverà mai una terza intifada, ma questa volta con i corpi che bruciano e si uniscono al tempo della musica invece che a quello del tritolo I tempi cambiano e cambiano anche le forme della comunicazione politica".
Il fatto che questo brano allucinante esprima la speranza che la "terza intifada" non comporti più attentati suicidi rende solo più spaventoso il linguaggio adoperato: le stragi come "forma per esprimersi" o come "forma della comunicazione politica". Se vogliamo credere alla sincerità dell'autore (o dell'autrice) dell'articolo quando auspica la fine del terrorismo dobbiamo rilevare come la cultura politica a cui appartiene abbia costretto anche chi vuole mantenere un minimo di umanità nelle maglie di un linguaggio, e di un pensiero, completamente disumani, che stravolgono la realtà e anestetizzano le coscienze. Rendendo tollerabile, anche se non "auspicabile", l'intollerabile.
Assente, ovviamente, ogni informazione su come l'industria del terrorismo produce i "martiri" assassini: quindi niente indottrinamento fin dall'infanzia, disumanizzazione del "nemico" israeliano, glorificazione dei terroristi morti, prestigio sociale delle loro famiglie.
Il terrorismo suicida, per Militant A, non solo non è un fenomeno criminale: non è nemmeno un fenomeno sociale conoscibile. E' piuttosto, l'erompere spontaneo dell'"espressione" di se stessi da parte dei palestinesi. Un fenomeno estetico assimilabile alla musica rap, al "bruciare e unirsi dei corpi al ritmo della musica". Nel caso degli attentati suicidi i corpi "bruciano" e "si uniscono" (!?) al "ritmo del tritolo". Sarebbe meglio quello della musica, sostiene Militant A, ma nel suo paragone è evidente la fascinazione per il "gesto" dell'attentatore suicida. Una fascinazione non più capace di distinguere il bene dal male.
Nell'intervista i rapper palestinesi lamentano discriminazioni e censure ai danni dei palestinesi in Israele. La loro stessa carriera, in realtà, è una prova dell'eguaglianza di opportunità e della libertà di espressione che Israele assicura ai suoi cittadini arabi.
Del resto i tre rapper indicano come primo impatto con la discriminazione che avrebbero subito in Israele i programmi scolastici che sostengono la "propaganda sionista". In realtà, come numerosi studi hanno dimostrato, i programmi scolastici israeliani tengono conto del punto di vista e delle ragioni dei palestinesi (al contrario dei programmi dell'Anp, che negano a Israele il diritto ad esistere). Per i tre rapper, però, che sono, loro si, veri propagandisti, la semplice affermazione del diritto all'esistenza di Israele significa imporre ai palestinesi una "condizione di vero apartheid".
Ecco il testo dell'articolo: Tre ragazzi palestinesi al microfono a fare rap. E a farlo bene. L'altra sera li ho visti in azione. Con il loro colore verde oliva della pelle, la sciarpa palestinese al collo, ondeggiavano al ritmo di cassa e rullante eincitavano un migliaio di studenti e studentesse romane nella facoltà di lettere alla Sapienza: «Fanculo...», gridavano, «Occupazione!», rispondeva il pubblico. Ci sanno fare, pensavo, e non potevo fare a meno di commuovermi. Pensavo a quanti loro coetanei, magari vicini di casa, non hanno trovato altra forma per esprimersi che quella di indossare una cintura esplosiva e farsi saltare in mezzo ad altri giovani israeliani. Pensavo chissà se arriverà mai una terza intifada, ma questa volta con i corpi che bruciano e si uniscono al tempo della musica invece che a quello del tritolo. I tempi cambiano e cambiano anche le forme della comunicazione politica. La scorsa settimana abbiamo avuto la gradita visita di una piccola truppa di nuovi combattenti, i Dam, un gruppo di rap palestinese con passaporto israeliano. Abitano a Lod, cittadina israeliana a 20 km da Tel Aviv, dove convivono ebrei e arabi musulmani e cristiani. La loro casa discografica si chiama 48 records e si riferisce chiaramente al 1948, l'anno della «catastrofe» per i palestinesi, quando furono cacciati in massa dalle loro terre. Il nome Dam, invece, vuol dire «eternità» in arabo, ma anche «sangue» in ebraico, e in inglese è l'acronimo di «Gli Arabi Controllori del Microfono». Sono effettivamente in una posizione di vantaggio rispetto ai loro fratelli che vivono nei campi profughi: possono viaggiare, incontrare altre persone nel mondo, cosa che dovrebbero poter fare tutti. Ma non dimenticano le loro origini.
Ci ritroviamo in un aula dell'università di Roma per un incontro pubblico organizzato dal collettivo «Studenti contro la guerra» che ha organizzato il viaggio. C'è il Danno del «Colle der Fomento», ci sono io, ci sono i Dam. È una lezione particolare: «Il rap come linguaggio di resistenza». I tempi cambiano ma i luoghi tornano, e così torno a parlare di rap sulla stessa scalinata che aveva visto l'ascesa dell'Onda Rossa Posse durante i tempi dell'università occupata dalla «Pantera». Esattamente 15 anni fa. L'aula è piena il pomeriggio e soprattutto sarà strapiena la sera per il concerto. A seguire questa insolita lezione si mescolano studenti e studentesse curiose, amanti dell'hip-hop e sostenitori della causa palestinese. Quando attaccano i fratelli Tamer e Suhell Nafer, di 26 e 21 anni, e Mahmoud Jrere di 22 anni, li incalziamo con le domande.
Come avete iniziato a rappare, riprendendo una cultura che nasce dall'altra parte del mondo?
Abbiamo iniziato nel 1998. Il 90% della musica araba parla d'amore ma la realtà che viviamo non è fatta di buoni sentimenti, così ascoltavamo 2 Pac e sentivamo le sue stesse emozioni. Abbiamo cominciato anche noi a esprimere i nostri sentimenti su quel tipo di ritmo. Le nostre influenze sono miste, usiamo basi del rap americano ma anche strumenti musicali tradizionali. Quanto ai testi, noi combattiamo molte battaglie. La nostra è una città dove circola droga in quantità con tutti i problemi relativi, ma questo non è niente in confronto alla coscienza che abbiamo di essere differenti dagli israeliani. È una condizione di vero apartheid. Quando sei ragazzo hai il primo impatto a scuola, lì realizzi che sei differente, quando nei programmi scolastici si sostiene la propaganda sionista. Poi capisci anche tutto il resto, cosa significa divieto di costruire, impossibilità di avere licenze edilizie, distruzione di case, esproprio della terra.
Dove fate i concerti e qual è l'aria che si respira alle vostre esibizioni?
Ovunque possiamo suonare noi suoniamo. Sia in Israele che nei Territori occupati, anche se spesso è difficile passare ai checkpoint e veniamo rimandati indietro. Ci esibiamo nelle scuole, nei locali, nelle università, alle manifestazioni, ai campi estivi. A volte affittiamo un camion per creare sound system che girano per le strade. La maggior parte dei nostri concerti sono gratis, ma in Israele facciamo pagare 6-7 euro: spesso sono benefit per mettere su un centro di computer a Gaza, o per i prigionieri politici.
Avete rapporti con rapper israeliani?
Noi cantiamo in arabo, in inglese e anche in ebraico, in questo modo facciamo arrivare il messaggio anche agli israeliani e creiamo un ponte con loro. Ci sono rapper israeliani con i quali abbiamo collaborato scrivendo delle canzoni insieme. Con altri invece che non sono in grado di capire il nostro grido di protesta ci siamo scontrati anche fisicamente. Ma non esistono gare di freestyle e non ci siamo mai potuti combattere con insulti in rima.
Con la vostra attitudine di rap politico riuscite a stare nel mercato discografico?
È molto difficile riuscire a produrre dischi nella nostra situazione. Ci abbiamo messo 4 anni a produrre il nostro primo disco, che uscirà a giugno. Abbiamo fatto tutto da noi e non abbiamo ancora chi ce lo distribuisce. Ma non rinunciamo a quello che vogliamo dire. Se il palco è importante, la scrittura è la cosa principale. Per noi ogni parola deve essere chiara, il messaggio deve arrivare perché sentiamo la responsabilità della lotta di un popolo. Vogliamo rilanciare la cultura palestinese. Quando pensi alla musica araba, pensi a quella libanese o siriana o ad altro, ma non a quella palestinese. Nella mappa della musica e dell'arte noi vogliamo costruire un'identità palestinese.
Le radio israeliane passano i vostri pezzi?
Le radio di destra ogni tanto, quelle di sinistra preferiscono solo pezzi d'amore. In radio siamo esclusi, a parte qualche amico dj. Siamo conosciuti perché cantiamo alle manifestazioni e per questo motivo ci mandano spesso in tv.
Come è stata recepita la vostra musica dai combattenti palestinesi?
Ci siamo fatti conoscere nel nostro mondo e tutti i palestinesi ci hanno incoraggiato ad andare avanti per questa strada. AncheArafat ha ascoltato una nostra canzone e ci ha fatto i complimenti. Ci seguono molti bambini, e per noi questa è la soddisfazione più grande.
Subite repressione in quanto band musicale?
Un giornale è arrivato a scrivere che il Mossad dovrebbe interessarsi a noi e controllare quello che facciamo. Ma non possono fare niente contro la nostra musica. Noi non cantiamo l'odio e non istighiamo alla violenza, noi parliamo di diritti. Chiediamo la libertà e per questo non possiamo essere messi a tacere. Il quotidiano comunista pubblica anche una recensione di Nicola Scevola, dedicata a uno spettacolo teatrale incentrato sulla figura di Rachel Corrie, la giovane attivista dell'International Solidarity Movement morta in un incidente durante il tentativo di impedire a un buldozer israeliano di abbattere non già una casa, ma un boschetto usato per nascondere un tunnel per il traffico d'armi ( armi destinate a uccidere civili israeliani, non dimentichiamolo).
L'International Solidarity Movement è un'organizzazione molto particolare: Lee Kaplan ha descritto su Frontpage Magazine (http://www.frontpagemag.com/articles/readarticle.asp?ID=14063) il training ideologico cui vengono sottoposti i suoi attivisti: il rifiuto dell'esistenza di Israele ne costituisce il letmotiv costantemente ripetuto. Il 27 marzo 2003 Susan Barcley, un' attivista dell'ISM venne arrestata dagli israeliani per aver protetto nel suo ufficio un capo terrorista della Jihad islamica, Shadi Sukia. Del resto i fondatori del movimento hanno espresso pubblicamente il loro sostegno alla violenza, e il loro rifiuto delle tesi di chi chiede ai palestinesi di condurre una lotta non-violenta (vedi http://www.frontpagemag.com/articles/ReadArticle.asp?ID=9564).
I militanti dell'ISM feriti in azioni rischiose e irresponsabili è elevata, e senza riscontri negli altri gruppi filo-palestinesi che operano o hanno operato nei Territori. In alcuni casi, come quello di Tom Hurndall, le autorità israeliane hanno sostenuto che gli attivisti erano in realtà impegnati in azioni armate.
Risulta dunque che l'ISM non è affatto un'organizzazione non-violenta e pacifista e che la morte di Rachel Corrie è da ascriversi alla politica cinica di un gruppo di sostegno al terrorismo, che sfrutta anche la buona fede dei suoi membri per ottenere il massimo effetto propagandistico anti-israeliano.
Non chiarirlo, significa non solo non "fornire un quadro comprensivo della situazione" cosa che forse il teatro non ha il dovere di fare (il giornalismo però si), ma anche "mettere in scena" (o sulla pagina di un quotidiano) qualcosa di profondamente disonesto.
Ecco l'articolo: La storia di Rachel Corrie, la giovane attivista americana uccisa da un buldozer israeliano mentre cercava di impedire che questo radesse al suolo una casa palestinese, ha fatto molto scalpore in Inghilterra. Nessuna meraviglia, quindi, che dalla tragedia avvenuta due anni fa sia nato un monologo teatrale - con la regia dell'attore inglese Alan Rickman (il professor Piton dell'Harry Potter cinematografico). E neanche che questo abbia fatto il tutto esaurito nel teatro londinese in cui è rappresentato in questi giorni. Quello che stupisce è, semmai, il contenuto del monologo stesso. Ricavato interamente dai diari tenuti da Rachel fin da quando aveva undici anni, rivela una scrittrice precoce, capace di una sensibilità fuori dal comune. Il testo, recitato con passione dall'attrice americana Megane Dodds, riprende fedelmente gli scritti di Rachel, riordinati in modo non cronologico per tratteggiare un affresco del personaggio. La scena è scarna. Un letto, un computer, un olivo e un muro sbrecciato. Poche cose, radunate su un palco per rappresentare i luoghi cardine: la camera di una cittadina americana dove Rachel fantastica su piani futuri, le macerie di una casa dove si confronta con la realtà palestinese e l'internet café dove si rifugia per dare sfogo ai suoi pensieri. La sala del Royal Court Theatre è raccolta, meno di duecento spettatori assiepati sulle gradinate ripide. Rachel sembra parlare direttamente ad ognuno. Quel che ne esce è una testimonianza toccante dell'esperienza di questa giovane donna, dal momento in cui decide di andare in Palestina, fino a poche ore prima della tragica fine.
Novanta minuti scanditi da domande scomode e descrizioni pungenti, per dipingere il ritratto di un personaggio che mescola la passione dell'attivista alla sensibilità dell'artista. Una che, mentre i suoi amici a casa pensano a far carriera e a «camminare veloce», vorrebbe invece fermarsi per dividere l'eternità con Gertrude Stein e Charlie Chaplin, e per avere il tempo di riempire i suoi taccuini con infinite liste di dettagli reali. E che, soprattutto, non può farsi una ragione della sofferenza di un popolo oppresso. Il mio nome è Rachel Corrie è uno spettacolo dall'alchimia riuscita, in cui la storia personale di una giovane donna che si confronta con i suoi fantasmi, si mescola con un teatro politico maturo. E così, le analisi dei rapporti genitori-figli si succedono alla lista precisa dei minuti spesi da un gruppo di donne palestinesi per passare un posto di blocco e andare a prendere dell'acqua. E i ricordi del primo amore si alternano alle considerazioni su come l'opposizione alle politiche israeliane sia spesso confusa con un sentimento antisemita. Rachel non ha pretese d'imparzialità nei suoi diari. Non nasconde di essersi decisa ad andare a Gaza mossa da un'avversione per quella che definisce un'ingiustizia intollerabile. Collabora con un'associazione chiamata International Solidariety Movement, che si batte pacificamente contro la demolizione delle case palestinesi - una pratica di cui l'esercito israeliano ha abbondantemente abusato nell'ultima intifada.
Inutile quindi ricercare, come hanno forzatamente fatto alcuni critici inglesi, un equilibrio nel racconto di questa esperienza. È solo il punto di vista della ventitreenne Rachel Corrie. Ma il teatro - fortuna sua - non ha il dovere di fornire un quadro comprensivo di una situazione. Ha solo quello di mettere in scena qualcosa di onesto. Come il ritratto di questa donna impegnata e curiosa. Come quello della sua amarezza davanti all'impotenza delle famiglie palestinesi. Come quello della rabbia che l'ha portata a morire sotto i cingoli di una ruspa dell'esercito israeliano. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione del Manifesto. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.