Difendere la sicurezza e l'interesse nazionale di Israele: ecco che cosa vuole Sharon Emanuele Ottolenghi analizza la strategia e il ruolo storico del premier israeliano
Testata: Il Foglio Data: 26 aprile 2005 Pagina: 2 Autore: Emanuele Ottolenghi Titolo: «Così Sharon rifonda Israele»
IL FOGLIO di sabato 23 aprile 2005 pubblica a pagina 2 dell'inserto un articolo di Emanuele Ottolenghi dedicato ad Ariel Sharon, alla sua strategia e alla sua visione del futuro di Israele.
Ecco l'articolo: Nell’incontro della notte scorsa, il ministro della Difesa israeliano, Shaul Mofaz, e l’uomo forte della sicurezza palestinese, Mohammed Dahlan, ministro per gli Affari civili dell’Anp, hanno concordato l’avvio di una fase "coordinata" di preparazione all’inizio del piano di ritiro di Ariel Sharon dagli insediamenti. I palestinesi premono anche per un maggior coinvolgimento americano nel processo in atto. Al recente vertice di Crawford sono emerse alcune divergenze tra il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, e Ariel Sharon, premier israeliano. Tra i dossier discussi, uno ha suscitato disaccordo: gli insediamenti israeliani, appunto. Il disaccordo non è una novità, ma la situazione è ora nuova. C’è in ballo il piano di disimpegno da Gaza. C’è in ballo la possibilità di riavviare la road map, che richiede a Israele di congelare gli insediamenti e smantellare quelli sorti illegalmente dopo il marzo 2001. E c’è l’annuncio del governo israeliano di aver approvato 3.500 nuovi appartamenti da costruire nel corridoio E-1, la zona che separa (e collega) Gerusalemme da Ma’aleh Adumim, un insediamento di circa 20 mila abitanti alle porte della capitale che, secondo le mappe dei vari accordi israelopalestinesi mancati, dovrebbe rimanere sotto sovranità israeliana. Di fronte a questi sviluppi lecito dunque chiedersi: quale il futuro degli insediamenti? Secondo Israele, parte degli insediamenti dovrebbero rimanere sotto la sua sovranità. Le intese firmate a Washington un anno fa tra Sharon e Bush offrirebbero l’appoggio americano a questa interpretazione. Ma pochi, in Europa e in medio oriente, credono che Sharon sia pronto a rinunciare al resto: fu lui il maggior sponsor e architetto della politica degli insediamenti dal 1977 in poi. Gli scettici temono che il ritiro israeliano da Gaza rappresenti non l’inizio di un processo di disimpegno territoriale ma il massimo che Sharon offrirà. Bush ha promesso nel suo discorso tenuto a Bruxelles a febbraio che ci sarà uno Stato palestinese territorialmente contiguo, gli europei considerano la linea verde il confine internazionale, i palestinesi accusano Israele di utilizzare la barriera difensiva come strumento di annessione. Chi sostiene che la barriera difensiva sarà il futuro confine israeliano indica come tutti gli insediamenti a est dovranno essere abbandonati. Chi dubita il cambio di rotta politica di Sharon crede che gli insediamenti rimarranno come isole di sovranità israeliana, rendendo impossibile la visione territoriale di uno Stato palestinese contiguo. Chi ha ragione? Per capirlo occorre chiarire le intenzioni di Sharon. Che piano ha il primo ministro? Quale futuro assetto territoriale è disposto ad accettare? Che ruolo avranno insediamenti e Stato palestinese in questo assetto? A pochi mesi dal disimpegno da Gaza, e con l’arrivo al potere di una nuova leadership palestinese più moderata, dopo la morte di Yasser Arafat, capire il piano di disimpegno di Sharon e la sua visione strategica e politica per il futuro diventa imperativo. Il ritiro da Gaza emerge da una nuova visione strategica che Sharon ha adottato dopo essere andato al potere, nel febbraio 2001. Tre elementi influenzano Sharon: la natura della guerra tra Israele e i palestinesi; i limiti politici e diplomatici, interni e internazionali, che Israele e il suo governo devono prendere in considerazione; il modo in cui guerra e limiti politici e diplomatici interagiscono nel delineare ex novo gli interessi strategici e nazionali di Israele. La strategia di Sharon si fonda su tre principi. Innanzitutto ristabilire la deterrenza strategica israeliana nei confronti dei palestinesi attraverso il ricorso a misure rivoluzionarie e non convenzionali di guerra urbana e antiinsurrezionale per vincere il conflitto scatenato dai palestinesi nell’ottobre 2000; la costruzione della barriera difensiva nella Cisgiordania come strumento difensivo e futuro confine orientale; l’avvio di una serie di iniziative diplomatiche unilaterali che creino nuovi confini per Israele col sostegno dell’Amministrazione americana e il consenso della società israeliana. Per capire questa strategia occorre quindi innanzitutto studiare la natura del conflitto, al quale il piano di disimpegno e la rielaborazione dei confini orientali di Israele sono una risposta. A partire dal collasso del processo di Oslo, Israele si trova a combattere un conflitto a bassa intensità contro attori non statali la cui strategia si basa sul principio della guerra asimmetrica. Un conflitto asimmetrico implica un notevole squilibrio di forze tra le parti in causa, dove di solito il più debole - generalmente un attore privo di statualità – ricorre a mezzi non convenzionali atti a colpire i punti più vulnerabili del nemico, minimizzando il rischio di rappresaglia, sfruttando lo squilibrio di forze a proprio vantaggio, o costringendo l’attore più potente a confrontarsi su un terreno dove il vantaggio tecnologico, militare, strategico o di intelligence è neutralizzato. Attori non statali godono di un ulteriore vantaggio: non sono soggetti agli stessi obblighi giuridici internazionali di uno Stato e quindi possono eludere le loro responsabilità in caso di violazioni anche sistematiche del diritto internazionale. L’asimmetria militare si traduce spesso anche in asimmetria giuridica: lo Stato in guerra deve rispettare il diritto internazionale ed è passabile di sanzione se lo ignora: quindi deve seguire certe regole che il nemico, privo di statualità, può invece violare impunemente. Esiste un’altra importante distinzione in uno scontro asimmetrico: a differenza dai conflitti convenzionali, lo scopo principale della guerra asimmetrica è di dissuadere il nemico dal combattere, piuttosto che sconfiggerlo, ottenendo tangibili risultati politici grazie a una prolungata e sostenuta pressione mediante tattiche non convenzionali. A partire dal 29 settembre 2000, inizio dell’Intifada, i palestinesi hanno adottato la dottrina strategica della guerra asimmetrica contro Israele. La guerra palestinese si contraddistingue per cinque elementi. Primo, ristabilire la tradizionale descrizione del conflitto come scontro tra un Davide palestinese e un Golia israeliano. Alla vigilia dell’Intifada, i palestinesi avevano perso il sostegno dell’opinione pubblica internazionale a causa del rifiuto di Arafat di accettare le proposte israeliane fatte a Camp David nel luglio 2000. Ma una volta che la violenza ritorna giornalmente e in maniera prominente sui teleschermi, il vantaggio negoziale israeliano – basato su controllo territoriale, potenza militare, prosperità economica e superiorità diplomatica – diventa una debolezza. Nello scontro violento, il più forte perde immediatamente il vantaggio e la sua forza diventa simbolo di arroganza e mancanza di magnanimità. Per contro, le principali debolezze palestinesi in campo negoziale – mancanza di territorio e di indipendenza, debolezza militare, povertà, dipendenza economica e isolamento diplomatico – diventano la loro forza principale in campo mediatico e come strumento di influenza sull’opinione pubblica internazionale. Il vittimismo diventa una strategia. Secondo, adottare una strategia di tensione crescente che porti al coinvolgimento arabo e musulmano nel conflitto con conseguente aumento di pressione su Israele attraverso boicottaggi economici e possibili sanzioni. La rottura delle relazioni diplomatiche con Israele da parte di alcuni Stati arabi e le azioni concertate in seno alle organizzazioni internazionali (Lega araba e Organizzazione degli Stati musulmani) hanno dato ai palestinesi un blocco compatto di voti e la mobilitazione internazionale a favore della loro causa. Terzo, evidenziare la posizione pro-israeliana dell’Amministrazione americana, cercando così di screditarne il ruolo mediatore e favorendo l’ingresso attivo nel processo negoziale di attori più schierati a favore dei palestinesi, principalmente l’Onu e l’Unione europea. Quarto, sottolineare la necessità di un’interferenza internazionale sul campo, attraverso l’invio di osservatori e forze di pace, e il possibile varo di sanzioni. Tale passo serve a rafforzare la posizione negoziale palestinese e a facilitare l’ottenimento di termini più vantaggiosi in un eventuale futuro accordo. Quinto, protrarre il conflitto il più a lungo possibile nella speranza che la società israeliana si pieghi alle pressioni di una recessione economica causata dal conflitto, di una situazione di sicurezza insostenibile, di un’atmosfera di crescente isolamento e condanna internazionale. Le statistiche degli attacchi terroristici danno un senso più concreto della natura e del tipo di guerra asimmetrica con cui Israele si è confrontato negli ultimi quattro anni e mezzo: ci sono stati più di 23 mila attacchi dal 29 settembre 2000; tra questi ci sono stati 137 attentati suicidi portati a termine. Quasi 500 attacchi suicidi sono stati sventati dalle forze israeliane. 69 degli attacchi suicidi riusciti sono avvenuti prima dell’operazione militare israeliana "Muro difensivo", lanciata nella primavera 2002. Altri 12 sono avvenuti durante l’operazione. Fino all’aprile 2002 la maggior parte degli attacchi andava a segno e solo una minoranza veniva neutralizzata. Dall’aprile 2002 il numero degli attacchi riusciti è drammaticamente diminuito. Oggi, grazie a una combinazione di intelligence umana e digitale, arresti preventivi, coprifuoco e posti di blocco, incursioni militari, omicidi mirati, sabotaggio della catena di comando, sistemi di rilevamento radar ed elettronici e ostacoli fisici, Israele riesce a sventare più del 90 per cento degli attacchi. Ma ha sostenuto un numero di vittime civili molto più alto di quelle militari a testimonianza della natura asimmetrica e non convenzionale del conflitto: i terroristi mirano a colpire deliberatamente non l’esercito, militarmente più forte, ma i civili indifesi come strumento di pressione psicologica. Il rapporto è di un morto o ferito in uniforme ogni quattro vittime civili. Anche in questo caso però i numeri sono diminuiti dopo l’aprile 2002. Nel 2002 c’è stato un declino del 9 per cento rispetto al 2001; nel 2003 un declino del 53 per cento; e nel 2004 del 18 per cento: 2594 feriti nel 2001, 2348 nel 2002, 1123 nel 2003 e 917 nel 2004. Le morti sono aumentate nel 2002: 453 morti contro i 247 del 2001. Nel 2003 le morti sono scese del 53 per cento: 212 morti in tutto. Nel 2004 le morti sono scese del 44 per cento, con 118 israeliani uccisi in atti terroristici. Il declino di morti e feriti è correlato alla rioccupazione militare della Cisgiordania e alla costruzione della barriera difensiva. Se le tattiche israeliane hanno funzionato in termini di prevenzione, non hanno diminuito la motivazione palestinese a colpire. Hanno però ridotto in maniera sostanziale la capacità operativa del nemico. La strategia militare israeliana mancava quindi di una componente politica che districasse il paese da una logica di guerra d’attrito in cui l’elemento psicologico, le pressioni internazionali e gli effetti economici sulla determinazione dell’opinione pubblica a resistere avrebbero giocato contro Israele a lungo andare. Quali risultati e quali fallimenti hanno prodotto la strategia palestinese e la risposta israeliana? I successi palestinesi sono cinque: primo, i palestinesi hanno vinto la battaglia mediatica principalmente in Europa, spostando a loro vantaggio le opinioni pubbliche di paesi i cui governi si sono sentiti in dovere di appoggiarli, anche in considerazione dell’opinione pubblica interna. Secondo, tale vittoria mediatica ha portato a risultati diplomatici, tra cui il voto compatto dell’Unione europea all’Onu a favore dei palestinesi in importanti risoluzioni di condanna a Israele; terzo, nel dettaglio la vittoria palestinese nel contesto giuridico del parere consultivo della Corte internazionale di giustizia dell’Aia a luglio crea un precedente importante per il futuro dei negoziati e offre un modello per altre battaglie; quarto, Israele è notevolmente isolata sul piano diplomatico; quinto, agli occhi dell’opinione pubblica, il ruolo di mediazione americano è stato parzialmente screditato o perché troppo filoisraeliano o perché disimpegnato dal conflitto. Accanto a questi cinque importanti risultati però i palestinesi hanno pagato un caro prezzo che offre una lunga lista di errori e fallimenti. La manovra di delegittimazione contro gli americani ha portato alla perdita di molto credito politico che i palestinesi si erano guadagnati a Washington prima dell’Intifada: per consenso internazionale non esiste alternativa credibile ed efficace agli americani, cosa che rende la manovra futile e controproducente nel lungo periodo. Dopo l’11 settembre poi la questione palestinese ha perso d’urgenza per l’Amministrazione Bush e ottiene minore attenzione. Il mondo arabo, sotto pressione internamente ed esternamente dopo l’11 settembre, non è andato oltre il solito sostegno retorico alla causa palestinese, offrendo appoggio diplomatico e in minor misura economico, ma mai sbilanciandosi più del dovuto né mai paventando un’escalation militare che permettesse al conflitto di estendersi oltre i confini d’Israele e dei territori. Da un punto di vista interno, la strategia adottata dai palestinesi ha causato un graduale sgretolamento, i cui effetti collaterali più gravi sono stati una crescente anarchia e una perdita di controllo del territorio da parte dell’Autorità palestinese. Le pressioni congiunte dall’interno e dall’esterno hanno lasciato la leadership dell’Anp in una posizione impossibile: incapace di modificare il corso degli eventi e vittima delle stesse forze che inizialmente aveva ritenuto di poter scatenare contro Israele a proprio vantaggio. Inoltre, contrariamente alle aspettative, l’Intifada ha fallito nell’obiettivo di spezzare le reni a Israele. Il paese ha mostrato una maggior volontà di resistere di quanto si aspettassero i palestinesi. Semmai l’Intifada ha ottenuto l’effetto opposto, indebolendo la sinistra pacifista, rendendo le posizioni centriste meno disponibili al compromesso e riducendo la possibilità che Israele riproponga termini di accordo che i palestinesi hanno comunque già rifiutato quattro anni e mezzo fa. Tale impatto indesiderato sull’opinione pubblica ha anche portato al collasso della sinistra israeliana e al potere Sharon, costringendo i palestinesi a dover negoziare con la loro nemesi storica. Le tattiche israeliane hanno efficacemente neutralizzato l’effetto principale del terrorismo palestinese, cioè l’impossibilità di una vita pubblica normale condotta senza paura fino al punto di spezzare la volontà del paese. L’effetto psicologico è stato contrario a quello desiderato: lungi dal condizionare un ammorbidimento delle linee rosse israeliane, i palestinesi hanno ottenuto l’effetto opposto. Questa è la dimostrazione più ovvia del fallimento della strategia del terrore di fronte a un’efficace risposta militare. In tutti i quattro anni e mezzo di Intifada, Israele non ha perso il sostegno diplomatico americano. Semmai, tale sostegno si è rafforzato. In più il governo ha goduto di ampio consenso e appoggio dell’opinione pubblica nelle sue politiche durante l’Intifada, con punte di 102 per cento di adesione al richiamo alle armi dei riservisti durante l’operazione "Muro difensivo" e un’incidenza di obiezione di coscienza selettiva e a sfondo politico assolutamente minimo (poche centinaia i firmatari delle varie petizioni di militari contrari alle azioni militari nei territori). Tale consenso ha permesso al governo Sharon di condurre la guerra in maniera determinata e incisiva e allo stesso tempo cercare di creare spazi politici nuovi fondati sul consenso pubblico in merito al tetto di concessioni che Israele può fare ai palestinesi. Nonostante tali risultati, Israele ha perso la battaglia mediatica, il sostegno della gran parte dell’opinione pubblica e della comunità internazionale e le sue relazioni con l’Europa, il suo piú importante partner commerciale, hanno sofferto. Tutto questo significa tre cose: Israele ha vinto la guerra da un punto di vista strettamente militare, ma non può tradurre il successo militare in un risultato politico positivo; la strategia dei palestinesi è stata neutralizzata, ma la continuazione dello status quo potrebbe giocare a loro favore; la pazienza della comunità internazionale nei confronti di Israele non è illimitata e il vantaggio che Israele gode oggi grazie a un’Amministrazione americana amichevole potrebbe ridursi dopo il 2008, se il successore di Bush fosse meno favorevole alle posizioni attuali del governo israeliano. Il piano politico di Sharon emerge dunque dall’intricata combinazione della natura della guerra, delle tattiche adottate per combatterla, del costo umano, diplomatico ed economico per sostenerla e della congiuntura politica interna e internazionale. Durante il suo premierato, Sharon ha raggiunto una serie di importanti risultati. L’incapacità iniziale di Israele di rispondere efficacemente all’assalto terroristico palestinese ne aveva danneggiato la deterrenza strategica. Tale danno aveva indebolito la posizione negoziale con i palestinesi e in generale la deterrenza strategica israeliana nella regione. Prima di poter riaprire qualsiasi dialogo, era dunque urgente ristabilire il deterrente israeliano, neutralizzando il terrorismo. Ogni risposta efficace avrebbe peraltro causato proteste internazionali al punto da limitarne l’estensione e l’incisività. Per poter vincere, Israele doveva dunque riconoscere la natura asimmetrica del conflitto e capire i limiti del suo potere militare in questo contesto. La discordia politica interna e la mancanza di consenso avrebbero infatti causato non meno danno dell’isolamento diplomatico. Azioni militari non dovevano quindi mettere a rischio né l’alleanza con gli Stati Uniti né il consenso interno espresso tra il 2001 e il 2003 e da qualche mese a questa parte da un governo di unità nazionale. Questo principio di alleanza binaria – America e consenso nazionale – guida Sharon dalla sua elezione quattro anni fa. Da un punto di vista diplomatico, Israele ha una serie di linee rosse oltre il quale non si può spingere senza rischiare la sua sicurezza e la guerra civile. D’altro canto, l’erosione del deterrente le ha rese vulnerabili. Il governo del predecessore di Sharon, il laburista Ehud Barak, ha oltrepassato quei limiti, pagando un caro prezzo ma anche stabilendo un pericoloso precedente per il paese. Sharon doveva quindi limitare il danno fatto da Barak. La risposta israeliana all’Intifada rimane quindi coerente dal febbraio 2001: non ci saranno negoziati fintantoché perdura la violenza, i non accordi di Taba negoziati da Barak nel gennaio 2001 non costituiscono un precedente o un punto di partenza, e non ci sarà un ritorno dei rifugiati palestinesi. Dal punto di vista militare, Sharon ha adottato una serie di misure con l’intento di ridurre la minaccia terroristica e ristabilire il deterrente israeliano. La lentezza di questo processo, condizionata dall’impossibilità di ricorrere a un uso eccessivo della forza, ha creato forti pressioni pubbliche per la creazione di un confine unilateralmente tracciato da Israele che tenga conto dei bisogni militari e politici israeliani. E’ stata quindi la combinazione di considerazioni di natura strategico-militare e politiche a spingere Sharon ad adottare la politica della barriera e del ritiro unilaterale, due misure proposte originariamente dai laburisti e rifiutate da Sharon. Ma per comprendere completamente la strategia di Sharon occorre anche leggere il contesto all’interno della quale tale strategia si dipana. Dall’autunno del 2000, esiste un consenso in Israele sull’assenza di un partner credibile per un compromesso realistico. L’effetto più duraturo dell’Intifada è stato quello di distruggere la visione della sinistra israeliana di un nuovo medio oriente integrato e pacifico e della destra di una Grande Israele. L’insistenza palestinese sul ritorno dei rifugiati in particolare ha convinto l’opinione pubblica israeliana della futilità del negoziato e dell’impossibilità di raggiungere un accordo nel futuro prossimo. Il tema dei rifugiati ha portato all’attenzione degli israeliani il fattore demografico, cioè il fatto che entro il 2020, se i confini attuali rimangono invariati, Israele si troverà ad avere una minoranza ebraica che domina una maggioranza araba, cosa che porterebbe presto alla fine dello Stato d’Israele come Stato ebraico: la continuazione dell’occupazione, l’espansione degli insediamenti e le pressioni internazionali porterebbero, in un decennio, a una situazione in cui Israele potrebbe vedersi costretto ad accettare la soluzione di uno Stato solo. L’opinione pubblica israeliana, dunque, preferendo a larga maggioranza l’idea dello Stato ebraico, sostiene un’iniziativa governativa che, con o senza il consenso e la cooperazione palestinese, eviti che lo scenario dello Stato unico si possa materializzare. Mancando un partner con cui negoziare, la posizione del governo è dunque tesa a raggiungere un risultato ottimale che crea dei confini politici e geostrategici difendibili militarmente e diplomaticamente, senza doverne negoziare i tempi e i termini coi palestinesi. Questa è la strategia di Sharon. L’incontro con le realtà demografiche ne ha influenzato l’attaccamento ai territori, facendogli comprendere che i territori e i confini che essi comportano hanno smesso di essere un vantaggio e si sono trasformati in indifendibili a causa della natura asimmetrica del conflitto in corso. Meglio ridurre le linee di difesa quindi, scegliendo il terreno migliore da cui condurre difesa e contrattacco. In più, la mancanza di un orizzonte politico avrebbe prima o poi ridato fiato alla sinistra e alle concessioni che alcuni suoi leader ancora paventavano. L’idea del ritiro da Gaza e della barriera, entrambe le cose sostenute dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, permettono a Sharon di offrire quell’orizzonte politico che garantisce il mantenimento del consenso per continuare la guerra, se necessario, e del sostegno americano in caso di fallimento dei negoziati. Inoltre il disimpegno da Gaza toglie l’iniziativa ai palestinesi e agli attori internazionali ostili a Israele. Sharon ha compreso che le nuove realtà create dall’Intifada rendono indifendibili i confini sorti dalla Guerra dei Sei giorni. Occorre ritracciare dei confini difendibili, che possano eventualmente essere difesi, da Israele militarmente e dai suoi alleati a livello diplomatico e internazionale, oggi e in futuro. Questo è quanto ha fatto Sharon. Nel lungo periodo, la barriera e il disimpegno creeranno una nuova realtà sul terreno. La combinazione di limiti, dilemmi strategici e sfide di lungo periodo trasformeranno la barriera in un confine con il quale sia Israele sia gli americani possano dormire tranquilli, sia che la pace adotti quel confine sia che la pace continui a sfuggire. Per questo Sharon ha adottato una notevole flessibilità sul tracciato della barriera e ha usato ogni mezzo politico per salvare il suo progetto di disimpegno, negoziando il futuro confine con la Corte suprema, con il Partito laburista e con l’Amministrazione Bush. Nessun altro politico israeliano, dai tempi di David Ben Gurion, avrà altrettanta influenza sul futuro del paese. Sharon ha ritracciato la mappa geostrategica e i confini di Israele, fondando tale concezione territoriale su due principi: una solida alleanza con l’unica superpotenza e un consenso nazionale atto ad attutire le tensioni che emergeranno durante il ritiro. I nuovi confini tengono conto degli interessi nazionali nel senso più ampio: militare, politico, demografico, idrico, per il lungo periodo. Limitano al minimo l’effetto traumatico della rimozione di insediamenti perché ne includeranno la maggioranza, ma senza alterare la mappa demografica del paese, e tutto questo senza bisogno di negoziare con i palestinesi e senza danneggiare la deterrenza israeliana nei confronti dei vicini arabi e delle altre potenze regionali. Il che spiega, in conclusione, le intenzioni di Sharon. Di fronte alle sfide degli ultimi cinque anni, il premier israeliano ha mostrato che, in ultima analisi, l’unica ideologia in cui crede è la sicurezza del suo paese e la difesa, per generazioni a venire, dell’interesse nazionale anche a costo degli imperativi che emergono dalle passioni ideologiche che ha inseguito per tutta la sua vita di adulto e politico. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. 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