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Il Manifesto Rassegna Stampa
07.04.2005 Contro il nemico curdo
il quotidiano comunista si accoda dietro le bandiere del panarabismo

Testata: Il Manifesto
Data: 07 aprile 2005
Pagina: 10
Autore: Stefano Chiarini
Titolo: «Talabani presidente, sunniti fuori»
Le falsità iniziano dal titolo: "Talabani presidente, sunniti fuori": uno dei vicepresidenti iracheni, Ghazi al Yawar, è sunnita.
Proseguono nell'articolo, dal quale risulta che Talabani ha dichiarato di voler dividere l'Iraq, che il premier iracheno al-Jafari è filo-americano, che la costituzione irachena è stata scritta dagli americani e imposta al Consiglio di governo provvisorio.
Apprendiamo inoltre che Talabani vorrebbe cambiare la bandiera irachena con una copia di quella israeliana (con una mezzaluna al posto della stella di Davide, ma non importa, a Chiarini basta vedere i colori del vessillo dell'"entità sionista" per schiumare di rabbia).

A parte questi particolari di "colore" l'articolo è un perfetto esempio di quel nazionalismo arabo che nega i diritti di autodeterminazione e persino di autonomia, a tutti i popoli non arabi, siano essi ebrei, curdi o neri sudanesi.
L'autonomia del Kurdistan e le garanzie costituzionali alle minoranze (le maggioranze dei 2/3 e dei 3/4 richieste rispettivamente per approvare leggi respinte dal presidente della Repubblica e per modificare la costituzione, che tutelano tra l'altro, dal pericolo di una islamizzazione dell'Iraq) sono infatti viste dal giornalista del quotidiano comunista come una attentato alla sovranità nazionale irachena e al carattere "arabo" della nazione e un prodromo della guerra civile.

Quella guerra civile che soltanto i massacratori di curdi del partito panarabista Baath, la cui ideologia è fondamentalmente condivisa da Chiarini, e gli islamisti di al Qaida, vogliono veder scoppiare in Iraq.

Ecco il testo:

I partiti sciiti e curdi filo-Usa hanno perfezionato ieri, con l'elezione alla presidenza del leader curdo Jalal Talabani (225 voti su 275) e alla vicepresidenza dello sciita «neocons», Adel Abdul Mehdi, e del sunnita (e presidente uscente) Ghazi al Yawar, l'accordo per una divisione del potere su basi etnico confessionali che escluda completamente le rappresentanze sunnite contrarie all'occupazione, che porti avanti una divisione di fatto del paese e una «dearabizzazione» della Mesopotamia. Non a caso, appena eletto, jalal Talabani, divenuto presidente di un paese che, come ha più volte dichiarato, vuole in realtà dividere, ha tirato di nuovo fuori la possibilità di un cambiamento della bandiera nazionale la quale dovrebbe perdere colori e simboli del nazionalismo arabo. Un tentativo questo già portato avanti senza successo, a causa della reazione popolare, dal Consiglio di governo provvisorio e dallo stesso Talabani lo scorso maggio, con l'obiettivo di portare il nuovo vessillo - senza nessuno dei colori presenti nelle bandiere dei paesi arabi, (verde, nero, rosso) ma invece assai simile alla bandiera israeliana bianca e blu con al posto della stella di Davide una mezzaluna blu - alle olimpiadi di Atene dell'estate scorsa. La decisione statunitense di imporre all'Iraq una divisione delle cariche pubbliche sulla base di precise quote etnico-confessionali, e di andare avanti con la politica dei fatti compiuti, senza alcuna concessione ai rappresentanti sunniti contrari all'occupazione, non potrà che portare nuova acqua al mulino della resistenza ma anche a quello della guerra civile. Condizione questa necessaria per giustificare la presenza delletruppe straniere poste a guardia delle maggiori riserve di petrolio al mondo dopo quelle dell'Arabia saudita. Oggi dovrebbe essere nominato presidente del consiglio Ibrahim al Jafaari, vice presidente uscente e leader dell'ala filo-Usa del partito islamista sciita «al Dawa», ma per la lista dei ministri forse ci vorranno ancora un paio di settimane. La designazione di al Jafaari è frutto anch'essa di un'intesa tra i partiti, già presenti nel governo provvisorio, che hanno partecipato alle elezioni, ed in particolare: la lista unitaria sciita ispirata dalla massima autorità religiosa del paese, l'ayatollah al Sistani, e guidata da Abdel Aziz al Hakim, esponente del Consiglio Supremo per la Rivoluzione islamica in Iraq (filo-Iran e filo-Usa) - che si è aggiudicata il 51% dei seggi al parlamento eletto nelle elezioni truffa del 30 gennaio - e la lista unitaria curda del Partito democratico del Kurdistan di Massoud Barzani e dell'Unione patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani. La designazione del premier, sulla base della Costituzione provvisoria redatta dagli Usa e imposta lo scorso marzo al Consiglio di governo provvisorio, spetta al presidente Talabani e ai due vice-presidenti eletti ieri a Baghdad mentre sulla «zona verde» piovevano bombe e colpi di mortaio della resistenza irachena. I tre, ed è cosa di estrema importanza, dovranno inoltre designare all'unanimità i membri di una commissione incaricata di rivedere i confini della zona autonoma curda che secondo Talabani e Barzani, dovrebbe inglobare la città petrolifera di Kirkuk (a maggioranza arabo-turcomanna), destinata a diventare la capitale del nuovo staterello curdo a stelle e strisce. Jalal Talabani inoltre potrà rimandare qualsiasi legge a lui non gradita (ad esempio tutte quelle che riaffermano l'unità del paese, un federalismo geografico e non etnico, o che fissano un data per il ritiro delle truppe Usa, o che riaffermino il carattere arabo dell'Iraq) al parlamento che dovrà riapprovarle con una maggioranza di 2/3. Maggioranza impossibile da raggiungere senza il beneplacito dei partiti curdi dal momento che i sunniti arabi, emarginati dagli Usa, hanno solo 17 deputati, e gli sciiti arabi arrivano appena al 51% dei seggi. A questo punto qualcuno potrebbe pensare di emendare la costituzione provvisoria ma, di nuovo, per poterlo fare è necessaria una maggioranza dei 3/4 dei parlamentari. In tal modo, controllando i partiti curdi a loro fedeli (che rappresentano al massimo il 20% del popolo iracheno) gli Usa possono tenere in ostaggio l'intero paese. Qualche ingenuo potrebbe a questo punto dire che gli iracheni potranno sempre redigere una nuova costituzione che dia loro una piena sovranità. Ma anche questa strada è preclusa per il semplice motivo che la nuova costituzione, pur se approvata da un referendum, potrà comunque essere bocciata dalle tre province curde nel nord dell'Iraq.

In tal caso l'assemblea eletta il 30 gennaio verrà sciolta, saranno convocate nuove elezioni e l'intero processo ricomincerà da capo. All'infinito. E all'ombra dei carri armati americani
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